Anime & Manga > Axis Powers Hetalia
Ricorda la storia  |      
Autore: Puolukka Sorbet    04/08/2013    1 recensioni
La distanza talvolta può essere un ostacolo. Non poter vedere la persona a cui più si vuol bene, non sapere ciò che le succede, il non poterla aiutare nei momenti più difficili o festeggiare con lei in quelli più importanti. (Colonial!)America è preoccupato che (British Empire!)Inghilterra si possa dimenticare di lui e vivendo lontano l'uno dall'altro il sentimento non fa che incrementare.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
“E' già sera, soldatino...”

“Ma io non ho paura, sai?”

“Io non ho paura...”

La volta celeste era ricoperta da stelle luminose, ben visibili da quella distesa di terra denominata da tutti “Nuovo Mondo”, dalla sua scoperta nel 1492 in molti avevano iniziato ad occuparla e civilizzarla, principalmente le potenze Europee.

“Guarda soldatino! Una stella cadente!”

Nella piccola villa di campagna dei territori della British America (ovvero la parte del Nord America sotto il controllo dell'Impero Britannico), risiedeva la piccola colonia, conosciuta anche con il nome di Alfred tra gli abitanti.

“Dovrei esprimere un desiderio! Ecco io...”

Le luci dell'abitazione erano spente, ma affacciato ad una finestra del piano terra si poteva scorgere una piccola figura, tenta ad osservare il cielo con i suoi occhi blu limpidi e puri tanto da rispecchiare la sua innocenza.

“... Io vorrei che Arthur tornasse presto.”

La finestra apparteneva alla stanza del suddetto “bambino”, Alfred, dai capelli di un colore biondo cenere e un piccolo ciuffetto all'insù. Quest'ultimo aveva accanto a sé un piccolo soldatino di legno, leggermente usurato, e rivolto anch'esso verso il lato che affacciava all'immenso giardino.

“Lo sai, soldatino? Arthur mi ha detto che anche se siamo lontani l'uno dall'altro, lui veglia sempre su di me!”

Alfred si voltò verso il pupazzo di legno e sorrise sornione.

“Non importa quanto distanti siamo, lui è sempre qui con me!”

Il panorama che si intravedeva dalla finestra sembrava essere uscito direttamente da un dipinto. Il giardino era curato nei minimi particolari: i fiori e le piante erano pieni di vita, come se niente gli venisse mai a mancare; si estendeva per qualche kilometro, ma nonostante questo era in perfetto stato. L'Estate era ormai alle porte per cui i fiori erano nel pieno della fioritura, tanto da attirare molti insetti, quali le lucciole che in contrasto al buio pece, creavano un'atmosfera quasi magica.

“Mi ha anche detto che il cielo ci connette.”

L'ultima volta che Inghilterra, altresì noto come Arthur, era venuto a trovare America era stato esattamente l'Estate dell'anno prima. Era rimasto per tre mesi con lui e gli aveva portato alcuni ricordini dall'Europa. Avevano trascorso una bellissima vacanza assieme e quando Arthur aveva annunciato la sua partenza, la colonia non voleva lasciarlo andare, tanto da avergli quasi strappato la manica del cappotto.

“Spero torni presto... Mi manca davvero tanto...”

Normalmente non era solito piangere l'assenza dell'altro, dopotutto ormai aveva compreso che doveva cercare di essere più autonomo e non contare sempre sulla sua presenza, ma in momenti come questi, di fronte ad un panorama stellato, ed alla distesa verde che l'Inglese tanto ama, non poteva non annegare nei ricordi dei bei momenti passati con lui.

Era così intento ad ammirare la bellezza di madre natura da aver perso la concezione del tempo. Si stropicciò gli occhi e sbadigliò, poi un altro e un altro ancora.

“Credo sia meglio che vada a dormire. Mi piacerebbe guardare un altro po' le stelle con te, soldatino, ma è ora di andare al letto.”

Prese il piccolo pupazzetto di legno e si buttò contro il soffice materasso bianco e candido. Il letto era molto grande, poiché lo condivideva con Arthur, dato che la maggior parte delle volte non voleva che l'Inglese andasse nella stanze degli ospiti, diceva sempre “Ora che sei qui con me, voglio che tu mi stia accanto sempre! Quindi devi anche dormire insieme a me, va bene?” e di certo a quella richiesta che trapelava speranza, non potette non accettare.

Alfred e Arthur non erano affatto simili, tranne forse per il colore dei capelli, anche se quelli di Arthur erano leggermente più accesi e disordinati (“indomabili” diceva sempre lui), mentre i suoi occhi erano di un verde limone intenso, che la piccola colonia adorava moltissimo, difatti era stato lui stesso a definirli “verdi quanto il giardino di cui ti prendi sempre cura, Arthur, se non di più!”. Di personalità, invece, erano del tutto diversi. Il primo era sempre in cerca di nuove avventure e non temeva praticamente nulla (tranne i fantasmi, ma non lo ammetterà mai, anche se Arthur sapeva già di questo suo tallone d'Achille, ma non ne aveva mai fatto parola con nessuno) e ritornava sempre con i pantaloni stracciati, i capelli ricoperti di fango e la maglia quasi inesistente (quando gli chiedeva cosa diavolo avesse combinato rispondeva allegramente che aveva vissuto la più avventurosa avventura possibile). Il più grande invece era molto risoluto e pacato, accurato nei minimi particolari da come si vestiva, a come si comportava, all'aspetto del suo giardino, ma principalemente alla sua reputazione, dopotutto lui era il rappresentante dell'Impero Britannico. Una persona non molto portata per le relzioni sociali, ma America sapeva che in fondo aveva un lato molto dolce che mostrava solo in casi particolari (ovvero ogni qual volta stava con il suddetto, quando si occupava del giardino e quando raccontava le sue storie fatastiche sui suoi amici immaginari).

Insomma, i due andavano molto d'accordo nonostante le differenze caratteriali.

Oltretutto entrambi rappresentavano le proprie nazioni (nel caso di Alfred colonia, meglio nota come “Nuovo Mondo” o anche “America settentrionale”).

Difatti l'Impero Britannico era venuto in possesso delle 13 colonie durante la colonizzazione delle “Indie” (quel che credevano di aver inizialmente scoperto), non solo da parte del primo, ma anche da altre nazioni europee come Francia (il quale Arthur disprezzava fermamente), Spagna, Protogallo e Olanda.

I possedimenti britannici si estendevano in lungo e in largo per tutto il mondo, conquistando nuovi territori, sconfiggendo nemici (principalmente quella rana perversa di Francia, così soprannominata da lui) e ampliandosi sempre più.

Tutto questo potere però doveva essere gestito, il che richiedeva molto impegno da parte della Madre Patria che si occupava anche degli scambi commericali dei suoi territori. Ciò comportava la costante assenza di Arthur.

La povera colonia passava quindi la maggior parte del suo tempo a girovagare per le sue terre, sempre attento a non avvicinarsi ai confini del meridione, facente parte del territorio spagnolo (Arthur gli aveva categoricamente vietato di avvicinarsi a qualsiasi altro territorio che non fosse un suo possedimento).

