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Autore: Ita rb    29/07/2013    2 recensioni
Un solo momento fatto di promesse e illusioni che confinano con l'irrealtà, laddove il silenzio della notte sa celare tanti più mostri di quelli che il giorno erodono le fondamenta dello spirito umano.
Citazione dal testo: [...] Sospirò appena, lievemente, abbassando la maniglia e lasciando che la porta cigolasse sui suoi cardini quel tanto che bastava a farlo sgusciare fuori dalla stanza, libero di muoversi nel corridoio vuoto e oscuro del Kinzanji; dopodiché procedette a passi lenti e dubbiosi, posando le dita sul muro alla sua destra e lasciandole scivolare di pari passo a lui in quell’oscurità avvolgente fin quando non raggiunse la stanza dell’altro. [...]
Genere: Angst, Fluff, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Genjo Sanzo Hoshi, Komyo Sanzo
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Note: Salve a tutti, gentili ragazzuoli che passate nel fandom, aprendo la mia fic per errore o volontà ~
Erano giorni che mi ripetevo di voler scrivere una storia come questa, sebbene non sia altro che un missing moments che si conclude con la ripresa di una scena tratta dal manga della sensei Minekura.
Spero vi piaccia e vi annuncio subito che si tratta di una storiella senza pretese, perché non tratta neppure del tragico momento cui faccio riferimento dopo la seconda citazione dei Mecano ~ (questa è stata inserita per una coerenza d’idee e immagini che si sono susseguite nella mia mente: nulla più)
Ho sempre visto l’amore filiale di Koryu come qualcosa di davvero grande e sconfinato, senza contare che adoro immaginare scene di vita quotidiana tra lui e il maestro, perché le reputo davvero dolcissime; non a caso spero di aver reso onore alle mie idee in queste poche pagine, affinché anche voi possiate vederla dalla mia ottica.
Xoxo
 

Ita rb

Figlio della luna

 

Se la luna piena
poi diviene
è perché il bambino
dorme bene
ma se sta piangendo
lei se lo trastulla
cala e poi si fa culla
1

