Anime & Manga > Evangelion
Ricorda la storia  |       
Autore: Snehvide    05/10/2004    2 recensioni
Hai mai visto il cielo divenire improvvisamente color ocra? Misato Katsuragi sì.
[OLD FICTION: Non scrivo su Evangelion da anni ormai. L'ultimo capitolo di questa storia era già pronto ma mai pubblicato quì. Adesso l'ho ritrovato e in una botta di noia ho deciso di pubblicarlo. Sappiate però che risale al 2003 o qualcosa di simile e il mio stile e i miei interessi da allora si sono evoluti.]
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Misato Katsuragi
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
PREMESSA:

PREMESSA:

Dunque, premetto che questa fanfiction è, come da subject, un DRAFT. Non è

nè corretta, nè completa. In futuro potrei come non potrei apportare delle

modifiche a questi pezzi, ma in caso questo dovesse succedere, ovviamente la

ri-pubblicherei aggiornata :)

A parlare in prima persona, in questa fanfiction, è Misato Katsuragi. E' una

sorta di rivisitazione della sua vita, e cerca di seguire la storia

originale di Evangelion, ci sono delle scene puramente inventate da me

(anche se questo non apporterà dei cambiamenti significativi alla serie TV

originale)

In realtà, si tratta di una lunghissima one-shot (fanfiction ad un unico

capitolo) , ma è divisa in quelli che io chiamo paragrafi, ognuno con un

nome diverso :)

Vi posto il primo :)

Beh, non vi anticipo più nient'altro, buona lettura!!:)

PS: Naturalmente i commenti sono ben accetti! ^_^

Rei-chan

******************************

 

Il cielo color ocra

 

 

I

 

-          Uno specchio per il cielo –

 

 

.…hai mai visto il cielo divenire improvvisamente color ocra?..

Io sì…

E per  cinque giorni della mia perturbata esistenza non vidi altro.

Niente uccelli. Niente nuvole.

Solo ocra.

Lo vedevo ovunque mi voltassi.                      

Anche le acque dell’oceano Atlantico  a cui venni affidata  funsero da specchio per il esso, e ciò permise al mare di assumere quelle tonalità giallognole che ben presto iniziai ad odiare…

Fu lo spettacolo che mi si presentò dinnanzi sin dal primo istante in cui le ante della capsula di salvataggio dove venni adagiata da mio padre qualche ora prima si aprirono. Il movimento ricordò quello di un sipario teatrale, ma con la differenza che non vi era stata alcuna regia dietro a ciò che stavo osservando passivamente…

L’acqua, l’aria, il cielo erano gli attori. Ma non recitavano alcuna parte se non la loro vita…

 

Non capii subito cosa diamine stava succedendo veramente; ero troppo stanca.

Perdevo sangue da un punto imprecisato del petto. Non ricordavo nulla. Avevo fame, freddo, sete…

Non vi era alcuna provvista di cibo all’interno della capsula. L’acqua del mare con cui provai nella mia disperata innocenza a placare la mia sete ebbe come risultato l’esatto effetto opposto…

 

Cinque giorni trascorsero così.

Non potei nemmeno affidare il mio desiderio di salvezza ad una stella cadente…

L’accecante luminosità del Second Impact non permise all’oscurità di scendere su quella zona del globo neanche una volta…

Non ebbi neppure la forza di avere paura, allora…

 

 

Per tutto il tempo me ne stetti sdraiata all’interno della capsula fissando l’ocra.

Quel colore talmente insolito che aveva ricoperto il cielo ed il mare dell’Antartide…

Il mio braccio sinistro era scivolato fuori della capsula, immergendosi nelle acque - per la prima volta nella storia calde- del posto…

Una scia di sangue proveniente dal mio braccio si propagò lungo il mare come un pennello sporco di tempera in un bicchiere d’acqua…

Non riuscii ad avvertire l’acqua del mare filtrare attraverso le maglie robuste della mia pesante imbracatura. Sapevo che c’era, ma non l’avvertivo…

 

Senza che me ne rendessi conto, mi stavo lentamente abituando a lasciare questo mondo assieme a tutti gli altri…

In quel momento, non riuscii neanche a pensare che cosa ne fosse stato del resto del mondo.