America però, non era un tipo da abbattersi facilmente, trovava sempre qualcosa da fare che non lo annoiasse o non evidenziasse la mancanza dell'altro. Aveva fatto molte amicizie con i coloni presenti, a cui ovviamente nascondeva la sua vera identità. Aiutava molto i suoi abitanti, anche con i lavori pesanti (con la forza che si ritrovava non c'era da stupirsi).

I giorni passarono in fretta, e di Arthur neanche l'ombra. America era molto preoccupato per lui, preoccupato che fosse ammalato, ferito o peggio, ma più di tutto era preoccupato che si fosse dimenticato di lui.

Temeva. Temeva più di qualunque altra cosa che ad Arthur non importasse più niente di lui. Giorno dopo giorno questa preoccupazione aumentava incondizionatamente. Sapeva che non lo avrebbe mai abbandonato o dimenticato, ma dentro di sé provava queste orribili sensazioni che non riusciva a levarsi dalla testa e che crescevano sempre più.

E poi accadde. Durante un pomeriggio invernale, mentre il piccolo giocava nella neve, rincorrendo gli animali selvatici che, per loro sfortuna, si inbattevano in lui.

Una figura, ben nota alla colonia, era ferma in mezzo alla distesa bianca.

Arthur indossava un cappotto pesante, che lo ricopriva da capo a piedi, dietro di sé la carrozza, con tanto di cocchiere che deponeva i suoi effetti personali (bagagli su bagagli, sicuramente pieni di regali come è solito portare), il quale nel frattempo osservava con sguardo impassibile ciò che lo circondava. Sembrava perso a fissare la grande villa che si imponeva di fronte a lui come se fosse la prima volta che i suoi occhi si posassero su di essa, quando un urlò lo risvegliò dai suoi pensieri. Ammiccò gli occhi svariate volte per riprendere conscienza di ciò che lo circondava e si rese conto di essere disteso (o meglio schiacciato) contro la morbida neve, e sopra di lui un iper sprizzante America che continuava a blaterare frasi senza senso, ed un'espressione che esprimeva tutta la sua felicità nel rivederlo.

L'Inglese, appoggiandosi sui gomiti che sprofondarono leggermente nella candida distesa bianca, esibì uno dei suoi più sinceri sorrisi (che erano tanto rari quanto il sole su Londra). America si sciolse completamente e lo abbracciò così forte da strozzarlo. Arthur nella sua vivida felicità dovette leggermente svincolarsi dalla ferrea presa della sua colonia, per poi ricambiare dolcemente il gesto d'affetto.

Il sole era ormai già tramontato e la luna era ben visibile. Le nuvole erano pressoché assenti, anche se non si riuscivano a distinguere molto bene al buio. Avevano chiacchierato tutta la sera riguardo cose futili, America non smetteva di raccontare ogni singolo episodio della sua vita dal momento in cui aveva, per l'ultima volta, ricevuto la visita dell'altro, il quale ascoltava pazientemente, anche se leggermente assonnato e praticamente esausto dopo la lunga giornata passata per lo più a viaggiare.

Prima di coricarsi, gli aveva mostrato come avesse tenuto intatta ogni singola cosa, poiché sapeva che quest'ultimo prima o poi avrebbe fatto comunque il suo giro di perlustrazione per controllare i disastri che aveva combinato in sua assenza.
Fortunatamente, per la gioia di Arthur, era tutto in ordine al proprio posto, tranne qualche vestito sporco buttato qua e là ed una sedia rotta (a cui il piccolo aveva risposto con un sorrisetto timido e lo sguardo distolto ad ammirare il nulla).

Come al solito l'inglese era stato trascinato nella stanza del più piccolo, che non vedeva l'ora di potersi accoccolare accanto a lui. Difatti non appena distesi America si era stretto in una morsa possente sull'altro, appoggiando la testa sul petto e sorridendo sornione. Ovviamente Arthur preso di sorpresa si era irrigidito come un tronco di legno, per poi girarsi e abbracciare a sé il piccolo che non esitò a emettere una leggera risatina soffocata, dare un ultimo sguardo al più grande ed entrare nel mondo dei sogni.

I giorni successivi passarono relativamente tranquilli, tra passeggiate per le campagne e talvolta anche qualche capatina in città, a felici momenti passati a giocherellare nel giardino, anche se Arthur aveva cercato, inutilmente, di spronare il più piccolo a proseguire con i suoi doveri (quali studiare, poiché dopotutto, nonostante sia una nazione, una formazione culturale era pressoché necessaria, anzi totalmente necessaria secondo l'inglese), ma America riusciva sempre a sviare e trascinare l'altro in lunghe camminate, talvolta anche sotto un sole cocente, a cui non era affatto abituato (tenendo conto che nel suo Paese “il sole è inesistente” come aveva constato America).

I due amavano passeggiare assieme, principalmente la colonia, essendo una grande amante della natura poiché secondo lui era “ogni giorno un'avventura nuova”. Anche Arthur condivideva questo pensiero (nonostante non fosse un grande amante dell'avventura, o almeno questa era l'impressione che dava a vedere al più piccolo) e non esitava ad accettare tutte le strambe proposte dell'altro che sembrava quasi ammaliato dal britannico, per qualche strana ragione; lo guardava con un'aria assorta e con occhi blu brillanti tanto quanto i raggi solari riflessi sulla superifice dell'acqua.

Era una strana sensazione essere amati. Quasi aliena ad Arthur che di certo non aveva trascorso un'infanzia così allegra. Proprio per questo voleva solo il meglio per la sua amata colonia. Vero, non era molto presente, aveva importanti mansioni da svolgere nella sua Patria, ma questo non lo indulgiava a far visita ad America. La Gran Bretagna era in possesso di molte colonie, a cui anche era molto affezionato e di tanto in tanto visitava, ma tra queste le tredici colonie del Nuovo Mondo erano speciali. Dal punto di vista economico erano prosperose e utili per molti fini commericiali, ma per Arthur Alfred era anche una persona molto importante.

Una persona che aveva imparato ad amarlo.

Di certo aveva impiegato un po' ad abituarsi a questo sentimento, ma aveva imparato ad apprezzarlo e ricambiarlo con tutto l'affetto possibile.

Di tanto in tanto America gli dava piccoli pensierini, trovati in giro durante le sue “scorribande” per le campagne (o anche per le città quando non trovava niente di interessante), o lo abbracciava affetuosamente come se fosse la cosa più preziosa al mondo.
Arthur, dal canto suo, era leggermente più impacciato nel mostrare così apertamente le sue emozioni, talvolta era anche capitato che restasse imbambolato a rimuginare sul da farsi quando il piccolo gli aveva consegnato una lettera, scritta da lui, con tanto di bacio sulla guancia, per poi titubante aspettare impaziente una reazione da parte dell'inglese che tardava fin troppo ad arrivare.