 
La notte aveva spesso paura che se ne andasse via, scomparendo senza avvisarlo per viaggiare nel mondo a sua insaputa, sebbene l’unica volta che fu in grado di farlo si guardò bene dal mostrarsi tanto insensibile – dopo tutto aveva raccolto quel bambino con l’intento più amorevole che l’avesse mai sorpreso in tutta la sua esistenza, desideroso di donargli tutto l’affetto cui avrebbe avuto bisogno nel corso degli anni a dispetto di quello che gli era stato negato alla nascita; nonostante questo, mentre si rigirava nelle lenzuola fresche in preda alla calura estiva che tanto detestava, il suo cuore pulsava veloce, fin troppo simile all’incalzare di un tamburo. Le sue palpebre infantili si muovevano appena nel sonno tormentato dagli incubi, gli stessi che, probabilmente, avrebbe avuto nel letto materno, sicuro che qualche pericolo oscuro fosse in grado di allontanarlo dalla donna che l’aveva partorito; Komyo Sanzo non era certo questo per lui, ma allo stesso tempo rappresentava tutte le figure possibili della sua fanciullezza, comprese quelle che non aveva mai conosciuto se non in un assetto teorico.
Le ciglia bionde parvero tremare nell’oscurità della sua stanza, carezzando l’aria con il loro splendore egocentrico e misterioso – lunghe e ricurve come se fossero state composte da polvere di stelle, batterono più volte per scacciare i pensieri inconcludenti che lo rendevano inquieto; poi si adagiarono contro la pelle candida al di sotto delle sopracciglia e i grandi occhi crepuscolari si fissarono sul soffitto alto e chiaro, candido come il latte, prima di cercare nel nulla una figura che, obbiettivamente, non avrebbero mai potuto scorgere tra quelle mura.
Dopo qualche istante frastornato, Koryu comprese che la locazione in cui si trovava non gli avrebbe permesso altro che il tumulto interiore, lo stesso che continuava a gracchiare contro il suo ventre nell’attesa del silenzio infranto che si mozzò soltanto quando un gemito roco fuoriuscì dalle sue labbra tese che, inconsciamente, erano vicine al pianto e a quella ricerca impossibile: avrebbe dovuto attendere il sorgere del sole per cercarlo nel tempio di Kinzan, ma sapeva esattamente quale fosse la sua stanza e, vagamente timoroso d’infrangere un tabù che spesso lo pungolava nel profondo, decise di alzarsi.
Portando le mani in terra si sollevò appena dal giaciglio umido di sudore, così fece leva sulle sue gambe e sgattaiolò vicino alla porta della sua stanza, posandovi il palmo con angoscia crescente; gli sarebbe bastato vederlo per un solo istante, scorgendone il respiro al di là dello spazio che lo separava da lui, rammentando i giorni lontani che, confusi, sembravano carezzargli la memoria al pari del sorrisi gentili del maestro.
Sospirò appena, lievemente, abbassando la maniglia e lasciando che la porta cigolasse sui suoi cardini quel tanto che bastava a farlo sgusciare fuori dalla stanza, libero di muoversi nel corridoio vuoto e oscuro del Kinzanji; dopodiché procedette a passi lenti e dubbiosi, posando le dita sul muro alla sua destra e lasciandole scivolare di pari passo a lui in quell’oscurità avvolgente fin quando non raggiunse la stanza dell’altro. Attese qualche istante al di fuori della stessa, sicuro che, se avesse solo bussato sulla superficie lignea, sarebbe stato in grado non solo di svegliare lui, ma di destare qualcuno dalle orecchie fine; perciò decise di aprirla senza chiedere permesso e quando lo vide sveglio, immerso nel candore lunare dinanzi alla finestra aperta, quasi trattenne un sorriso fuori dal comune – troppo colmo di un sincero sollievo.
«Koryu», disse con voce soffice, senza voltarsi, lasciando che i capelli guizzassero appena contro la pelle del suo viso maturo al ritmo della brezza serale del Togenkyo «come mai sei qui?»
Quella domanda lo sorprese un poco e quando abbassò il capo, imbarazzato per il modo villano con il quale era riuscito a interrompere i pensieri dell’altro, si diede dello sciocco da solo – come avrebbe potuto giustificarsi senza fare la figura del bambino? «Io…» tentò di trovare le parole, ma il sorriso che gli venne rivolto poco dopo le mozzò in gola, inducendolo quasi a rivelare il segreto che aveva nel cuore; eppure questo non si mosse, carezzato dall’intesa che aveva con l’altro.
«Non importa», disse subito il maestro, allungando una mano nella sua direzione e facendo frusciare appena la veste da camera che indossava di sovente, quando non aveva voglia di dormire o andare in giro per il tempio, chiudendosi semplicemente in quelle quattro mura.
Koryu dovette ammettere che si tranquillizzò non poco a quel suono, sicuro del fatto che il monaco avesse compreso il suo cruccio da una mera espressione, più di qualunque spiegazione avrebbe saputo dare ad alta voce. Si mosse lentamente verso di lui, dopo aver chiuso la porta alle sue spalle, procedendo in silenzio verso la mano tesa del maestro che, da quando l’aveva indirizzata verso di lui, non aveva lasciato che si muovesse neppure di un millimetro. «Come mai siete ancora sveglio, maestro?» Domandò, raggiungendolo e porgendogli la mano a sua volta solo per sfiorare le sue dita e vederle scivolare via, lungo un fianco.
«Anche tu sei sveglio, da quello che vedo», sussurrò l’interpellato con uno sguardo d’intesa, prima di rivolgerlo nuovamente verso la frescura che penetrava dalla finestra schiusa che batteva contro la caviglia destra, sita sul davanzale con aria elegante.
«L’ho chiesto prima io», proruppe con una nota capricciosa nella voce, sentendolo ridacchiare leggermente; aveva le gote arrossate dall’imbarazzo e si sentiva molto più infantile che mai in quella situazione, perché non aveva saputo resistere alla tentazione di raggiungerlo, nonostante sapesse perfettamente che stesse bene.
