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Autore: Dante_Chan    11/08/2013    1 recensioni
Questa storia nasce da un gioco di ruolo che sto facendo con delle mie amiche, per cui scrivendola seguo più o meno le vicende che stiamo disegnando assieme, inventando/cambiando qualcosa per rendere la trama appena abbozzata del gioco un racconto scritto.
Due ragazze e due ragazzi viaggiano assieme su un brigantino, con un gatto di nome Rufy come capitano, alla scoperta di varie Regioni/isole e alla ricerca di pokemon e avventure. Non so dire molto di più, dato che la trama si fa strada facendo xD
Genere: Avventura, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Anime
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Il viaggio è cominciato ormai
c’è il mondo lì fuori per me!

Che cos’altro potrei chiedere non lo so,
sensazione più bella non c’è!

Niente mai mi farà cambiare idea,
la pioggia non mi fermerà
perché il sole prima o poi tornerà a splendere.

E’ il mio sogno che si fa realtà!

....



Il capitano, appena destatosi, socchiuse un occhio scrutando la penombra della cabina; con i pensieri ancora ovattati dal sonno fece un grande sbadiglio, dopodiché si stiracchiò senza alcun ritegno e rotolò su un fianco, aprendo finalmente entrambi gli occhi. Doveva essere appena l’alba: entrava una vaga luce azzurrina dall’oblò sulla sinistra e tutt’attorno c’era una calma irreale, rotta soltanto dalle strida dei gabbiani, già in cerca della colazione. Da sotto la porta entrava un fresco spiffero d’aria, che portava dentro la stanza un forte odore di sale e alghe marce, mischiato a quello più incerto e lontano di terraferma, che sapeva di humus, piante mediterranee, mercato del pesce e cemento: non dovevano essere affatto lontani dalla città.
Il capitano sbadigliò per la seconda volta, poi si mise seduto; si pulì la faccia, si rassettò, dopodiché girò lo sguardo verso lo specchio. Due occhi tra il verde e il giallo lo osservarono di rimando, compiaciuti, mentre i lunghi baffi vibravano d’orgoglio nel vedere l’immagine riflessa: era proprio un figo, un gran signore!
Uscì dalla stanza e imboccò le scale che portavano al ponte ballonzolando, senza però produrre alcun rumore o scricchiolio; si aggrappò alla maniglia aprendo la porta e, appena socchiusa, fu salutato da un venticello energico ma allo stesso tempo piacevole e fresco, come l’acqua del mare. La giornata si prospettava assolata e piuttosto calda; il cielo era ancora bigio dato che il sole non era ancora sorto, ma non c’era più traccia delle nuvole che la sera precedente avevano parzialmente oscurato le stelle: erano state disciolte nell’atmosfera dalle correnti d’aria come zucchero dall’acqua. Il capitano guardò sereno gli uccelli bianchi e grigi che gridavano tuffandosi in mare, poi con un balzo felino raggiunse la parte più alta del parapetto e lì si adagiò; girò la testa verso nord, dove del mare aveva finalmente ragione la terra e aveva inizio la città. Rimase lì a godersi la calma e il dondolio della nave, più pronunciato del solito a causa delle onde alimentate dal forte vento, fino al sorgere del sole, quando si accorse di avere fame; a quel punto, aprì le narici e rizzò le orecchie, nella speranza di sentire odore di colazione o quantomeno qualche rumore dalle altre cabine che annunciasse l’imminente risveglio del resto della ciurma. Una coda sferzò l’aria con disappunto dopo che né olfatto né udito furono compiaciuti; saltò giù dal parapetto e trotterellò fin dentro  la cabina di Stecchina. La ragazza dormiva ancora: inaccettabile! Il capitano aveva fame!
Zompò sul suo letto, ma lei ancora non si svegliò. Maledetta ammutinata!
«MEEEEEOOOW!» la sollecitò, mettendole una zampa sul naso.
«Mh...mmh…Rufy…? Noo, ma cosa vuoi…? Non dirmi che hai fame…» mugolò Stecchina, destandosi per forza di cose.
«Meeeeeeow!» rispose il capitano, alzando la coda come una bandierina.
«Ma…non sono neanche le 6, Rufy…!» esclamò la ragazza, sbirciando la sveglia appoggiata di fianco al letto.