America però non si era mai lamentato e non aveva mai evidenziato questo suo difetto. Difatti sapeva che il suo tutore non era affatto bravo a gestire le relazioni sociali, l'aveva compreso dal mondo in cui si comportava sia con lui che con gli altri (per non parlare del suo brutto carattere quando si ubriaca), ma non aveva mai biasimato l'inglese. Francia gli aveva raccontato (quando passava di tanto in tanto a fargli visita, per lo più per infastidire il suo nemico, sapendo che non apprezzava che qualcuno si avvicinasse alla sua colonia, principalmente “una rana perversa” come lui) che Arthur era sempre stato introverso fin da quando era piccolo, quindi non aveva mai imparato bene ad aprirsi agli altri. “Però” aveva aggiunto, “La tua presenza nella sua vita, mon petit Amèrique, giova davvero molto alla sua persona.” Ma alla colonia non dispiaceva affatto come l'inglese era fatto. Amava ogni suo pregio e difetto (sebbene anche lui era d'accordo che avesse davvero molti più difetti che pregi).

Il sole stava ormai calando e le due nazioni avevano deciso di fare una passeggiata vicino la costa, in una piccola città portuale (America aveva tassativamente obbligato il povero inglese a fare almeno una visita alla città costiera più vicina, era da molto che non vedeva il mare e quale occasione migliore se non andarci con Arthur? Ovviamente la stessa cosa non si poteva dire per quest'ultimo dato che praticamente ci viveva sopra l'oceano).

La colonia, che in quel momento stava giocherellando con un sasso, posò lo sguardo verso la banchina dove le merci venivano caricate su una nave, sicuramente in partenza verso l'Europa, e le famiglie salutavano i loro parenti, amici e persone care per l'ultima volta, prima di lasciare il “Nuovo Mondo”.

Si femò di scatto e osservò attentamente quella che, secondo lui, doveva essere una felice famigliola, che stava augurando un buon viaggio ad un uomo che ricambiava affetuosamente.

La bambina, della suddetta famiglia, stava piangendo quasi disperatamente urlando che non voleva che il suo “papà” se ne andasse e stringendosi forte alla gonna della madre che cercava in tutti i modi di calmarla, ma senza risultati.

Arthur notando l'assenza del piccolo al suo fianco, si guardò intorno per poi voltarsi e avvicinarsi lentamente ad America. Il suddetto continuava a non distorgliere gli occhi dalla scena e lo stesso Arthur incosciamente inziò ad osservarli.

In quel momento capì. La bambina che piangeva... il padre che partiva... Era come un déjà vu.

Perché devi andartene? Non avevi promesso che saresti rimasto?” la voce di America tremava leggermente, quando un singhiozzo bloccò ogni ulteriore domanda.

Mi dispiace, Alfred” Arthur non riusciva a guardarlo negli occhi, quella visione distrutta del suo piccolo fratellino era come un colpo al cuore, non riusciva nemmeno a pensare coerentemente. “Sai bene che ho degli impegni importanti da compiere e non posso assolutamente rimandare” furono le uniche parole che riuscì a pronunciare prima che la colonia scoppiasse definitivamente in lacrime.

In quel momento Arthur fece qualcosa di pressoché inaspettato e abbracciò Alfred con tutto l'amore possibile, sperando che in qualche modo il piccolo potesse comprendere quanto fosse dispiaciuto di doversenere andare così. Sperava davvero di poter trascorrere più tempo con lui, ma il dovere chiamava e lui aveva l'obbligo di adempire alle aspettative di Nazione quale è.

Alfred, ascoltami bene...” continuò l'inglese “So quanto può far male, lo capisco benissimo, ma...” allentò la stretta attorno al piccolo e posò le sue mani sulle spalle dell'altro che lo guardava con occhi lucidi e spenti.

Even if we're miles away apart, we're connected under the same sky.”

Arthur si avvicinò ad America e prese la mano nella sua, stringendola forte. In quel momento la colonia si voltò e lo guardò intesamente negli occhi.

“Andiamo?” disse dolcemente l'inglese, quel verde brillante trasmetteva tutto l'amore e anche quel pizzico di senso di colpa che provava.

America ricambiò la stretta e i due continuarono a camminare tranquillamente, mentre il sole tramontava dietro di loro e la nave salpava lasciandosi dietro ogni cosa.

--

Da quel giorno erano passate già due settimane. Arthur era rimasto più tempo del previsto, e la cosa non fece altro che piacere ad America. Benché non ci fosse molto da fare dentro casa e che fuori piovesse a dirotto, i due riuscirono comunque a trovare qualcosa di interessante a cui “giocare” (soprattutto per tenere occupata la colonia che altrimenti avrebbe iniziato ad annoiarsi e allora sì che erano guai).

Era riuscito a convincerlo a leggere un libro (dopo tante fatiche), il suddetto infatti non era un grande lettore, preferiva vivere la propria vita e osservare con i suoi occhi quello che c'è intorno a lui, piuttosto che rinchiudersi in un libro e dover immaginare com'è fatto il mondo (nonostante adorasse quando Arthur era tutto preso dai suoi amati amici libri, poiché aveva un aria rilassata che contagiava anche lui).
Per questo e altri motivi, adesso, si trovava davanti alla grande libreria personale (che dovrebbe essere sua, ma in realtà era l'inglese che la usava) controllando scaffale per scaffale in cerca di qualche titolo interessante.

Aveva quasi perso le speranze di trovare qualcosa che catturasse il suo interesse, quando nello scaffale in alto a destra vide un libro particolare. Non riusciva bene a distinguere quale fosse, ma di certo aveva trovato ciò che cercava. Senza perdere altro tempo si arrampicò sugli scaffali (c'era una scaletta, ma aveva deciso che era più che futile quando un eroe come lui poteva praticamente volare, a detta sua), era a pochi centimetri dal raggiungerlo, quando un urlò lo fece irrigidire, si voltò e vide il povero inglese in un disperato attento di aiutarlo a scendere inveendo e rimproverando la sua imprudenza.

Sfiorò di poco il libro per poi trovarsi nuovamente a terra con un britannico alquanto infuriato dietro sé. Dopo essersi calmato e prendendo un profondo respiro chiese al piccolo “Cosa diavolo ci facevi lì su!?” e quest'ultimo con voce calma e impassibile rispose “Quello. Voglio quel libro.” evidenziò la sua richiesta puntando il dito verso l'oggetto interessato. Arthur guardò attentamente lo scaffale e osservò il dorso dove vi era scritto il titolo “Le mille e una notte”.

Inarcò un sopracciglio e si rivolse nuovamente ad America “Sicuro di volere quel libro?”, accennò la testa e l'altro prese il libro e glielo diede. “Hai scelto un libro particolare sai?” disse “E' molto antico, risale al X secolo circa, contine varie novelle orientali scritte da diverse autori.” America era intento a rigirare tra le sue mani quel libro, per poi osservare attentamente la copertina: era una stampa del 1706, una delle prime versioni tradotte in Inglese da un anonimo, “Novelle?” chiese incuriosito dopo qualche minuto. “Inzialmente queste novelle venivano tramandate oralmente, solo dopo vennero messe su carta. Ci sono diversi protagonisti che vivono avventure anche soprannaturali per l'amore del proprio amato o amata.” continuò l'inglese, vedendo come la colonia era presa dalla sua spiegazione, doveva davvero aver catturato il suo interesse.