«Hai ragione, Koryu», fece con aria divertita, mentre si portava una mano alle labbra, nascondendo quel sorriso dolce con fare educato. «Sono ancora sveglio, purtroppo, perché non riesco a prendere sonno», aggiunse poco dopo, con quell’enigmatica espressione che il piccolo non sapeva ancora cogliere del tutto, osservandolo.
«Questo lo vedo anch’io», mormorò imbronciato «era quasi scontato», borbottò subito dopo, distogliendo lo sguardo e indirizzandolo verso il posacenere ricolmo di cicche che il monaco aveva lasciato volutamente, accanto alla pipa che continuava a esalare vapori di tabacco densi e grigiastri. «Non è bene fumare a quest’ora»lo rimproverò, com’era tipico di lui che, sentendo quell’odore, arricciava il naso.
«Lo so,» disse «ma la notte e lunga e avevo soltanto voglia di pensare in attesa che giungesse il sonno.»
Quelle parole lo colpirono e Koryu non poté far altro che sollevare lo sguardo verso di lui, colpito dalla naturalezza con la quale le aveva pronunciate.
«Avevo paura che ve ne foste andato di nuovo», disse, inconsciamente, senza riuscire a trattenersi, nonostante la parola paura fosse oltremodo umiliante per lui che tentava di essere meno d’impaccio possibile per il suo maestro. Lo vide sorridere gentilmente verso di lui, sapendo benissimo che non c’era motivo di spiegarlo, poiché questo l’aveva già compreso precedentemente; non appena il ragazzino ebbe fatto il suo ingresso in quella stanza, infatti, il dubbio l’aveva colto istantaneamente e quando il suo modo di fare assunse le tonalità indignate tipiche di quando voleva nascondere qualcosa, questo aveva compreso subito quale fosse il motivo della sua irruzione notturna.
«Non devo andare da nessuna parte, Koryu», lo rassicurò, allungando un braccio per cingergli le spalle, stringendolo a sé in un abbraccio che lo fece traballare appena dalla sua posizione eretta e fintamente fiera che aveva adottato.
Dinanzi a lui era pur sempre un bambino e non sarebbe mai stato in grado di crescere troppo, avendolo tanto vicino senza pronunciare ad alta voce i suoi crucci. «Lo so», ammise, lasciando che quella vicinanza lo rassicurasse un po’, sentendosi davvero sciocco per aver sospettato una fuga dell’altro; ma aveva il costante sentore che questo fosse in pericolo durante la notte, sebbene non riuscisse ancora a capacitarsi del motivo.
«Allora non avere paura di nulla», fece sommessamente, mormorando sul suo capo dopo aver chiuso gli occhi, inspirando il profumo fresco dei capelli dorati del piccolo. «Sono qui», disse «e non ho alcuna intenzione di lasciarti solo.»
«Non ho detto questo», mentì spudoratamente, affondando il viso contro il tessuto pallido della veste altrui, aggrappandosi alla stessa con una piccola mano dal dorso escoriato; il cuore di Komyo mancò un battito quando, schiudendo gli occhi, si accorse di quella piccola ferita, ma non disse nulla, sapendo perfettamente che il solo ammettere la sua paura puerile l’aveva messo a disagio – se avesse fatto notare al giovane di aver compreso la natura dei suoi lividi, così come di quella sbucciatura, probabilmente lo avrebbe allarmato, costringendolo a rintanarsi oltre le alte mura che aveva imparato a costruire nel corso degli anni: doveva mostrarsi innocente tanto quanto lui per continuare ad averlo vicino, lo sapeva bene, perché se solo avesse fatto parola dei maltrattamenti degli altri bonzi, probabilmente questo ne avrebbe sofferto come non mai; dopo tutto, Koryu era non solo orgoglioso, ma anche desideroso di non gravare sulle spalle del suo maestro.
«Allora scusami, ho capito male», scherzò lievemente, battendo una mano sulle sue spalle e lasciando che questo si prendesse tutto il tempo che desiderava prima di allontanarsi da lui; dopodiché, osservando quelle pozze ametista che lo fissavano con aria triste e allo stesso tempo nostalgica, Komyo gli posò un lieve bacio al centro della fronte, sorridendo subito dopo averlo visto arrossire, imbarazzato per quel gesto quanto da quelli precedenti.
«Se vi vedesse qualcuno, maestro, equivocherebbe», si lamentò, ben conscio del fatto che i monaci sapevano essere terribilmente maligni nei suoi riguardi, così come in quelli dell’altro; poi scosse la testa, allontanandosi da lui con un’espressione quasi matura, alzando il mento con orgoglio prima di avvicinarsi alla porta della sua stanza.
«Ma non c’è nessuno qui, Koryu», lo chiamò appena, vedendo il cipiglio irritato di un ragazzino che aveva voglia di crescere presto, sfuggendogli forse, come un bambino desideroso di diventare grande e volare via dal nido familiare.
«Non importa», disse il giovane, raggiungendo l’uscio e sorridendo appena, dandogli comunque le spalle per non far vedere quell’espressione infantile e naturale che era sorta sul suo viso. «Sta diventando un vizio e io sono troppo grande per queste cose», fece, fingendosi irritato e sentendo l’altro ridacchiare dietro di sé.
«Va bene,» fece il monaco, posando il capo contro il muro e osservando le piccole spalle fiere del ragazzino che aveva visto crescere «va bene», aggiunse.
«Buona notte, maestro», mormorò Koryu, prima di abbassare la maniglia e scivolare fuori frettolosamente, senza attendere l’augurio altrui che, nonostante tutto, sapeva perfettamente che sarebbe arrivato alle sue orecchie.
«Che caratterino…» commentò il bonzo, battendo le palpebre con un’espressione sconcertata, prima di sorridere nuovamente all’etere, tornando poi a fissare la notte al di là della finestra aperta «… buona notte, Koryu.»
 
