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Autore: IronLizzie    09/08/2013    1 recensioni
Dear Amy è la storia d'amore tra una ragazza diciottenne ribelle a anticonformista e un duca prossimo alla mezza età.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: Storico
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Un bambino è la forma più perfetta di essere umano. 
Vladimir Nabokov, Perfezione
 
I due bambini giocavano spensierati. Mano nella mano, inseguivano sogni e fantasie, inerpicandosi in posti segreti che nessun adulto ormai scorgeva più. La bambina rincorreva il compagno di giochi emettendo brevi strilli che si disperdevano nell'aria. Rise, e dolci fossette si disegnarono sulle guance imporporate dalla foga; correva tra i prati inseguendo Stephen, solo di qualche anno più grande. 
     L'infanzia, per loro, non era ancora giunta al tramonto, ma entrambi avrebbero potuto affermare con certezza che si conoscevano meglio di chiunque altro. Non avevano bisogno di parole, si volevano bene teneramente e tutti e due erano consapevoli dell'importanza dell'altro: si completavano e annullavano le solitudini che spesso erano costretti a sopportare. 
     Amy ruzzolò sull'erba trascinandosi dietro il ragazzetto dalla zazzera incolta. Qualche filo d'erba era rimasto impigliato tra i riccioli biondi. Le braccia e le ginocchia di entrambi erano incrostate di fango. 
     Si sdraiarono a terra, le mani ancora intrecciate e il respiro affannoso. Una distesa di rosso ricoprì il verde del manto erboso quando Amy appoggiò il capo vicino a quello di Stephen. Lingue di fiamma, striate di riflessi fulvi, incorniciavano un viso paffuto dove erano incastonati insoliti occhi a mandorla, scurissimi.
     Amy sollevò il vestito fin sopra le ginocchia. Il caldo era insopportabile e un velo di sudore le ricopriva la pelle, infastidendola. L'atmosfera, invece, era piacevole e Amy adorava trascorrere i pomeriggi all'aperto, piuttosto che passare il tempo annoiandosi nella nursery, con bambole che preferiva malmenare poco elegantemente. 
     Entrambi erano esausti. Si erano arrampicati innumerevoli volte sugli alberi che circondavano la dimora del conte di Leicester; avevano fatto un bagno sulle acque calme del lago, in placida attesa di scovare qualche ignaro pesce da catturare; e avevano corso scalzi inciampando su qualche roccia invisibile tra l'erba alta punteggiata da fiori estivi. Il sonno costrinse i loro occhi stanchi a chiudersi. 
     Riposarono così, fianco a fianco, con nessuna preoccupazione per l'avvenire. Con quella felicità genuina tipica dei bambini. Lo fecero finchè la fetta di cielo sopra di loro non fu offuscata dall'ombra di un uomo. Sembrava un gigante. Spalle larghe, petto ampio, gambe lunghe e mani come fossero badili. Si schiarì la voce, portandosi un pugno chiuso davanti alle labbra, increspate per la tenerezza della scena. A quel suono improvviso Amy si riscosse di soprassalto. Il sole stava tramontando. 
     «Papà?» chiese la piccola, sbadigliando. 
     «Che ci fai ancora fuori? La mamma ti stava aspettando per il tè già qualche ora fa», rispose il conte simulando un cipiglio minaccioso. Di rimando, la ragazzina mormorò un mi dispiace stentato. 
     Amy si mise a sedere, cominciò a sistemarsi come meglio poteva giacché l'abito che indossava era irrimediabilmente sporco, macchiato di verde e marrone qua e là. Sua madre l'avrebbe apostrofata arricciando le labbra sottili. Non era consono per una signorina presentarsi in tali condizioni nel salottino blu della merenda. Sbuffò. 
     «Grazie Stephen. Ci vediamo domani, ti va? Ora devo andare», Amy si rivolse all'amico. Nella sua voce c’era una punta di speranza che non riuscì a nascondere. 
     «Certo, ma ora vedi di sbrigarti. Lady Pauline ti starà aspettando.» Stephen guardò l'amica che si gettava tra le braccia del padre esigendo il solito abbraccio soffocante. Mentre la teneva stretta, il padre le accarezzava i lunghi capelli rossi. Il fantasma di un sorriso apparve a ingentilire la linea dura delle labbra seminascoste da baffi e barba. Avvertì il sussurro della piccola che diceva Ti voglio bene papà. Subito dopo la vide mentre fuggiva via per raggiungere la casa dei genitori. 
     Il padre continuò a fissarla finché non scomparve dietro una barriera di cespugli ispidi. Il cuore gonfio d'amore per la piccola selvaggia che aveva come figlia. Il conte aveva riposto la sua consueta maschera di algido distacco in un cassetto nascosto chissà dove, che solo Amy, talvolta, era stata in grado di trovare. 
 
