Capitolo 1- “A new student”
Il panorama si stendeva di fronte ai miei
occhi, che vagavano inquieti su ogni singolo particolare della distesa di prato
che si intravedeva dal finestrino dell'aereo.
Odiavo l'aereo, mi rendeva nervoso... Era come se non riuscissi più a
controllare tutto ciò che accadeva nella mia vita, troppo lontana dalla terra
ferma. Solo che quella volta ero stato "costretto" a prenderlo. Non
perché qualcuno me lo avesse imposto, ma perché da Vancouver a Londra di sicuro
non potevo muovermi a nuoto o con un transatlantico.
Ero andato nella capitale canadese dei giovani per trovare i miei zii, che non
vedevo da una vita ormai; avevo sfruttato l'occasione per svagarmi un po' prima
dell'inizio della scuola, che avrebbe ripreso in pochi giorni, tre, per essere
precisi.
Distolsi lo sguardo dalla distesa di verde, che era stata occultata da un manto
di nuvole vaporose, e mi sistemai meglio sul sediolino, trovandolo sempre più
scomodo di prima.
«Ehi, tutto bene?» Mi chiese il ragazzo seduto affianco a me, «sei
pallidissimo.» continuò lui, non rendendosi conto, forse, di essere ancora più
bianco di quanto non lo fossi io in quel momento.
«Sisi, grazie.» risposi gelido, finendo lì quel breve scambio di battute e
sistemandomi la mascherina in modo tale da poter chiudere tranquillamente gli
occhi.
Il viaggio continuò senza intoppi, dopo che mi fui addormentato.
Appena aprii gli occhi, quello che vidi furono due occhi che mi ricordarono
subito il verde della distesa di prato che avevo osservato mentre eravamo in
aria. La mascherina mi doveva essere scivolata perché ora c'era anche troppa
luce.
«Scusa se ti ho svegliato, ma siamo appena atterrati all'aeroporto di Gatwick»
Disse semplicemente lo stesso ragazzo che poco prima si era interessato al mio
pallore.
«E’ un tuo passatempo rompere le scatole agli
sconosciuti?» Esclamai io, dando libero sfogo al nervosismo che quel viaggio mi
aveva provocato.
Senza rivolgermi neanche una parola, mi fissò
dritto negli occhi e, sempre muto come un pesce, mi voltò le spalle e si
diresse verso l’uscita dell'aereo, percorrendo silenziosamente lo stretto
corridoio del velivolo.
Mi alzai, presi la borsa dal portabagagli posto sopra la mia fila di sediolini,
e seguii la fila di passeggeri, dirigendomi fuori dall'odiato mezzo di
trasporto.
L'abbraccio appiccicoso di mia madre
all'uscita dell'aeroporto durò più del previsto, e questo sicuramente non mi mise
a mio agio, dato che avevo paura che qualche mia conoscenza mi vedesse in
quella condizione. Una paura alquanto stupida perché, parlando onestamente, chi,
tra le persone che conoscevo, prendeva l'aereo così, tanto per?
Mia madre era di statura alta, capelli neri come i miei, e di bell'aspetto,
soprattutto per avere quarantasei anni appena compiuti. Mio padre, invece, a stento
mi ricordavo com'era fatto. Si era dovuto trasferire a Parigi per lavoro circa
sei anni prima, e questo lo costringeva lontano da casa per tutto l’anno,
eccezion fatta per alcune feste dell'anno.
Aveva gli occhi marroni e i capelli di un
biondo scuro; l'unico gene che avevo ereditato da mio padre era la forma degli
zigomi, duri e decisi, quasi austeri. Il colore dei miei occhi, invece, era di
una tonalità particolare di blu, scuro e profondo, con sfumature di grigio
scuro, che avevo, senza alcun dubbio, ereditato dal mio nonno paterno.
L’interrogatorio, come mi aspettavo che sarebbe successo, fu estenuante e durò
per tutto il tragitto verso casa, e anche una volta arrivati.
Mia madre, nonostante l’aspetto non lo desse a
vedere, era estremamente protettiva e aveva un fare altrettanto materno.
Non appena mi diede anche la più piccola pausa, sgattaiolai al piano di sopra,
chiudendomi in camera mia, ed ebbi finalmente la possibilità buttarmi sul
letto, che non vedevo da ben due giorni, date le continue nottate con gli amici
che avevo rincontrato lì.
Non appena toccai il materasso sprofondai in un sonno che durò tutto il giorno
seguente, e parte della notte successiva.
Il giorno seguente volò, tra acquisti
dell’ultim’ora e saluti generali ai familiari che non vedevo da un mese o giù
di lì.
Quando tornai a casa, dopo essere stato fuori
con mia madre per gran parte del primo pomeriggio a comprare libri e
quant’altro, iniziai ad agitarmi per l’inizio della scuola, come ogni dannato
anno.
Ogni volta che la scuola riprendeva, mi
sentivo sommerso da tutti gli impegni che iniziavano ad accavallarsi.
Soprattutto perché non potevo permettermi neanche la più piccola distrazione, poiché
bastava un soffio a far crollare la mia reputazione (che mi ero guadagnato
grazie alla mia posizione di capitano della squadra di palla a nuoto) e la mia
media, necessaria per gli studi che avevo intenzione di intraprendere dopo la
fine della scuola liceale.