«Meeeow…».
«Per favoore, fammi dormire…».
«Meeow…».
«…zzz…».
«MEEEEOW.».
Stecchina riuscì a guadagnare un’altra mezz’ora di sonno, non di più. Dovette alzarsi, maledicendo il capitano in più lingue; uscì sul ponte e rimase sorpresa per la vicinanza della costa: la sera prima, quando avevano buttato l’ancora in acqua, le luci della città, oscurate per metà dagli alberi della macchia, erano sembrate notevolmente più lontane. «A saperlo prima, avremmo potuto attraccare…beh, non che cambi molto, eh? Poi col buio la manovra non è tanto semplice…».
«Meow…meeeeeeow!».
«Sì, sììì, ora ti do da mangiare!». Ah, questi capitani.
Stecchina camminò lentamente verso la cambusa; il gatto le passò più volte tra le gambe, forse con l’intento di ucciderla (la ragazza inciampò tre volte, la terza rischiando di finire col collo contro uno spigolo) per il mancato rispetto portatogli; Rufy, però, si calmò non appena la sua ciotola fu piena.
Stecchina, dopo aver compiuto il suo dovere, non sapeva se tornare a letto; l’idea la solleticava assai, ma decise infine di prendere una coperta (faceva ancora freddino la mattina presto) e di mettersi sul ponte a osservare il sole ancora un po’ pallido e a godersi la calma prima che anche Ketchup si svegliasse. Una volta che ebbe finito la colazione, Rufy la raggiuse e le si accoccolò in grembo, iniziando a fare le fusa, che quasi si confondevano con gli scricchiolii della barca.
«Finalmente siamo arrivati a Johto, Rufy! Non vedevo l’ora! Chissà quali avventure ci aspettano!».
«Meh…».
«Ci sono tanti pokémon da catturare qua, sai! Aaaaah, non vedo l’ora che Ketch si svegli!! Anzi, tra un po’ vado a svegliarla io! Spike, vieni fuori!!» e pronunciando l’ultima frase, lanciò in aria una pokéball, da cui uscì un pikachu. «Pika!!».
«Buongiorno! Siamo arrivati, Spa! Guarda che bello!».
«Piiika!».
I tre (più che altro due, visto che Rufy si mise a sonnecchiare) rimasero a fissare le fronde lontane degli alberi che si muovevano al vento, facendo arrivare il loro coro fino alla nave, per un’altra mezz’oretta prima di alzarsi e andare a preparare la colazione; Stecchina non riusciva ad aspettare che l’amica si svegliasse. Poco dopo, però, si fece viva anche lei: Stecchina aveva appena finito di cucinare che la porta della cambusa si spalancò andando a sbattere contro il muro (la maniglia lasciò una pacca sulla parete lignea) facendo entrare Ketchup, frizzante e piena di energie fin di prima mattina.
«Ciaaaaao! Che buon odorino!».
«Mamma mia Ketch, mi hai fatto prendere un colpo!!!».
«Ahahah!».
«Hai visto quanto vicini siamo alla terra??».
«Ah non ci ho fatto caso, ho troppa fame! Davvero siamo vicini?? Bene, bene!».
«Sì!! Perciò sbrighiamoci, che non vedo l’ora di attraccare!».
Così, dopo essersi saziate e preparate, si accinsero a partire. La brezza di terra già aveva lasciato posto a quella di mare, perciò il vento puntava verso la destinazione; bastò loro sollevare con fatica l’ancora e alzare la sola vela principale per entrare lentamente nello stretto promontorio.
Attraccarono una ventina di minuti dopo, tra due grandi pescherecci: riabbassarono l’ancora e legarono la nave al pontile con delle funi toccando finalmente terra, estasiate dalla graziosità della cittadina che si parava loro davanti. Il villaggio era piccolo, prevalentemente di pescatori, con una popolazione in buona parte anziana, tranquillo a prima vista e, tutt’attorno, circondato da piante mediterranee, boschi e prati. Nell’aria, oltre al forte odore di pesce che proveniva dalla pesca della notte appena passata, si poteva percepire il tipico aroma della macchia. Verso nord e verso est andavano le due strade principali che, partendo dal centro del villaggio, portavano fuori città.
«Aah! Ma che bel posto!» disse Ketchup entusiasta, girando più volte la testa a destra e a sinistra.
«Già! È proprio una città carina!» convenì Stecchina. «Su, esploriamo un po’!».
«Piiikaa!».