 “Amore?” chiese sempre più curioso. “Sì, i temi principali sono l'amore, le avventure e la sorte. Nonostante sia una raccolta di più storie, ve ne è presente una principale.” quando l'altro non non rispose, ma lo guardò incantato continuò “Il re persiano Shāhrīyār, dopo essere stato tradito da sua moglie, decide di sposare ogni donna del suo regno per poi ucciderla. Per placare l'ira del sultano contro il genere femminile, la figlia del Gran Visir, Shahrazād, decide di darsi in sposa e insieme a sua sorella ogni notte racconta una storia al re, rimandando al giorno dopo il finale e andando avanti così per mille e una notte. Infine, il sultano comprende il suo errore e si innamora di Shahrazād, ponendo fine all'eccidio che aveva iniziato.” concluse e sorrise vedendo come America pendeva dalle sue labbra.

“Fantastico! Quella ragazza doveva essere davvero coraggiosa!” esclamò “Un giorno anch'io sarò un eroe come lei!” il modo in cui osservava il libro era uguale a quello suo quando leggeva uno dei suoi libri preferiti, era davvero stupito, non si sarrebbe mai aspettato che il piccolo America si sarebbe mai appassionato al suo hobby, il che lo rendeva molto felice. Il piccolo strinse forte a sé il libro e uscì di corsa dalla stanza, ringraziandolo e promettendogli che ne avrebbe avuto gran cura, si rinchiuse nella camera e si immerse in quello, che fino a poco tempo fa, era per lui un mondo del tutto sconosciuto.

Erano passati un paio di giorni e America non aveva occhi che per il libro, ogni secondo libero lo trascorreva a leggere, tanto che persino Inghilterra si era preoccupato della sua salute (suvvia una persona che, improvvisamente, inizia a leggere, quando fino a poco tempo prima era del tutto stupido a parer suo, può far venire qualche dubbio sul suo benessere) e di tanto in tanto cercava di coinvolgere la colonia in qualche gioco, ma il suddetto rifiutava constantemennte dicendo che voleva finire di leggere.

Una settimana dopo, mentre Arthur era intento a prendere una calda tazza di tè, il piccolo America irruppe nel suo attimo di pace dichiarando a pieni polmoni: “L'ho finito Arthur! Ho finito il mio primo libro!” e trotterellando in giro per la casa urlando gioiosamente la stessa frase.

Le cose erano finalmente tornate alla normalità e l'inglese non poteva che esserne felice, America continuava a fare quello che aveva sempre fatto (ovvero distrubare, rincorrere animali e cacciarsi nei guai) e lui poteva finalmente rilassarsi dopo tutte le preoccupazioni patite a causa dell'altro, ripromettendosi che non avrebbe mai più aperto le porte della letteratura alla sua colonia.

Stranamente però, si accorse che c'era ancora qualcosa che non quadrava in tutto quello, difatti America aveva iniziato a comportarsi in modo strano, di tanto in tanto scappava via (sicuramente diretto in città) e tornava la sera tardi, senza dare spiegazioni o altro. Continuò così per qualche giorno finché una notte prima di andare a dormire l'inglese notò che il suddetto lo guardava di sfuggita come se stesse aspettando qualcosa.

Non appena poggiò la testa sul morbido cuscino sentì la colonia muoversi rapidamente tra le coperte e quando si voltò verso di lui, quest'ultimo parlò “C'era molto tempo fa una bellissima principessa, tanto bella da far impallidire anche il sole, aveva lunghi capelli biondi mossi come le onde del mare e degli occhi azzurri che al solo guardarli sembrava di sprofondare negli abissi marini. Sarah, questo era il suo nome, aveva però un segreto, il quale nessuno sapeva: era innamorata del vassello del re, suo padre, che ricambiava il suo amore. Purtroppo però quest'ultimo era già destinato al matrimonio con una giovane donna, molto rispettata nel regno e-” continuò a raccontare la storia, che l'inglese non ricordava affatto e pensò che fosse sicuramente qualche racconto del luogo, lo lasciò fare, ascoltò silenziosamente. il piccolo si fermava di tanto in tanto per prendere fiato e osservare se l'inglese stesse o no ascoltando. Andò avanti così per un'oretta, poi terminò a metà e si riaccoccolò accanto ad Arthur senza dire niente e si addormentò.

Il giorno successivo nessuno dei due accennò a quello che era successo la sera prima, entrambi avevano coscienziosamente deciso che non serviva parlarne, che non ve ne fosse la necessità. Arthur credeva fosse solo un modo per l'altro di dare sfogo alla sua fantasia e rendere partecipe anche lui, quest'ultimo continuò a svolgere le sue attività quotidiane, per poi il pomeriggio scomparire e tornare la sera, come al solito senza proferire una spiegazione o altro (inoltre finché non tornava a casa ferito gravemente non c'era da preoccuparsi troppo, era sicuro che il piccolo non stesse combinando gravi guai, altrimenti lo sarebbe già venuto a sapere).

Nuovamente non appena distesi sul letto America cominciò a narrare la storia da dove aveva terminato precedentemente, per poi fermarsi e tornare tra le coperte.

Andò avanti per un paio di giorni. Arthur non fece nulla per bloccarlo, anche perché ciò che raccontava riusciva in qualche modo a catturare il suo interesse, o forse era solamente il modo in cui lo stesso narrava che suscitava in lui questa sensazione. Comunque sia si accorse sempre più la scioltezza con cui raccontava, ma principalmente come le sue storie fossero in qualche modo legate l'una all'altra, un ciclo continuo e interminabile. Non terminava mai le sue storie, le lasciava in sospeso a metà, per poi riprenderle la sera dopo e aggiungere qualche narrazione minore che allungava quella principale.

Man mano l'inglese iniziò ad insospettirsi. Perché mai doveva raccontare storie di fantasia, sì perché erano tutte farina del suo sacco, difatti era questo ciò che più lo stupiva. Si sa che i bambini hanno una fervida immaginazione, ma non si sarebbe mai aspettato questo da America (sebbene talvolta le sue idee potevano risultare davvero stupefacenti, nonché bizzarre), non quando fino a qualche settimana prima fosse totalmente estraneo a questo mondo, benché amasse ascoltare i racconti di Arthur prima di andare a dormire.

Decise quindi che quella sera avrebbe finalemente dato voce ai suoi pensieri.

Approfittò di uno dei momenti di pausa del piccolo: “America, dove trovi queste storie?” domandò, con un pizzico di curiosità.

America lo guardò silenziosamente per qualche secondo e sorrise “Le ho inventate io? Ti piacciono? Ah ma è anche merito dagli abitanti del villaggio ovviamente! Anche loro mi hanno aiutato!”.

