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Autore: _eco    11/08/2013    6 recensioni
[Post Mockingjay] [Collegato alla shot "Zollette di zucchero"] [Peeta Mellark/Sean Odair]
- Il tuo papà sarebbe orgoglioso di te, ometto. – mi lascio sfuggire.
Genere: Angst, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Bimbo Cresta-Odair, Peeta Mellark
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ritorno con una one-shot che è un tripudio di fluff e angst. Senza pretese, scritta per noia. Potrebbe benissimo essere il seguito di "Zollette di zucchero" - ma potrete capire anche senza aver letto la precedente (: - perché si tratta sempre di quella volta in cui Annie fa visita agli Everlak che vivono insieme e sono pucciosi da morire lalalalalalala **
Ah, Sean è il figlio di Annie e Finnick. Cucciolo dolcissimo che è! *w*
L'altra volta ho visto il film "Tre all'improvviso". Non brilla per originalità, ma è stato carino e leggero da vedere. Mi è venuta l'ispirazione, guardando una scena in particolare... ed è venuto fuori questo.
Niente, prendetemi a pomodorate in faccia.
Vi saluto. *porta con sè Peeta, prima che le fangirl impazzite lo rubino*
S.

Meet your daddy, Sean.

Sean mi tamburella sulla punta del naso con le dita cicciotte. Affonda le manine nella massa informe in cui ha ridotto i miei capelli. Mi dà leggeri colpetti sul viso – che lui deve ritenere davvero violenti – perché io faccio finta di essere gravemente ferito, dolorante e abbattuto dalla sua sorprendente forza.
- Il tuo papà sarebbe orgoglioso di te, ometto. – mi lascio sfuggire.
Un pensiero cui ho dato voce per sbaglio. Ma Sean ha sì e no due anni, e non può arrivare a scrutare il dolore che probabilmente ha velato il mio sguardo.
Mi sento improvvisamente in colpa e fuori posto. Un traditore, ecco come mi sento. Perché è sbagliato, assolutamente sbagliato, che io sia qui, steso di schiena sul pavimento, con Sean tra le braccia che fluttua sopra di me, come se stesse volando. Dovrebbe esserci Finnick, al posto mio.
Sean ridacchia, divertito, portandosi le mani chiuse a pugno sulla bocca.
Ha i riccioli biondi, Sean, che gli ricadono sulla fronte color pesca. Piccoli dentini da latte sbucano dalla bocca ad ogni accenno di sorriso.
- Davvero orgoglioso. – sussurro, drizzandomi sulla schiena e sedendo a gambe incrociate sul tappeto rosso dello studio.
Giù, Annie e Katniss chiacchierano. Mi piace, Annie. E credo che anche Katniss gradisca la sua presenza. Per lo meno, non mi è parso che le loro conversazioni si concentrassero sulla moda o le futilità propinate dalla Capitol City di un tempo. Perciò, sì, credo che si stiano divertendo. No, non proprio divertendo, ma qualcosa che va molto vicino a questo termine. Rilassando, ecco.
- Pa. Pa. Pa. Pa. – snocciola Sean, schiaffeggiandomi con una forza mai vista prima.
- Ehi, sei un duro. – borbotto con voce profonda e ingrossata, facendo strane smorfie che lo fanno scoppiare in una serie di risolini isterici.
- Pa… pa… pa… pa…- continua a ripetere.
E lo ripete, lo ripete, lo ripete, finché non capisco. Le lettere, semplici da pronunciare, sempre più vicine l’una all’altra, la cadenza dell’accento che va aggiustandosi ogni volta.
- No, no, Sean. Io sono Peeta. Non papà. – gli spiego con calma, in modo da non spaventarlo, malgrado una sensazione di panico e insicurezza mi abbia invaso.
Il suo viso paffuto, da giocoso che era, si maschera di una serietà che sembra guasta e inappropriata ad un bambino di appena due anni.
- Peee-ta. – scandisco, sperando che la sua testa lo sostituisca presto a quella parola… quella parola che dovrebbe essere rivolta a Finnick, non a me.
- Pa… pa… - si ostina a dire Sean.
Inclina il capo da un lato, come per chiedermi la ragione della mia insistenza.
- No, Pee-ta. Pee-ta. – replico, mettendolo a sedere di fronte a me, sul tappeto.
Lui trova più comoda una posizione che lo fa somigliare ad un cagnolino, e adesso mi fissa stranito dal basso all’alto.
Mentre la sua voce stentata e disabituata alla parola pronuncia senza sosta quel termine, che, ogni volta, appesantisce il magone di colpe sul mio petto, il mio sguardo finisce per sbaglio sulla scatola di matite colorate abbandonata sulla scrivania.
- D’accordo, ometto. Vuoi conoscere il tuo papà, eh? – gli dico, prendendolo per i fianchi e alzandomi da terra.
Sposto lo sgabello di legno quanto basta per sedermi, e metto Sean sulle mie ginocchia. C’è un foglio di cartoncino ancora inutilizzato.
Impugno un carboncino, che quasi svanisce tra le mie dita – e mi faccio l’ appunto mentale di comprarne di nuovi.
All’inizio, temo di non ricordarmelo. Chiudo gli occhi, alla ricerca di un particolare da cui iniziare – la forma del viso, il taglio degli occhi, il profilo del naso, una ciocca sulla fronte. Sean richiama la mia attenzione più volte, mugugnando qualcosa di intellegibile o tirandomi per una manica.
Ha gli occhi di Finnick, Sean.
Colore, forma, espressione. Decido che comincerò da lì.
Di tanto in tanto, devo interrompere i movimenti della mano sulla carta, perché Sean ha come l’impulso di sfiorare il volto che pian piano vi prende vita, le gote appena accennate, i lineamenti marcati e affascinanti, le onde dorate dei capelli. Io lo lascio fare, e ogni volta la sua espressione crucciata e confusa, meravigliata e ipnotizzata, mi commuove. Il modo in cui mi guarda, quando finisce di percorrere i contorni dell’affascinante soggetto, con quegli occhi grandi, blu come l’oceano e verdi come il mare, mi fa capire che posso proseguire con il lavoro.
- Ti presento il tuo papà, Sean. – gli sussurro in un orecchio, e lui ride, perché con quel poco di barba che ho devo avergli fatto il solletico.
Ma poi si concentra sul ritratto, sullo sguardo pensoso e perso chissà dove – magari in un’ onda che scompare ancor prima di nascere –, sulle labbra piene e la mascella marcata. Le sue dita paffute adesso sfiorano i lineamenti di Finnick, ed è come se la sua bocca, quella che ho dipinto proprio ora, si sollevasse appena in un sorriso riconoscente.
- Papà? – quasi mi chiede Sean, il ditino ancora puntato sul viso di Finnick, le labbra carnose schiuse in un’espressione dubbiosa, alla ricerca di una certezza che, ora come ora, posso offrigli soltanto io.
Ed è quel che faccio.
- Papà. – rispondo, sfiorando la sua manina ancora appiccicosa di zucchero. – Bravo, ometto.

  
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