Sapevo soltanto che io ero sola.

E presto, non lo sarei stata più…

 

‘Sono fortunata…’ Pensai tra me e me. In fondo, meglio morire dopo essersi gustati uno spettacolo talmente insolito come il cielo color ocra e le acque dell’Antartide calde, anziché morire di vecchiaia in qualche lettiga di un triste ospizio…

 

Con un mezzo sorriso stampato sul volto, l’ocra al di sopra dei miei occhi andò lentamente sbiadendosi, sino a quando nel giro di pochi minuti scomparve del tutto…

Le onde che come tante piccole balie mi avevano sino ad allora cullata, adesso si erano fermate…

Dopo cinque giorni di monocromia, l’oscurità finalmente calò su di me…

Era evidente che sulla capsula di salvataggio vi era salita la persona sbagliata.

Mi dispiace tanto…

 

“…”

 

“…”

 

“…we…”

 

Una voce.

Una voce apparve nel nulla dal nulla…

Lontana….

 

“…we need to clean up that mess around here, first of all. Give me that scissor. Yeah, the third one, please.”

 

“Shit!!!!h! She’s bleeding everywhere. Come on! Hurry up with that fucked transfusion!”

 

“Here we go. Type 0, RH positive”

 

“Okay. Let’s begin then.”

 

Mi sbagliavo. Non era una sola voce, ma più voci che iniziarono a svolazzare attorno a me.

Che cosa  diavolo stavano dicendo?… Non capii una sola parola di ciò. Non era la mia lingua. Nonostante la mia debolezza, fu un particolare che non mi lasciai sfuggire.

 

La prima spiegazione che mi diedi nel momento in cui i  miei occhi affaticati riuscirono a riaprirsi e dare un’occhiata tutt’intorno fu che finalmente, fossi giunta in Paradiso.

 

Però…subito dopo riconobbi che se quello fosse stato veramente il Paradiso, per tutta la mia vita avevo coltivato una visione di esso totalmente differente…

E se quello veramente fosse stato il Paradiso, l’insopportabile dolore delle ferite che poco prima ricoprivano il mio corpo non si sarebbe fatto vivo…
I morti non provano nulla. E se io provavo dolore, significava che non avevo ancora abbandonato questo mondo…

 

Ero attorniata da una decina di strane figure dai volti quasi completamente coperti. Non sapevo il motivo, ma mi guardavano come se fossi una sorta di aliena.

 

“Hey! She’s awake!”

 

“She’s very strong. Hey girl, how are you feeling now!?”

 

Uno di loro avvicinò il suo viso verso di me. L’unica cosa di lui che riuscii a vedere furono i suoi occhi. Faticosamente ottenni  una discreta messa a fuoco, e grazie a questo mio sforzo mi fu possibile notare il taglio occidentale. Diverso dal mio.

 

Emisi un lieve gemito quando un improvviso raggio di luce giunse abbagliante e si propagò direttamente nelle mie pupille per alcuni secondi , per poi scomparire nello stesso modo in cui arrivò.

Ocra. Quel colore tornò sui miei occhi sottoforma di impronta lasciata sulle cornee dall’improvviso lampo luminoso.

Ancora una volta, per un po’, non riuscii a vedere nient’altro tranne che quel colore…

 

“Hey, you can see me! You_can_see_me, don’t you!?” Mi stava domandando qualcosa. Eppure io non avrei mai potuto rispondere nulla. Non capivo cosa voleva dirmi. Il mio nome? Voleva forse sapere il mio nome?

 

“K-Katsura..gi  Mi-Misato…ngg... desu….” Non avevo mai pensato che parlare potesse divenirmi così difficile. Avevo soltanto pronunciato al vento il mio nome, ma fu come se avessi spostato un masso enorme da una parte all’altra con le mie sole, deboli forze.

 

“Shhh… John, stop talking to her. We must keep her calm. After all, she’s japanese: I don’t think she could ever understand our language…”

 

A quelle parole, l’uomo allontanò ancora il suo viso da me, e contraccambiò le parole dell’uomo con un’altra frase, per me, indecifrabile. Poi si rivolse a tutti, proponendo un qualcosa.  Appena smise di parlare, gli uomini restanti annuirono.