L'inglese non sapeva davvero cosa rispondere, optò quindi per quello che, pensava, fosse la miglior cosa ovvero accarezzare la testa del piccolo e complimentarsi con lui “Sei davvero bravo a raccontare. Le tue storie sono davvero affascinanti, ma vorrei sapere come mai lo fai?” a quella domanda la colonia si irrigidì leggermente “Ehm, pensavo ti facesse piacere... ti piace tanto leggere e quindi ho pensato che fosse carino raccontarti storie nuove...” disse arrossendo leggermente mentre maneggiava con le coperte.

“Apprezzo davvero il tuo pensiero, Alfred.” fu una delle più dolci risposte mai date, difatti il piccolo America rimase quasi imbambolato a guardarlo, poi si avvicinò lentamente e lo abbracciò “Son contento che ti sia piaciuta la mia idea, Arthur!”, l'inglese non aveva davvero parole per descrivere quanto potesse essere fiero della sua colonia, la quale gli spiegò che andava ogni pomeriggio in città a parlare con gli abitanti per trovare ispirazione per le sue storie che gli avrebbe poi raccontato.

Quella notte dormì così bene che il mattino seguente avrebbe sinceramente voluto restare al letto qualche ora in più, se non fosse stato per l'arrivo di un lettera dalla sua partia, che richiedeva la sua presenza immediata alla corte britannica.

Inutile dire che Arthur non perse tempo a preparare tutto il necessario per salpare, se era richiesta la sua presenza così urgentemente, doveva essere successo sicuramente qualcosa di grave e come nazione, oltre che rappresentante della stessa, aveva il dovere e l'obbligo di tornare in Gran Bretagna.

Purtroppo questa idea, o meglio situazione, non venne del tutto condivisa dal piccolo America, che non appena seppe dell'improvvisa e immediata partenza dell'inglese non perse tempo a, letteralmente, rincorrere e “abbattere” l'altro, bloccandolo contro il pavimento e supplicandolo di non andarsene, che doveva assolutamente restare con lui e che l'Impero Britannico avrebbe potuto farcela anche senza la sua presenza (“Sanno autogestirsi benissimo da soli! Non serve sempre che tu sia lì con loro, no? Non puoi andartene, Arthur! Non puoi!”), continuando così per una buona mezz'ora.

Da parte sua, Arthur non sapeva davvero cosa fare, in cuor suo sarebbe voluto restare ancora un po' con la sua colonia, ma il dovere lo chiamava, non poteva “voltargli le spalle” in questo modo, per l'amor del cielo stiamo parlando l'Impero Britannico! Come potevano dettare regole senza il suo consenso, era inaccettabile oltre che impensabile. Per cui era più che chiaro che l'inglese non avrebbe ceduto alle suppliche di America, lo amava con tutto il cuore, ma talvolta ci si trova davanti a decisioni importanti che devono essere per forza prese in una certa maniera e in questo caso salpare e scoprire cosa diamine stesse succedendo nella sua Patria era la cosa fondamentale.

Per quanto fosse davvero combattuto, doveva per forza scegliere e stavolta avrebbe dovuto nuovamente spezzare il cuore al povero Alfred (perché non era affatto la prima volta che succedeva, oh no che non lo era...) e fare ciò che, per lui, era la cosa più giusta. Non che fosse felice della sua scelta, dopotutto non è un'insensibile, sopratutto nei confronti di un bambino che, tra le altre cose, è una delle persone a cui vuole più bene.

“America, devo andare, non posso restare qui! C'è bisogno di me lì, e che lo voglia o no devo assolutamente tornare, capisci?” disse in tono disperato, cercando di far ragionare la piccola colonia che però scuoteva la testa in dissenso “Non puoi andartene, Arthur! No, non capisco affatto e non voglio capire! Voglio solo che tu rimanga con me qui! Ti prego, Arthur! Non puoi- non puoi-” quando quegli specchi azzurri dell'animo del piccolo iniziarono a sfocarsi a causa delle lacrime che minacciavano di uscire, l'inglese provò un senso di colpa così forte che non poteva nemmeno essere espresso a parole, come poteva fare questo ad America, ma del resto non era la prima volta che faceva soffrire qualcuno psicologicamente o anche fisicamente. Era ormai abituato a distruggere le persone, togliergli ogni briciolo di orgoglio e lasciarli agonizzare, mentre osservava quello che era il suo nemico disperarsi.

Fece ciò che ritenne più consono in una situazione simile: lo abbracciò, forte, quasi da togliergli il respiro (o almeno così pensava, dato che aveva sentito un leggero gasp). Restarono in silenzio, in quella posizione, per qualche secondo finché Arthur non lo ruppe con un sospiro “America”, poi un'altro ancora “Alfred, sai bene quanto io ti voglia bene, no?” si interuppe per quell'attimo necessario per ricevere un'accenno positivo da parte del piccolo che in quel momento aveva la testa nascosta nell'incavo del suo collo, come se fosse l'unica speranza di vita. “Bene, e sai anche quanto sia importante per me, anzi per noi nazioni che i nostri abitani e le nostre terre siano nel migliore delle condizioni. Non semplicemente perché ci assicura la nostra ottimale condizione salutare; siamo immortali, ma pur sempre soffriamo quando il nostro Paese è in crisi. Quello che sto cercando di dirti è che, per noi, i nostri cittadini, coloro che hanno faticato per costriure, gestire e migliorare la propria nazione, meritano tutto il nostro apprezzamento, nonché devozione. Dobbiamo a loro ciò che siamo, Alfred.” il suo tono era diventato man mano serio, come a enfatizzare l'importanza di ciò che stava dicendo.

“Lo so” … “Lo so, ma io non ho finito-” la piccola colonia mormorò così piano che era quasi impossibile distinguere le parole che pronunciava, fortunatamente l'inglese aveva un buon udito, ma non riusciva comunque a comprendere ciò che voleva dire. “So quanto sia importante. Ma io, io-” il piccolo stringeva tra le sue dite la sua maglietta, di tanto in tanto poteva distinguere qualche singhiozzo, purtroppo non era abituato a consolare le persone, era una situazione abbastanza difficile per lui e Alfred lo sapeva. Per questo rallentò la presa e lo guardò dritto negli occhi, iridi blu lucide e umide fisse su quelle verdi e mortificate del più grande “La storia non finiva così.” disse, il tono non era tentennante come prima, ma nascondeva una profonda delusione “Non finiva così. Tu non saresti dovuto andartene, Arthur.” l'esclamazione venne interrotta da un altro singhiozzo “Dovevi rimanere per mille e una notte” sussurò infine.

Arthur rimase completamente immobile.

“La storia non finiva così! La ragazza non morì! Lei riuscì a placare l'ira del sultano con le sue storie! Lui l'ascoltò attentamente ogni qual volta lei raccontava... Perché? Perché non è finita così?” le lacrime amare che sgorgavano dai suoi occhi avevano un effetto distruttivo sul povero inglese “Che- che vuoi dire?” chiese, ma si vergognò subito di quella domanda “Pensavo che- pensavo che se ti avessi raccontato ogni sera una storia -proprio come in quel libro- tu saresti rimasto per sempre con me, che non te ne saresti mai andato...” vari singhiozzi turbavano le sue parole, ma comprese comunque quello che voleva dire.