E così, con queste mille preoccupazioni che mi
affollavano la testa, mi rimisi a letto, sperando che Orfeo non impiegasse
molto a venire a farmi visita.
«Jared, tesoro, alzati, su!»
L’urlo di mia madre arrivò chiaro e tondo alle mie orecchie
al primo colpo, poiché Orfeo, alla fine, non si era presentato lasciandomi
libero di progettare la mia entrata a scuola quella mattina. Ero anche
emozionato, a dire la verità. Non tanto per la scuola, ma perché ero contento
di rivedere i miei amici di sempre… Aaron, Max, Daniel e tutti gli altri. E poi
c’era Lydia…
Lydia. Come avevo fatto a non pensarci?! Avrei dovuto
chiamarla subito dopo essere atterrato! Me l’aveva espressamente chiesto!
Mi alzai di scatto dal letto, presi i vestiti che mi ero
preparato la sera prima sulla sedia della
scrivania ed entrai in bagno per prepararmi quanto più in
fretta possibile, sperando di riuscire ad incontrare Lydia sulla strada per la
scuola.
Lydia era la mia ragazza, ed era anche la studentessa più
popolare di tutta la scuola. Aveva lunghi capelli di un biondo scuro e degli
occhi color nocciola che creavano un bellissimo contrasto con la chiarezza
della sua pelle.
La amavo, questo era sicuro.
Scesi in fretta le scale di casa mentre mi mettevo la
cartella a tracolla, e, appena fui arrivato in cucina, salutai velocemente mia
madre e presi, altrettanto velocemente, il solito cornetto che mia madre
comprava al bar vicino casa per l’inizio di ogni anno scolastico.
«Grazie ma’, devo scappare!» Le dissi, chiudendomi la porta
alle spalle con un leggero tonfo e iniziando la solita strada che portava alla
mia scuola, guardandomi a destra e a sinistra per vedere se, miracolosamente, Lydia
si trovasse a passare di lì.
Era su tutte le furie, ne ero sicuro al mille per mille.
Nonostante l’avessi continuata a cercare come un disperato,
non la vidi da nessuna parte.
Appena arrivai al cortile dell’edificio, intravidi
immediatamente i miei compagni di squadra di palla a nuoto che parlottavano tra
loro, raccontandosi delle proprie vicende estive appena volte al termine, e
salutandosi con calorose pacche sulle spalle.
«Ehi, guardate chi c’è! Il grande capitano Maycon è
arrivato!» Esclamò Daniel con un sorriso spavaldo stampato sulle labbra.
«Sì sono arrivato, e sono pronto a dettare legge!» Dissi,
dando corda a Daniel, il cui sorriso si allargò ancora di più. «Da quanto
tempo!» Esclamai poi, avvicinandomi ancora di più al gruppo e abbracciandoli
uno ad uno.
«Ehi, stai lontano, non vorrei che la gente pensasse che
siamo dei ricchioni.» Disse Joshua, poco prima che lo abbracciassi, con un tono
di voce che sembrava tutto tranne che scherzoso.
«Sono più etero di tutti loro messi assieme, se si contano
tutte le gnocche della scuola che mi sono fatto.» Ribatté Aaron, il belloccio
della squadra, con un sorriso malizioso dipinto sulle labbra.
«Intanto però io mi sono fatto tua madre, tu no.» Replicò
Max, con il suo solito fare da spaccone.
Non riuscii a trattenere un sorriso - ogni anno, ogni volta
che tento di abbracciare Joshua, partiva questo scambio di battute.
Entrammo nell’aula d’inglese (che bell’orario: alla prima
ora inglese!) e ci sedemmo ai soliti posti di sempre - io al centro; alla mia
destra Aaron, alla mia sinistra Max, davanti a me Daniel e, infine, dietro di
me Joshua.
«Ho sentito che c’è un nuovo arrivato, un Exchange student.
Viene dalle parti dell’America, non ho capito con precisione.» Mi sussurrò
Aaron dalla mia destra.
«Un nuovo studente?» Chiesi, più per riflettere sulla
notizia che per altro. «Ma quindi quest’anno ci sarà il B.C.S.?»
«Boh… Penso di sì… Di solito è così» Rispose il ragazzo.
«Perché scusa? Ti interessa per caso?» Domandò.
«Se veramente voglio fare medicina, mi serviranno quanti più
crediti riuscirò ad accumulare.» Risposi, in modo pratico, e chiudendo lì la
questione.
Aaron non si sbagliava - c’era veramente un nuovo studente che avrebbe frequentato la nostra scuola quell’anno, o meglio, quel semestre. Si chiamava Alex, veniva da Vancouver e aveva occhi verdi come un prato a fine estate.
Spazio dell'autore:
Hello! ^^
Allora, cercherò di non perdermi in ciance: ho scritto questa
storia un po' di tempo fa, nel periodo in cui stetti a Londra per 6
mesi, e necesitavo di una sorta di valvola di sfogo, sentivo la
necessità di dire a qualcuno quello che mi aspettavo e come mi
sentivo laggiù. E niente... Spero vi piaccia più di
quanto piaccia a me!
Buona lettura, e mi raccomando, fatemi sapere cosa ne pensate ;)