 

L’ultima cosa che vidi fu una mano inguantata comprimermi sul viso una mascherina di plastica che iniziò ad erogare uno strano gas,  poi un’altra frase incomprensibile, ed infine, ancora ocra, ombra, e tenebre.

 

“I’m sorry girl. But we have to send you to Dreamland again. See ya…”

 

 

~>*<~

 

 

 

Sembrava come se la gente ci provasse gusto nel vedermi entrare ed uscire dalle tenebre alla luce in continuazione.

Era la terza volta, in soli due giorni, in cui mi risvegliai dopo un lungo sonno artificiosamente indotto da quell’odiosa mascherina che quanto meno me lo aspettassi, mi ritrovavo pressata sul viso. Ad ogni risveglio, trovavo  sempre  una benda in più in qualche parte del corpo.

 

Non era in sé per sé il fatto che venissi anestetizzata in continuazione ad infastidirmi. L’unica, nonché la vera cosa che sembrava infastidirmi realmente era la visione del color ocra che inevitabilmente, come una traghettatrice, accompagnava ogni mio sonno ed ogni mio risveglio; e non era l’effetto del narcotico: Il cielo color ocra non risparmiava neanche i momenti in cui crollavo tra le braccia di Morfeo spontaneamente.

 

Ormai, era quasi diventato un terrore per me addormentarmi. Lo stare sveglia era l’unica cosa che mi proteggeva da esso. Non sapevo perché, ma mi spaventava. Sebbene la prima volta che lo vidi mi sembrò un fenomeno alquanto strano ed entusiasmante, questa volta mi angosciava. Mi confondeva le idee. Non ricordavo minimamente cosa fosse successo quel 13 Settembre del 2000 prima di ritrovare me stessa a fissare a vuoto il cielo tinto di ocra. L’unico collegamento.

 

Il Second Impact.

Cos’è successo quel giorno? Perché mi ritrovai da sola su una capsula di salvataggio in balia delle acque? Dov’erano finiti mio padre e gli altri ricercatori ?

 

La sola cosa che mi affacciava alla realtà, era l’oblò accanto al letto dove mi avevano sistemata.  Al di là di quel vetro, una bandiera a stelle e strisce sventolava orgogliosa in tutto il suo splendore.
Sotto di essa, il mare. 

Mi sorpresi nel vederlo azzurro…

 

Tutto ciò non diede risposta alle mie domande, ma in qualche modo mi facevano capire dov’ero, e che cosa mi fosse successo dopo aver visto il cielo ed il mare assumere quelle tinte insolite…

Ero su una nave.

Una nave americana.

Forse di ricerca, forse invece militare…

Non so quali fatalità hanno permesso a me e questa nave di incrociarci.

L’equipaggio si stava prendendo cura di me con grande impegno.

Sembrava quasi che il loro unico interesse fosse proprio quello.

Ma…qual’era il perché tutto questo?..

 

I giorni passavano inesorabili. Non avevo modo di sapere che giorno fosse, non c’era nessuno a bordo dell’equipaggio che parlasse la mia lingua. E quando si ci ritrova in una situazione del genere, è difficile stabilire un dialogo.

 

A causa delle condizioni che mi costrinsero a letto, non visitai altri posti della nave se non la stanza d’infermeria dove ero adagiata. Per tutto il tempo che rimasi lì, non pronunciai alcuna parola con nessuno se non il mio nome e cognome come risposta ad ogni domanda che mi veniva posta.

Non capivo una sola parola della loro lingua, né avevo la ben che minima intenzione di impararla. Ma questo non sembrò importare granché ai vari membri dell’equipaggio che così premurosamente mi curavano.

 

Di tanto in tanto, un uomo con un camice bianco veniva a controllare che le orrende ferite che sfregiavano il mio corpo non si fossero riaperte. Parlava mentre lo faceva, ma le sue parole non ricevettero mai una risposta da parte mia, se non il mio nome ripetuto all’infinito. E facevo così con tutti…

 

“Katsuragi Misato desu.” Era questa la mia risposta ad ogni domanda.