Amy correva a perdifiato tra le colline del giardino antistante la magione dei Corbett. Le braccia le svolazzavano attorno come leggere ali di farfalla, mentre i piedi nudi calpestavano incuranti il terreno. Dopo una decina di minuti, vide apparire davanti a sé un edificio enorme che dominava il paesaggio circostante con la sua austera presenza. 
     Giunta all'ingresso salutò lo sparuto maggiordomo che la stava aspettando rigido come un manico di scopa. L'uomo non tentò nemmeno di precederla per annunciarla alla madre che stava ricevendo un ospite – sarebbe stata una fatica inutile anche solo provarci. Amy attraversò l'ampio salone, e si affrettò a raggiungere la madre, nonostante fosse consapevole delle pessime condizioni in cui versavano i suoi vestiti. Si arrestò davanti alla porta semiaperta del salottino per riprendere fiato e recuperare una parvenza di compostezza. Lisciò la stoffa sul davanti dell'abito spiegazzato e afferrò la maniglia. 
     Entrò esitante aspettandosi un rimprovero che non arrivò tempestivo come aveva previsto. Pauline Corbett, madre di Amy e contessa di Leicester, era seduta con consumata eleganza su un divanetto al centro della stanza. Non era sola. A poca distanza, sedeva un giovanotto alto e allampanato. Un ciuffo di capelli scuri gli cadeva mollemente sulla fronte. 
     Si chiese chi fosse quello sconosciuto. Vestiva con abiti complicatissimi e la piccola avrebbe giurato che di lì a poco sarebbe svenuto e caduto dalla sedia, soffocato dall'ingombrante cravatta che gli stringeva il collo. Per non parlare della giacca nera che gli fasciava il petto in una morsa implacabile. Riusciva a respirare?, si chiese tutt'altro che allarmata. 
     Sua madre scelse di ignorare l'aspetto scarmigliato della figlia. Era la quintessenza dell'affabilità materna. «Entra piccola. Oggi abbiamo ricevuto un ospite inaspettato. Ti presento Christopher Pierce, figlio del Duca di Hastings. Ricordi l'amico di papà?» 
     «Certo», rispose la bambina, rammentando con nitidezza il primo incontro con il Duca, un uomo arcigno che l'aveva squadrata da capo a piedi con una sufficienza che si scontrava con la buona educazione. 
     «Mi chiamo Amy», continuò.
     «Emmanuelle», precisò la madre con un sorriso di circostanza stampato in volto. 
     «Piacere di conoscerti, Amy», rispose il giovane ignorando il commento di Pauline. «Puoi chiamarmi Chris, se ti fa piacere.» 
      In verità, no, non mi fa piacere, pensò la bambina. Non commentò ad alta voce sapendo che sarebbe stato sconveniente. 
     Lo sguardo del giovane la scrutò per qualche minuto, in attesa. Poi, i suoi occhi, di un colore indefinibile a quella distanza, si puntarono sui suoi piedi nudi. Sporchi. Nella fretta di tornare dalla madre aveva dimenticato di calzare le scarpe. Un sorriso comparve sul volto di Chris. 
     Forse avrebbe fatto meglio a tenere per sé i commenti sull'abbigliamento di quel giovanotto. In fin dei conti, lei stessa era passibile di critica, poiché il suo aspetto in quel momento pareva esser l'esito di un mese d'astinenza da acqua e sapone.    
     Risollevò lo sguardo, impudente, e rise mentre ogni parvenza di compostezza l'abbandonava tragicamente.   
  
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