Quando Koryu fu tornato nella sua stanza aveva il cuore più leggero, la preoccupazione sembrava essere svanita nel nulla dal momento in cui i suoi occhi si erano posati sulla figura dell’altro, ma quell’abbraccio l’aveva turbato non poco – sembrava mormorare qualcosa di terribile che ancora doveva compiersi, come un presagio, quasi quanto il bacio sulla sua fronte.
Si portò una mano laddove le labbra del monaco avevano sostato qualche secondo e sfiorandola si lasciò cadere sulle lenzuola sfatte del giaciglio fastidiosamente rigido che si posava contro il muro di una stanza austera e sterile; avrebbe tanto voluto retrocedere nel tempo, tornando un piccolo bambino che non poteva essere tenuto lontano dalle cure di Komyo – ma quel pensiero lo disturbava al contempo, perché era in grado di farlo sentire infantile e lontano dal cavarsela da solo: sapeva che, prima o poi, sarebbe dovuto essere sufficientemente maturo per andare avanti senza la protezione del maestro, sebbene ignorasse il motivo di una simile sensazione.
«Il pesante è la radice del leggero, la quiete domina l’agitazione», disse d’un tratto, facendolo voltare nell’oscurità della sua stanza, rabbrividendo appena. «Perciò il nobile, viaggiando un giorno intero, non si allontana dalla sua pesante carrozza. Sebbene ci siano un accampamento e torri di guardia rimane calmo e al di sopra di tutto questo», fece ancora, evanescente, raggiungendo le sue orecchie pur non riuscendo a mostrarsi dinanzi a lui; allorché Koryu comprese che quello doveva essere un sogno: probabilmente aveva già perso i sensi contro il cuscino, troppo stanco per reggere oltre in quella veglia insensata. «Ma che ne è se il padrone di diecimila quadriglie prende alla leggera l’impero? Se si comporta alla leggera, perderà la radice; se avventatamente, perderà il capo.2»
«Cosa significa?» Soffiò appena, schiudendo le palpebre per chiuderle subito dopo, udendo il mormorio lontano che lo induceva al silenzio.
«Buona notte, Koryu.»

 

Dimmi luna d'argento
come lo cullerai
se le braccia non hai
3

 
La solennità con la quale il suo sguardo si posava sui monaci che aveva attorno sembrava appartenere a un altro mondo, così distante da quella che l’aveva sempre accompagnato, poiché brillante, non più fievole e torva. Lo sguardo serio e ferito sembrava voler annunciare qualcosa con la sola prestanza del silenzio, ma non esisteva più nessuno in grado di udire i sussurri della sua anima, perciò doveva far tuonare la sua voce – e lo fece, oh, se lo fece.
«Ieri notte fui convocato dal venerabile maestro…» disse, guardando dritto dinanzi a sé il monaco che tanto sembrava non volergli dare adito «… che prima di morire mi diede il mio ufficiale nome buddista», aggiunse, lasciando che la benda che copriva il suo capo scivolasse lentamente verso il basso, passando tra le sue dita sottili fino a infrangersi sul pavimento della grande sala. «Genjo Sanzo. Tale sarà da questo momento il mio nome.»

 

 
1 Testo di “Figlio della luna” dei Mecano.
2 CIT N.26 trascritta da Lao-tsu dal testo “Il libro del Tao: Tao-teh-ching”.
3 Testo di “Figlio della luna” dei Mecano.
   
 
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