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Autore: Valina89    18/02/2008    5 recensioni
Non sempre si intraprende un viaggio per piacere, alle volte si vorrebbe solo sfuggire dalla vita di tutti i giorni che opprime, come i ricordi che non ci lasciano.
Meg lo fa, e scappa a Parigi. Da cosa scappa? Se lo chiede anche lei.
Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Fallen

Mi svegliai di nuovo di soprassalto, imprigionata nel lenzuolo e coperta di sudore. Era stato il solito incubo a svegliarmi, come troppe notti da quando lui…

La canottiera che portavo come pigiama mi si appiccicava scomodamente addosso, bagnata dal sudore dell’incubo e dalla calura estiva che oramai opprimeva tutto, giorno e notte.

Intorno a me c’era il buio, ma pian piano i miei occhi si abituarono all’oscurità, facendomi scorgere vagamente i contorni dei mobili della mia stanza: l’armadio vecchio in legno, che era nella camera già da quando avevo visitato per la prima volta l’appartamento, la scrivania, sulla quale troneggiava il monitor piatto del pc, con il led del tasto di accensione colorato di arancione, poi la finestra, con le persiane chiuse e i vetri spalancati, e infine la porta del bagno.

Strizzai gli occhi, scollandomi di dosso con una mano i capelli, appiccicati alla fronte dal sudore, poi mi rigirai sul fianco sinistro, sporgendomi verso il comodino. Presi il cellulare, e vidi che il display segnava le 10.33.

Dovevo essermi addormentata appena tornata dal lavoro, e nessuna madre, alterata o affettuosa che fosse, sarebbe venuta a svegliarmi e a dirmi che la cena era pronta.

Sola, ecco com’ero.

Abbandonai il cellulare sul ripiano, poi mi distesi a pancia in giù, rivolgendo il viso alle persiane, dalle quali filtrava una debole luce lunare, o di lampione, mi era difficile distinguerle al momento. Su di me gravava la spiacevole sensazione di essere stata svuotata di energie e sensazioni, e provai a cancellare tutto questo chiudendo gli occhi, sperando che passasse con un buon sonno.

Mi resi subito conto che non avrei più dormito, ma mi ostinai a non aprire gli occhi, nella vana ricerca di sonno.

L’unica cosa che trovai fu una serie di sbiadite rievocazioni del passato incubo, che mi convinsero ad alzarmi dal letto, gemendo un "oh merda…".

Dicevo sempre, prima che lui….che se avevi fatto un incubo, per liberarti dal suo tormento dovevi raccontarlo a qualcuno. Sulla bocca mi fiorì una risata beffarda: potevo, sì, raccontarlo al muro.

Imprecai di nuovo, poi andai a piedi nudi verso il bagno, dove aprii l’acqua della doccia. Poi tornai in camera, dove mi svestii con noncuranza, abbandonando tutto quello che avevo addosso sul letto.

Mi avviai verso la doccia, e aprii le due porte scorrevoli che proteggevano in bagno dal getto d’acqua, e richiusele alle spalle, mi misi sotto il getto d’acqua senza però controllare la temperatura prima.

Subito fui percorsa da brividi a causa dell’acqua fresca, ma mi ci abituai rapidamente, trovandoci sollievo dalla calura.

Chiusi gli occhi e lasciai che il getto mi scorresse addosso, abbandonandomi ai miei pensieri. Avevo voluto essere sola per sfuggire da questi, ma proprio questa solitudine me li riportava in mente, ogni volta che mi lasciavo alle spalle i problemi di vita comune.

E nulla mi poteva distrarre.

Mi opposi violentemente alle lacrime che cercava di affiorare dai miei occhi e cominciai a lavarmi con fretta, improvvisamente colta dalla voglia di uscire dalla doccia, gabbia di tristi pensieri.

Cinque minuti dopo ero già sul letto, a vestirmi per uscire un po’. Jeans scuri, aderenti, converse nere, maglietta nera scelta a caso fra quelle che occupavano un cassetto dell’armadio, giacchetta nera, che non indossai.

Uscii da camera mia e percorsi il corridoio che mi portava alla cucina, in penombra.

Accesi il piccolo televisore, che stava sul ripiano di fianco al frigorifero, senza però fare caso al giornalista nero, seduto dietro a una scrivania, che annunciava qualche catastrofe dell’ultima ora, qualcosa come gli incendi di cassonetti nelle banlieu.

Presi una tazza dal ripiano, poi tolsi la caraffa del caffè da sotto la macchinetta, e ne versai nella tazza. Era freddo da fare schifo, ma dato il caldo mi parve opportuno berlo anche così.

Mandai giù un sorso e feci una smorfia: mancava lo zucchero.

Presi un cucchiaino e il barattolo dello zucchero, e cominciai ad aggiungere uno, due, tre cucchiaini di granelli bianchi.

Poi, una stretta al cuore:lui, ne metteva a tonnellate di zucchero, nel caffè, era una cosa nauseante da bere.