Alfred, t- tu hai fatto tutto questo perché volevi che io restassi con te?”

“Mi dispiace Arthur! Non volevo ingannarti! Era vero però! Volevo anche che tu fossi più felice! Ho pensato che, come in “Le mille e una notte”, tu avresti passato del tempo con me, proprio come il sultano con la ragazza... Lui apprezzava le sue storie e anche tu sembravi apprezzare le mie e io- io-” non riuscì a terminare, poiché stavolta l'inglese non era riuscito a contenersi e lo strinse forte a sé, esattamente come faceva la piccola colonia quando usava l'orso-braccio (rinominato così dallo stesso America, perché ogni qual volta abbraccia Arthur, quest'ultimo si lamenta della sua forza da orso “Un giorno mi spezzerai davvero la schiena, con tutta la forza che ti ritrovi, bloody hell.”)

Thank you” sussurò “Alfred, I didn't- I didn't know you were doing it because you were feeling lonely... I'm such an incompetent big brother... I'm so sorry, please Alfred, forgive me.” la colonia era stata colta del tutto alla sprovvista da questo comportamento così aperto del suo tutore, non sapeva se essere felice o meno, dopotutto non era colpa sua, lo sapeva benissimo.

Conosceva fin troppo bene Arthur ormai, sapeva cosa amava o odiava, sapeva cosa lo infastidiva o lo divertiva. Era un vero e proprio libro aperto, per quanto lo nascondesse, era facile comprendere cosa gli passasse per la testa, senza nemmeno che se ne rendesse conto esprimeva ogni suo sentimento attraverso il linguaggio del corpo, poiché non sapeva come esprimersi a parole, ma ad America non importava. Alfred amava il modo in cui il suo corpo parlava per lui, quando balbettava incosciamente per trovare frasi adatte per la situazione in cui si trovava, era anche piuttosto divertente talvolta.

In tutto questo, era raro che l'inglese agisse d'impulso, a meno che non fosse qualcosa di urgente o quando non sapeva esattamente come comportarsi, ma questa volta era diverso.

Per quanto fosse stato improvviso e piuttosto piacevole, Alfred sapeva che Arthur lo voleva davvero. Il suo corpo aveva agito prima ancora che la mente potesse ragionare. “You're not, Arthur. You're the best brother I could ever ask for!” esclamò, per poi ricambiare l'abbraccio e annidarsi tra le sue braccia per memorizzare il suo profumo un'ultima volta.

He smelt of roses and tea.

--

Dopo la partenza di Arthur molte cose erano cambiate.

O almeno questo era ciò che pensava America. Si sentiva più sicuro, autonomo, anche un po' triste, ma ancora provava quella sensazione a cui ancora non sapeva dare un nome. Aveva provato in tutti i modi a scacciare via quel pensiero dalla testa, ma senza risultati. Più cercava di evitarlo, più si intensificava, sembrava farlo apposta! E la cosa gli dava sui nervi (“Perché non te ne vuoi andare, eh? Cerchi rogne per caso? Guarda che io sono un tipo tosto e meglio che non mi sottovaluti!”).

Nel frattempo le stagioni scorrevano, la piccola colonia cresceva, non solo fisicamente, ma anche psicologicamente. Ma sempre c'era quella cosa che continuava a turbarlo e non sapeva davvero che fare.

Proprio mentre si trovava nei campi a raccogliere il grano (un suo vecchio amico gli aveva chiesto di aiutarlo con la raccolta, quest'anno era andata a gonfie vele quindi serviva molta mano d'opera) si accorse della presenza di qualcuno. Non riusciva bene a distinguere chi fosse (il sole continuava ad accecarlo, lavorare nelle ore più soleggiate non era davvero molto consigliabile) così decise di avvicinarsi a lui.

Mon petit Amèrique!” esclamò la figura, che America riconobbe subito dall'accento “Che gran bel ragazzo ti sei fatto! Ah, come crescono in fretta i giovani d'oggi, mi sembra ieri quando eri abbastanza piccolo da poterti nascondere nell'erba!” sospirò per poi agitare una mano in aria come a scacciare via quel suo pensiero. “Howdy France, è un piacere vederti! Già, è passato molto tempo dall'ultima volta, anche perché Arthur non apprezza molto che tu mi stia vicino.” sorrise come era suo solito fare, adorava ricevere visite, anche se il soggetto in questione era uno dei meno raccomandabili (secondo il parere dell'inglese almeno. La colonia trovava piuttosto simpatico Francia, se non fosse per la sua tendenza a mettere le mani dove non dovrebbe).

Angleterre è solo invidioso della mia innata bellezza” disse con quel suo fare francese che ancora non capiva bene, gli europei erano davvero strani. “Ma parlando d'altro, mon cher, come mai ti trovi in un campo a raccogliere grano? Ti hanno messo a lavorare perché sei in debito o cosa?” chiese preoccupato, ma laltro lo rassicurò subito “No, France, e che un mio amico mi ha chiesto un favore, dato che il raccolto è andato bene, c'è molto da fare quindi ho accettato” concluse sorridendo.

Je comprends, mon petit” si portò una mano sulla fronte per evitare che il sole lo colpisse dritto nei suoi occhi blu marini “Allora io vado, ti aspetto alla villa. Quando hai finito mi piacerebbe scambiare quattro chiacchiere con te, se non ti dispiace ovviamente. E' da tanto che non ci vediamo, quindi frère France vorrebbe davvero poter passare un po' di tempo con il suo petit garçon.” si passò la mano tra i lunghi capelli biondi che, come quelli di America, brillavano al contatto con la luce, per poi offrire un ultimo sorriso al suddetto e dirigersi in modo aggarziato verso la città. Scommetto che si stava davvero annoiando lì in Europa, eh? Pensò la colonia, prima di tornare al suo lavoro.

Ainsi, Amérique, non credi anche tu che le ragazze del luogo siano davvero dei graziosi bocconcini? Sai bene che puoi parlarne apertamente con il frère, non?” l'europeo sembrava averlo preso in parola quando gli aveva detto di fare “come se fossi a casa tua”, ma si sa che Francia è una persona, o meglio nazione, molto invasiva. “Ahah, non so davvero di cosa tu stia parlando, France, ma posso solo sperare che tu non vada ad infastidire gli abitanti del luogo, l'ultima volta se non ricordo male era finita molo male, allo stesso modo in cui era iniziata.” I due si trovavano nella spaziosa sala ricevimenti, che veniva per lo più usata per gli ospiti che venivano in visita (principalmente ambasciatori britannici) per vari motivi.