 

 

 

“KaTsoo-ragi… Meesatow...?”

 

Sebbene con un orrenda pronuncia, la donna che era solita a portarmi la mia razione di cibo ogni sera, tentò di ripetere la risposta che diedi quando mi porse la solita, indecifrabile domanda: Are you hungry?

 

Annuii quando sentii il mio nome fuoriuscire con difficoltà dalle sue labbra, e quasi sorrisi. Quell’accento americano lo fece risuonare buffo alle mie orecchie.

 

La donna poggiò il vassoio sul carrello porta pranzo, e lo avvicinò al mio letto in modo che io potessi servirmi.


”Is that your name, right?”

 

La guardai.

 

“Katsuragi…Misato desu…” Ripetei ancora, dopo alcuni secondi.

 

La donna mi guardò ancora confusamente. Poi voltò i tacchi, e si allontanò raggiungendo un uomo in divisa militare poco lontano. Non mi persi neanche un secondo della conversazione che ebbero i due. Non mi era possibile udire i loro discorsi a causa della distanza, ma qualcosa mi diceva che stavano parlando di me.

La cosa iniziò a preoccuparmi maggiormente quando mi accorsi dello sguardo del militare poco distante: Orientale. Il taglio dei suoi occhi era orientale.  Come il mio.

 

Non seppi spiegare perché, ma quello sguardo richiamò alla mia mente l’ocra che tinse cielo quel giorno non molto lontano…

Finalmente, dopo tanta diversità, avevo poco distante da me una persona che mi somigliava. Un uomo probabilmente del mio stesso paese; Giappone.

 

Sembrava assorbire molto passivamente tutte le parole che la donna vomitò senza riprendere nemmeno fiato. Il suo sguardo ormai, si era irremovibilmente concentrato su di me.

Lui mi guardava ed io lo guardavo…

La confusione avvolse i miei occhi quando quello sguardo freddo ed inespressivo incontrò il mio.

Ero disorientata.

Ero disorientata ma nello stesso tempo molto interessata.

Questo essere al centro delle attenzioni mi arrecava parecchio disagio, ma non lo dimostravo.

Non era comune per una ragazzina di neanche quattordici anni avere tutte queste attenzioni addosso. E se adesso c’erano, era chiaro che sotto vi fosse obbligatoriamente un motivo molto importante…

E quel motivo…mi interessava.

 

D’improvviso, l’uomo mosse un passo verso di me, seguito da un altro, ed un altro ancora…

Si stava avvicinando.

Come un fedele cagnolino, la donna seguì passo dopo passo ogni suo spostamento, continuando ancora con il suo interminabile discorso. Si fermarono entrambi quando giunsero alle sponde del mio letto. La donna smise di parlare quando ebbe la consapevolezza di ciò che sarebbe successo tra pochi secondi…

 

“Questa donna sostiene che KATSURAGI MISATO sia il tuo nome…è così?”

 

Dopo tanti giorni di vuoto,  il dolce suono della mia lingua d’origine tornò nuovamente ad avvolgermi di una splendida sensazione di tepore e di serenità, molto simile a quella che si ha nel riaprire la porta di casa e vedere dinnanzi a se visi accoglienti dei propri cari dopo aver attraversato un lungo ed insidioso sentiero con il cielo abbagliato da lampi e fulmini…

 

Qualcuno aveva capito.

 

L’istinto mi portò a scostarmi di scatto in avanti dallo schienale del mio letto semialzato, ma il dolore delle ferite vive presenti sul mio corpo mi costrinsero a ritornare sui miei passi, e a riacquistare la calma perduta.

 

“S-si! Sono io! Sono io! ” Esclamai eccitata, reprimendo con un grande sforzo la gioia dentro di me, che l’uomo però non condivise.

 

“Chi sono i tuoi genitori?”

 

“Kyousuke e Mei Katsuragi.” Chissà se avrei dovuto continuare a chiamare mia madre con il cognome di mio padre…

Del resto, le pratiche per il loro divorzio erano già state aperte; Avrei dovuto cercare di abituarmi sin da allora a chiamare i miei genitori con due cognomi differenti…

 

Silenzio.