Mi piaceva però baciarlo dopo, e sentire tutto quel dolce sulle labbra.

Imprecai di nuovo.

Ricordi, stupidi ricordi, non riportavano in vita nessuno.

Lasciai andare un sospiro, poi finii il caffè e abbandonai la tazza nel lavandino.

Tornai in camera per prendere al giacchetta, e buttai una distratta occhiata sulla mia stanza, nella quale regnava o diciamo tentava di imporsi, il disordine. Certi studi dicono che la camera rispecchia il proprietario: io ne ero la scientifica dimostrazione di ciò, in quanto ero tanto disordinata dentro di me quanto lo ero con la mia stanza.

Mancavo di ordine mentale, diciamo.

Con uno sbuffo, come se ci fosse stata mia madre che mi imponeva di sistemare quella confusione che mi ostinavo a chiamare "camera mia", cominciai a raccattare gli abiti che avevo distrattamente abbandonato in giro.

Dopo aver messo a lavare un paio di jeans e due magliette, una delle quali era finita, non osai immaginare come, sotto al mio letto, e ripiegato una maglia a maniche lunghe e il mio "pigiama", mi fermai ad osservare la mia stanza, che ora aveva per lo meno un aspetto decente.

Fosse stato così facile riordinarsi dentro, gli psicologi sarebbero stati una razza estinta.

Presi con una mano la giacchetta nera, poi tornai alla cucina, alla ricerca delle chiavi della porta. Tanto valeva uscire.

Appena mi fui chiusa alle spalle il pesante portone del condominio, mi fermai un attimo:avevo fatto bene a non mettere subito la giacca, dato che un venticello caldo spazzava tutto il viale.

Guardai a destra e a sinistra, senza soffermarmi sulle persone che occupavano Boulevard di Rochechourt. Poi mi diressi verso destra, destinazione la più vicina fermata della metro, Barbès-Rochechourt.

Come al solito non feci nemmeno caso alle persone che incrociavo, senza nemmeno guardarle: stavo godendomi il vento caldo che mi spettinava i capelli e mi dava un senso di distrazione.

Senza quasi rendermene conto mi ritrovai alla scalinata della metro; scesi le scale rapidamente, passai i blocchi dell’ingresso con biglietto e mi ritrovai nel pieno della linea 3.

Sulla banchina stavano in piedi, in attesa, una signora di mezz’età, nera di carnagione, che stringeva la borsa sotto al braccio con aria preoccupata.

Poche donne giravano tranquille di sera, a quell’ora soprattutto, senza preoccuparsi di scippatori o, peggio, di stupratori. Queste donne, o erano particolarmente sicure di sè, o giravano con il massiccio accompagnatore del caso, marito, fidanzato, fratello che fosse, oppure erano delle incoscienti/pazze/depresse/sciocche.

Io rientravo nell’ultimo gruppo, e godevo di tutti i titoli:in ordine, depressa, pazza, incosciente e sciocca.

A vent’anni si è più vulnerabili di quanto si creda, o per lo meno si finge di non saperlo.

Accanto alla signora stava, impettito, un uomo, anche lui nero, vestito distintamente, completo grigio di rispettabile impiegato. Non era l’unica sera che rincasava a quell’ora, lo potetti vedere dalle ombre scure che gli segnavano gli occhi, e dalle marcate rughe su fronte e occhi, tipiche di chi si affatica molto. Portava una cravatta rossa allargata, e la camicia bianca aperta ai primi due bottoni. Sulla faccia gli appariva già qualche traccia di barba, variegata fra il marrone scuro e il grigio. Mi lanciò un’occhiata stanca, accennai un sorrisetto che poteva voler dire tutto e nulla e lui mi osservò un attimo. A quel punto lo riconobbi: quell’uomo mi aveva fatto un colloquio per entrare in un’azienda nella quale poi non ero andata a lavorare. Mi avvicinai per salutare, ma lui non mi fece più caso e dribblai lui e la donna, dirigendomi verso una panchina in plastica incastrata nel muro, che era occupata da un ragazzo con indosso una sbiadita felpa nera col cappuccio alzato. Conoscevo quella figura quasi quanto me.

"Ciao schifoso barbone!Finito di farti le canne?" gli chiesi, ridacchiando.

Lui alzò lo sguardo, mi guardò come se gli avessi semplicemente detto "ciao!", poi abbassò il cappuccio e abbozzò una copia di sorriso.

"Cia’…che ci fai qua???" mi chiese infine.

"Volevo andare a Nôtre Dame…mi accompagni?"chiesi io, osservandolo. Aveva i capelli scuri,la pelle chiara e gli occhi verde spento. Non era sempre stato così:un mese prima aveva i capelli biondo scuro, prima di rivoluzionarne il colore e passare a quel castano scuro.

"Ovvio…ti sembra che abbia qualcosa da fare?"sorrise lui, porgendomi la mano. La presi e lo aiutai ad alzarsi.

In quella arrivò la metro e salimmo, andando a sederci sui sedili proprio di fronte alla porta.

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