Erano intenti a sorseggiare un delzioso tè, che aveva portato lo stesso Francia dall'Europa, mentre chiacchieravano del più e del meno, in particolare il francese stava raccontando nei minimi particolari tutte le sue conquiste, cosa che non interessava minimamente alla colonia, ma che comunque ascoltava per educazione (era stato Arthur ad insegnarglielo, anche se con la rana non c'era bisogno dell'etichetta, ma solo di un calcio tra le regioni basse e un biglietto di solo andata per il regno degli anfibi). La serata continuò in relativa pace e non mancò quale consiglio spassionato da parte dell'europeo su come fare attrare ragazze (“Mon petit, ascolta il frère quando dice che le threesome sono le migliori, più si è meglio è, non?”).

Fino a quel momento America non aveva molto pensato al perché si trovasse lì, di certo non era solo per venire a far visita al suo garçon, e non era neanche solo per dare fastidio al suo nemico più acerrimo (altresì Arthur) e nemmeno per sperperare i suoi trucchi del mestiere su come approcciare le ragazze. Ad ogni modo non ci volle molto prima che la risposta venne a galla. ad opera dello stesso francese “Sono più che sicuro, mon petit, che ti starai chiedendo il vero motivo della mia visita, non?” disse tranquillamente mentre posò la tazzina, non aspettò risposta e continuò “Bé effettivamente il motivo è che mi stavo davvero annoiando in Europa: guerre, guerre, guerre, invasioni, conquiste, insomma dov'è finito l'amour? Oltragioso! Quei barbari non sanno davvero cosa sia questo sentimento magnifico e profondo, nonché lo stesso atto.” ridacchiò portandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio “Ma vedi, mon cher, qualche mese fa sono passato a fare visita al tuo amato Angleterre, non che fosse così contento di vedermi, ma comunque siamo riusciti a scambiare quattro chiacchiere e sono venuto a sapere di quanto solo e triste ti senti. Mi ha anche narrato delle tue gesta, in particolare di quella vicenda accaduta prima della sua partenza... éblouissant!” la colonia era rimasta quasi pietrificata da quelle parole, riuscì però a rispondere leggermente imbarazzato “Ah, bé ecco io- volevo solo passare più tempo con Arthur, per questo ho agito in quel modo, ma non importa, capisco che abbia molto da fare e non voglio essergli di peso in alcun modo, mi ha fatto piacere ricevere la sua visita e spero che torni presto perché ho davvero molto da raccontargli.” mentre parlava il suo tono era di un dolce malinconico, cosa che non sfuggì al francese “Oh Amèrique, non c'è bisogno di scusarsi, dopotutto non hai nessuna colpa, non? Quello che voglio dirti è che compredo quanto possa essere difficile.” lo guardò intensamente negli occhi confusi dell'altro e aggiunse “E' difficile quando la persona a cui tieni di più è lontana da te, di non poterle stare accanto, di non poterla avere vicino, di dover preoccuparsi ogni qual volta giunge una notizia infausta dal luogo in cui si trova... Quello che voglio dire è che non devi sentirti in colpa di volere quella persona accanto.” dopo qualche attimo di silenzio il francese continuò “America, le persone sono egoiste. Ma è giusto così. Se non fossimo egoiste e ci preoccupassimo solo degli altri non ci sarebbe più quella persona speciale. Quella persona che ami sopra ogni cosa e per cui faresti di tutto pur di renderla felice.” sorseggiò nuovamente il tè, aspettando una risposta da parte dell'altro che però non arrivò “Anche per Angleterre è così.” sospirò “Lui ti vuole davvero bene Amèrique, ogni volta che parla di te il suo volto si rilassa e i suoi occhi brillano di una luce intensa. Lo rende più umano e vivo di quanto non lo sia.” sorseggiò nuovamente e respirò il dolce profumo che inebriava la tazzina, la posò e si alzò in piedi “Bien, credo sia ora di andare, ho davvero molto da fare. Comunque se hai bisogno di qualcosa, puoi venire dal frère quando vuoi, mon cher.” fece per andarsene, ma si fermò sulla soglia della porta e diede un'ultima occhiata all'altro “La domanda che devi porti è se hai davvero fiducia in lui.” disse flebilmente per poi lasciare America da solo con i suoi pensieri.

Fiducia? Certo che ho fiducia in lui! Non ho mai dubitato di Arthur in alcun modo...

Non capisco dove vuole arrivare... Cosa intendeva dire con “La domanda che devi porti è se hai davvero fiducia in lui?”, c'è forse qualcosa che non so? Qualcosa che dovrei sapere? Qualcosa che Arthur non mi ha detto? Se è davvero così allora perché non l'ha fatto? Perché ne hai invece parlato con Francia? Non capisco...

America si alzò di scatto in piedi e corse fuori, ma quando arrivò all'ingresso il francese era già lontano. Sospirò e tornò dentro a rimuginare più approfonditamente su quella domanda che gli ronzava nella testa mi fido davvero di lui?

Le giornate si fecero sempre più afose, segno dell'entrata nella piena stagione estiva, il che permetteva alla colonia di rilassarsi e ogni tanto andare a nuotare nel lago non molto distante dalla città (veniva infatti usato anche per lavare i panni, le signore si incontravano nei presso della costa e spettegolavano del più e del meno). Francia si trovava ancora nei dintorni, diceva che era un buon momento per “darsi al piacere, la mia presenza è essenziale per il buon fine di questa stagione” o qualcosa di simile, tra l'altro non ci fece molto caso essendo risaputo che fosse un donnaio a tutte le ore e in tutte le stagioni.

Mentre passeggiava nel bosco, proprio vicino al lago in questione, si fermò a contemplare il nulla: in quei giorni aveva pensato molto alle parole di Francia, ma ancora non riusciva a darsi una risposta. Sì, si fidava di Arthur, ma c'era qualcosa che continuava a tormentarlo, la stessa che si portava dall'infanzia.

Non capisco cosa sia... Cos'è? Fa male, ma non fisicamente, allo stesso tempo è permanente, ma talvolta scompare, o meglio si fa da parte, per poi tornare più forte di prima... Non riesco davvero a capire...

Bonjour, Amèrique.” una voce calma e molto familiare lo risvegliò dai suoi pensieri “Oh, Hello France.” rispose automaticamente. “C'è per caso qualcosa che non va? Ti vedo un po' distaccato dalla realtà ultimamente... Stai ancora pensado a ciò che ti ho detto?” non rispose, ma bastò uno sguardo per far comprendere al francese che sì, ci stava ancora pensando. Sorrise e si diresse verso il lago, prendendo un piccolo sentiero tra gli alberi, si voltò e accennò ad America di seguirlo.

