The rails of demons.
Camminava.
Sempre che
quell’ondeggiare sghembo a culo stretto e ginocchia piegate
possa definirsi
camminare. Più che altro calpestava l’asfalto e la
ghiaia che ricoprivano la
strada che portava alla stazione di Berkeley, l’afa
d’inizio agosto che faceva
appiccicare al suo petto minuto la maglietta nera e alquanto stinta che
portava
addosso, i jeans che già da qualche tempo sarebbero dovuti
essere pasto per le
pattumiere insieme alle Converse altrettanto logore. Un disastro poco
più che
adolescenziale, ecco.
Un piccolo
disastro con
una chitarra sulle spalle, che si muoveva in una città
somigliante a un buco di
culo, in una mezzanotte che aveva spento anche gli ultimi lampioni che
avrebbero dovuto illuminare la facciata lercia e sudicia della
stazione, dove
alla scritta Berkeley mancava una
“e”. Sbadigliando, si avvicinò
all’entrata, gli occhi che lacrimavano per il
sonno, oltre che per una dose generosa di marijuana fumata poco prima,
la
sensazione di rilassamento era un invito a buttarsi sul primo materasso
disponibile.
Entrò
nell’edificio
illuminato da tre misere luci al neon, grande quanto sei cessi pubblici
messi
insieme e altrettanto pulito, e si guardò intorno. Era da
solo, il che non lo
sorprese. La biglietteria e i suoi vetri rotti era deserta e
così decise di
uscire da quella nicchia soffocante, dirigendosi ai binari, desolati e
bui anche
quelli. Volse lo sguardo in alto e le sue iridi smeraldine si
scontrarono con
le stelle di un cielo limpido, la luna un sorriso folle a forma di
mezzaluna
era l’unica insieme a quei punti di sospensione a illuminare
quello scenario da
film dell’orrore.
- Sembra il
dimenticatoio di Dio. – sussurrò il ragazzo tra
sé e sé, prima di sentire un
rumore alle sue spalle, chiedendosi se fosse il rantolo di un morente o
un
colpo di tosse. Si voltò di scatto, spaurito, e vide che
alle sue spalle, di
fianco all’uscio della stazione, vi era un vecchio barbone
rannicchiato per
terra, i vestiti consunti, la barba incolta e i capelli bianchi e unti
appiccicati
alla fronte, le labbra che stringevano una sigaretta, circondato da una
mezza
dozzina di bottiglie di birra ormai vuote, proprio come il suo sguardo.
- Che cazzo
guardi,
figlio di puttana? – imprecò, la voce roca da
fumatore incallito, la rabbia di
un cane randagio. Il giovane staccò lo sguardo, non aveva
voglia di stare a
sentire le imprecazioni di un vecchio demente ubriaco marcio.
Così, tornò a
guardare i binari, il muro di fronte che li separava
dall’aperta campagna,
dalla quale arrivava solo puzza di piscio e fogna, quando
all’improvviso sentì
il rumore del treno che si faceva sempre più forte man mano
che si avvicinava.
Si fermò a qualche metro di distanza dove si trovava, la
luce dei fari inondò
fastidiosamente la scena, tanto che il ragazzo dovette premersi una
mano contro
gli occhi. Prima di avviarsi verso il treno, guardò
un’ultima volta il muro di
fronte a sé, la sua attenzione richiamata da una scritta
scarlatta come il
sangue, che spiccava in mezzo alla miriade di murales che percorrevano
i
mattoni mangiati dalla muffa.
ST.
JIMMY VIVE
Non seppe
spiegarsi il
perché, ma alla vista di quelle parole, un brivido gli
spaccò la schiena,
facendolo correre verso le porte scorrevoli del rottame che rimaneva
fermo
sulle rotaie. Saltò a bordo come un bambino che ha appena
visto il mostro sotto
al letto, stringendo forte tra le mani la tracolla della custodia della
sua
chitarra. Si sedette su uno dei tanti sedili vuoti e rotti, sul lato
sinistro
del treno, e si costrinse con tutte le sue forze a non guardare quella
scritta
che spiccava dal finestrino opposto, scrutando da quello di fianco a
lui la
vecchia spugna randagia vomitare anche l’anima sul
marciapiede dove si trovava
poco prima.