Dopo una pausa di alcuni secondi, l’uomo abbandonò il suo portamento da militare tirando un lungo e profondo sospiro.

Con una mano si tolse il cappello mimetico, mentre con l’altra si diede una veloce grattatine sui corti capelli neri. Quando ebbe finito, ripose il cappello nuovamente in testa ed aggiustò la visiera tornando a posare il suo sguardo sulla esile ragazzina che ero.

Più il suo sguardo scavava nelle remote profondità del mio animo, più la mia confusione accresceva…

Il tutto, sotto gli occhi onnipresenti della donna americana che ascoltava interdetta la nostra chiacchierata, alternando in continuazione lo sguardo su di me e sul militare…

Dopo un attimo di riconciliazione, il giovane militare infilò le mani nelle tasche dei pantaloni, e ne estrasse un qualcosa che racchiuse completamente dentro un pugno. Avvicinò la sua mano chiusa al mio volto, e lentamente l’aprì, lasciando scivolare fuori ciò che essa conteneva.

 

“Sai a chi appartiene questa?”

 

I miei occhi si sgranarono quando il bagliore argenteo di una croce si rifletté dentro di essi.

Con le punte delle dita, l’uomo sorreggeva quella che era una misera collanina di laccio con un grosso ciondolo a forma di croce a me familiare.

Fu un istante.

Dei flashback iniziarono a zampillare nella mia mente come dei velocissimo fotogrammi scollegati tra loro.

I ricordi antecedenti al cielo color ocra stavano riaffiorando nella mia mente.

 

Ghiaccio,

Freddo,

Uomini

Papà

Il Second Impact.

Una Luce,

Luce,

Luce accecante.

Ancora Luce.

Sangue,

Di nuovo freddo.

Vuoto.

Frastuono.

Una frase:

“Sei tu, papà…”

Un volto.

Una croce sul petto.

Gocce di sangue sul viso

Ante che si chiudono

Il buio.

Il nulla.

Morte.

Desolazione.

Infine, Il cielo.

Cielo color ocra.

Immortale.

 

“pa…..p..à…”Ricordo che fu la seconda volta che in tutta la mia vita lo chiamai in quel modo.

Pronunciai a stendo queste parole. La voce venne fuori  dalla mia gola come al posto dell’aria, stessi spingendo dei macigni dieci volte più pesanti di me.

 

L’immagine di quell’uomo il cui  nome, almeno per l’anagrafe, risultava essere mio padre, andò a sostituire la croce argentea sospesa tra le dita del militare.

 

Rimasi immobile, mentre il mio sguardo andò spegnendosi sul quell’oggetto metallico che mi negava ogni possibilità di fuga.

Sentii l’uomo afferrarmi delicatamente un braccio, ed aprire la mia mano. Su di essa vi posò la collana. Rabbrividii al freddo tocco della croce di metallo sulla pelle, sensazione che si espanse anche lungo il mio animo e , soprattutto, lungo la mia mente…

 

“L’equipaggio di questa nave sostiene che al momento del ritrovamento portavi addosso questa collana. L’hanno rimossa prima che venissi operata, ma come vedi non è stata buttata via…la riconosci, non è così?”

 

Le sue parole non  mi erano mai sembrate così lontane prima d’allora…

La sensazione di familiarità che poco prima la sua voce mi infuse svanì d’improvviso, ed ella adesso non  differenziò più di tanto con quella indecifrabile del personale di bordo.

 

Una luce dentro di me si spense.

La mia memoria antecedente al cielo color ocra stava ritornando…

Immersi la mia mente in quelle acque oceaniche che come uno specchio rifletteva le tinte giallastre del cielo, e strinsi tra le mie mani attorno a  quella croce argentata.

Avevo capito.

 

Il militare smise di guardarmi, e voltandosi di spalle si rivolse a degli uomini rimasti fermi sulla porta d’ingresso, ed annuì.

 

“E’ lei.”

 

- Uno specchio per il cielo - END .

 

To be continued...

 

   
 
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Evangelion / Vai alla pagina dell'autore: Snehvide