“Non credi anche tu che la vita degli esseri umani sia effimera?” domandò, mentre si faceva strada tra le piante che ustruivano leggermente il cammino “Ma un po' li invidio: nascono, crescono, vivono felicemente la loro adoloscenza, poi arrivati ad una certa età si sistemano con il loro compagno e danno vita ad altri umani che ripeteranno il ciclo. Una vita effimera, ma felice. Sanno di avere poco tempo e trascorrono ogni momento nel migliore dei modi, perché sanno che un giorno lascieranno questo mondo.” ne parlava come se fosse un argomento come tanti, uno di quelli con cui ne discuti con gli amici per farti quattro risate “Non capisco cosa c'entri questo con il discorso.” rispose piuttosto seccato America che non comprendeva davvero dove volesse parare il francese, sapeva che era un tipo abbastanza strano, ma talvolta riusciva davvero a sorprenderlo “Du calme, mon cher, non c'è fretta. Ahh I giovani d'oggi... non hanno davvero un attimo di pazienza!” prese un respiro profondo e continuò, assicurandosi di lanciare un ultimo sguardo alla colonia come per dire “zitto e ascolta attentamente ciò che il frère a da dire” (nonostante America lo ricevette come un semplice sguardo torvo) “Quello che voglio dire, mon dieu, è che pur sapendo quale sia il loro destino, gli esseri umani temono comunque la morte. E' la cosa di cui più hanno paura e vivono con quest'incubo ogni giorno.” in quel momento arrivarono vicino alla sponda del lago, la luce balzava sulla superfice e creava un meraviglioso gioco di colori “Amèrique, ora rispondi ha questa domanda:
cos'è che spaventa di più noi nazioni? Siamo immortali, non dobbiamo temere di perdere, un giorno, tutto ciò che abbiamo. Non dobbiamo temere di lasciare le persone a cui più teniamo. Non dobbiamo temere di rimpiangere qualcosa che non abbiamo fatto. E allora cosa? Cos'è che ci fa paura?” sospirò, osservò il cielo e poi posò lo sguardo sulla superfice del lago “Non credi anche tu che sia una bellissima giornata? Perché non ci facciamo un bagno?” il suo sorriso era leggermente forzato, nondimeno esprimeva la sua voglia di vivere.

Una bella giornata, uh? Ero così preso dai miei pensieri che non mi ero accorto di quanto il tempo fosse meraviglioso, come se mi invitasse a divertirmi...

“Va bene” esclamò con convinzione, come se avesse appena avuto una visione furtuita “Credo di aver capito, sai? Ho capito cosa devo fare adesso.” sorrise sornione verso il francese che di tutta risposta esibì un gigno malizioso “Oh mon cher, non c'è fretta, non? Te l'ho detto: l'importante è che adesso sai ciò che devi fare, in questo caso ti assicuro che stai per vedere in azione l'uomo che tutti chiamano Il Sirenetto dei Sette Mari!” ridacchiò con gusto “Davvero? Allora è meglio che stai attento perché sto per mostrarti di cosa sono capace!” rispose con fierezza, per poi scoppiare in una fragorosa risata e tuffarsi. Francia non se lo fece ripetere due volte e lo seguì a ruota tuffandosi in acqua. Gli schizzi scintillavano come gemme e l'acqua sembrava più limpida che mai, le chiome verdi degli alberi ombreggiavano gran parte del lago, ma il barlume riusciva comunque a passare. Gli uccelli canticchiavano deliziose melodie in sincronia con il frinio delle cicale: era davvero una giornata meravigliosa.

Non ti capisco affatto Angleterre... Perché mai ti preoccupi così tanto per lui? Sta crescendo forte e sano, non credo abbia ancora bisogno del tuo supporto...”

France, so benissimo quanto sia in gamba quel ragazzo. Da quando l'ho incontrato per la prima volta avevo subito capito che sarebbe diventato qualcuno.”

Allora perché mai ti preoccupi tanto per lui, Angleterre?”

Ricordi quando eravamo piccoli? Ogni volta cercavi sempre di conquistarmi, alla fine ci sei anche riuscito; oltre a te molti altri mi hanno invaso... Ho conosciuto molti dominatori, ma anche subordinati ora che sono un'Impero.”

Non capisco proprio dove vuoi arrivare, mon cher...”

America è ancora giovane. Non sa niente del mondo esterno. Per lui esistono solo i suoi abitanti e le sue terre. Vero, sa bene che esistono altri suoi simili, ma gli unici contatti sono con me e talvolta tu, a cui fra l'altro ricordo di aver categoricamente vietato di avvicinarsi, maledetta rana.”

Oh Angleterre, credo tu sia troppo protettivo nei suoi confronti.”

Non mi interessa minimamente la tua opinione. Non voglio che soffra, non voglio che subisca quello che ho passato anch'io, non importa se dovrò passare per il fratello cattivo, non importa... Voglio solo che sia felice, ma purtroppo non è così. Io l'ho vista, France. Ho visto la sua insicurezza, il suo timore. Lo stesso che lo ha spinto ad agire in quel modo prima della mia partenza.”

Angleterre, so cosa provi, tutti noi abbiamo passato la stessa sorte e adesso è il momento di mon cher Amèrique. Devi fartene una ragione, soprattutto perché la persona a cui vuole più bene si trova a miglia di distanza da lui.”

Non voglio la tua compassione. So bene che sto commettendo uno sbaglio...”

Nonostante questo non demordi? Sei fortunato, sai? Amèrique è un ragazzo intelligente. Capirà, ne sono più che sicuro.”

Lasciò la stanza (adoperata come studio) in cui si trovavano. L'inglese guardò attentamente la porta chiudersi dietro di lui, poi chiuse gli occhi e si lasciò cadere sullo schienale.

Sospirò. “Mi dispiace, Alfred. Capisco bene ciò che provi poiché tutte le nazioni ne soffrono. Sei forte quindi, … Non sentirti solo.”

Even if we're miles away apart, we're connected under the same sky”

--

A/N: Vorrei intanto ringraziare tutti quelli che mi hanno spronato a scrivere (nel vero senso della parola). Non sono molto pratica, ma ho cercato di dare del mio meglio. Se ci sono errori, vi pregherei di segnalarmeli (la mia beta, o meglio quella che dovrebbe essere la mia beta, non ha potuto fare il suo lavoro perché è venuta a sapere troppo tardi di questo e poi ero troppo ansiosa di pubblicarla).
Non so davvero cosa dire riguardo la storia, diciamo che non doveva essere così, molti eventi l'hanno trasformata e alla fine si è evoulta in questo obbrobrio. Non credo sia molto chiara, forse non si capisce niente anche perché come ho detto non sono una scrittrice e il mio livello culturale è inesistente.
Quello che mi premeva sottolineare era il delicato argomento delle relazioni a distanza. Ma come ho detto si è evoluta in qualcosa che non c'entra pressoché nulla... (Per non parlare di come abbia utilizzato un testo persiano in modo improprio. Oh, giusto non l'ho mai letto quel libro, quindi per eventuali errori non mi prendo responsabilità.)
Ops, ho dimenticato di aggiungere che la parte iniziale, nonché la frase “we're connected under the same sky” sono state (brutalmente) prese dal doujin “Negai Hoshi” (C. wawa), mentre il titolo, nonché l'idea mi sono stati ispirati dalla omonima canzone “Miles Away” (Madonna).
Non so se ci sia bisogno della traduzione delle parole usate, dopotutto vi assicuro che google traduttore è bravo con il francese. Per quanta riguarda l'Inglese è farina del mio sacco quindi potete anche biasimarmi. 
  
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Axis Powers Hetalia / Vai alla pagina dell'autore: Puolukka Sorbet