Il giovane
poggiò la
testa sul vetro e chiuse gli occhi, mentre il treno si allontanava
verso
Oakland. Si sarebbe ridotto anche lui così, lo sapeva, e
pensandoci confidò a
se stesso che non si trattava solo del fatto che un giorno avrebbe
detto “Ciao, sono Billie
Joe” ritrovandosi
tra gli Alcolisti Anonimi. Non
era solo quello. La sua vera paura
era quella di scoprirsi diverso di fronte allo specchio, gli occhi
vuoti come
quelli del povero randagio, la speranza che li aveva abbandonati man
mano che
la solitudine li aveva annebbiati. La paura di rimanere solo lo fotteva
da
sempre, da quando aveva scoperto il dolore della morte, e questo
sembrava quasi
un lasciapassare per l’autodistruzione.
Eppure,
un’ancora di
salvezza c’era. L’aveva costruita lui nel corso
degli anni, tra le parole
buttate su un foglio di quaderno e gli accordi imparati sulla tastiera
della
Fender che suo padre gli aveva regalato. La sua
musica, quella che avrebbe condiviso
di nascosto con sua sorella per convincerla a mettere una buona parola
con sua
madre, affinché lui e Mike si potessero esercitare nel
salotto della loro casa.
Già, Mike, la catena che
lo teneva stretto
all’ancora e Billie sapeva che non si sarebbe mai spezzata,
proprio come il
loro legame. Lo avrebbe aiutato a restare a riva, lontano
dall’abisso di guai
che spesso lo attiravano; guai dalla voce suadente, come sirene che si
preparano a farti annegare, la stessa sensazione che Billie aveva
provato
leggendo quella scritta sul muro. Sembrava quasi una profezia, come se
dicesse
“è solo
l’inizio, il tuo demone
continuerà a vivere e ti ridurrai così, come quel
vecchio”.
- Devo smettere
con
quella roba. – sussurrò a se stesso il giovane,
sconvolto dai suoi stessi
ragionamenti intricati e confusi, ma le sue paure e le sue
inquietudini, i suoi
demoni appunto, lo aiutavano da
sempre a creare, come a cercare forza dalle proprie debolezze. Era un
ragazzo
strano, che a mezzanotte prende il treno per tornare a casa dopo una
serata
passata in compagnia di se stesso, a fumare un po’ e credere
di esser scappati
dal mondo almeno per un paio d’ore. Poi tornava a casa,
magari con un foglio
stropicciato e scarabocchiato da sbattere sotto il naso adunco di Mike
che
dormiva tranquillo sul divano e che doveva necessariamente alzare il
culo per
mettersi a suonare con quel metro e un cazzo del suo amico.
Il treno si
fermò e a
Billie sembrò di aver passato una notte intera su quei
binari, quando poi erano
passati pochi minuti. Quando scese, tornò a guardare le
stelle e per un attimo
gli venne in mente l’immagine di lui da piccolo, immerso
nelle coperte, in
attesa che suo padre gli raccontasse qualche favola, di quelle che
aveva
imparato a sua volta da piccolo, quando gli uomini sognavano le stelle
e i
grattacieli dovevano costruirli.
Scosse la testa
e
cancellò l’immagine. O meglio, la nascose, come
quando si raccoglie la polvere
dal pavimento e per pigrizia, invece di buttarla, la si nasconde sotto
il
tappeto. Sai che c’è, ma fai finta di essertene
dimenticato. E Billie era così;
temeva le sue stesse paure, ma si lasciava sopraffare, ignorando il
fatto
stesso che stesse cadendo giù, negli abissi.
Tanto arrivava
sempre qualcuno
a salvarlo.
Tanto, una volta
sceso
dai binari dopo esser scappato dalla città per
l’ennesima volta, quel qualcuno
lo aspettava all’uscita della stazione, col volto stanco e
sorridente sotto i
capelli lunghi e platinati.
La sua ancora di
salvezza.
Angolo
della pazza:
Ultimamente provo nostalgia per i bei tempi passati in questa sezione e così mi ritrovo a scrivere boiate come questa. Non so, ho avuto l’idea di questa cosa riascoltando per l’ennesima volta Are We The Waiting e, boh, spero solo non faccia così schifo.
Ah, tranquilli, nessun riferimento a 22/11/’63. No, no, per carità. :3
Un'ultima cosa, ma non meno importante.
Se volete bene a questo fandom, seguite Stry e Jimmy. Bisogna leggere le loro storie per capire com’è che si dovrebbe scrivere. Il loro progetto Daily Bike e i singoli progetti personali che portano avanti dovrebbero essere d’esempio per tutti coloro che passano da queste parti. Ergo, seguite le loro opere! ^^
Un abbraccio,
Franny