                                                                                           ***
Ormai era quasi l’alba e ancora non sapeva cosa fare. Se ne stava in quell’anfratto nascosto dai cespugli dietro un casolare già da ore, troppo spaventato per ardire una qualsiasi mossa. Era stato proprio un cretino ad allontanarsi dagli altri. La polizia sembrava non demordere e continuava a girare lì intorno, sicura di aver circondato qualcuno; gli agenti non stavano aspettando altro che la luce del giorno per riuscire a vedere meglio. A quel punto, ciao! Di sicuro l’avrebbero trovato. No, doveva scappare prima del sorgere del sole…ma non aveva idea di come fare. E continuava a stare lì nascosto, rannicchiato e intirizzito dal freddo notturno, a sorvegliare con l’udito ogni movimento degli sbirri lì attorno, la vicinanza di voci e passi direttamente proporzionale alla velocità del suo cuore sommerso nell’ansia; una mano stringeva forte la sfera poké che aveva rubato, l’altra andava ripetutamente ad asciugare il sudore freddo sulla fronte e, da pochi minuti, le lacrime di stanchezza e angoscia che minacciavano di rigargli le guance. Si sentiva come un topo in trappola e sapeva che più avrebbe aspettato a scappare meno chance di riuscirci avrebbe avuto. Se solo si fossero arresi! E invece no, non demordevano e continuavano a rastrellare i dintorni, perché sapevano che da qualche parte almeno una recluta si stava celando; non l’avevano ancora scoperto solo perché aveva trovato un valido nascondiglio.
Ma ormai non c’era proprio più tempo. Il cielo iniziava a schiarirsi: o scappava subito, o si rassegnava all’arresto. E trovalo un po’ di coraggio, porca puttana!
Si decise per l’azione. Non aveva altra scelta. Aspettò un paio di minuti nella speranza che le due voci decisamente troppo vicine a lui si allontanassero, ma ciò non avvenne; volse gli occhi al cielo: troppo chiaro, troppa luce! Non poteva aspettare oltre! Si calcò il berretto sul viso, uscì dal nascondiglio facendo meno rumore possibile e si inoltrò fra le sterpaglie, che stavano tutt’intorno e che non avrebbe potuto evitare.
Gli agenti non lo scoprirono per colpa del frascheggio, bensì a causa di un uccellino: un fottuto uccellino che aveva disgraziatamente il nido tra le sterpi e, al suo passaggio, volò via trillando, facendo voltare le guardie, che videro la sua sagoma nera tra i cespugli.
«Oh, va’ che c’è qualcuno lì.» sentì dire da uno dei due, mentre gli si gelava il sangue nelle vene. «Ehi, tu! Fermo!».
Merda.
«Esci di lì, lentamente. Mani dietro la nuca!».
MERDA. Che siano maledetti quel pennuto e tutta la sua discendenza!
Se ne restò zitto e immobile, senza ubbidire, trattenendo addirittura il respiro, nella vana speranza di dissolversi. «Non fare il finto tonto, ti vediamo, arrenditi!» lo sollecitarono, ma rimase  fermo dov’era, paralizzato e i poliziotti, allora, presero ad avvicinarsi. Lui a quel punto non ci pensò due volte, le sue membra pietrificate ripresero improvvisamente vita e schizzò via. Corse a perdifiato tra l’erba alta e secca, adocchiando le zone meno intricate, non facendo caso alle spine che gli strappavano la divisa e ai rametti che gli finivano negli occhi; gli inseguitori gli erano dietro, ed erano veloci; si sarebbero moltiplicati di lì a poco se non fosse riuscito a seminarli, e allora, di nuovo, ciao!
Ma evidentemente ebbe sfortuna, perché trovò il poliziotto dal grilletto facile, sicuro della propria impunità, che “se muore un criminale pazienza, tanto la società apprezza”; che sparò per fermarlo e che lo colpì alla gamba destra, mancando una zona vitale solo per volere del fato. Il fuggiasco gemette e ruzzolò a terra, più per la sorpresa che per il dolore: non avrebbe mai pensato che avrebbero usato le armi così facilmente.
Come cadde, subito si rialzò; un altro proiettile gli sfiorò un orecchio, e a quel punto non ci fu gamba ferita che tenne: scappò con una velocità e una resistenza al dolore che non avrebbe mai creduto di poter raggiungere. Proprio la situazione critica gli dava una forza primordiale che urlava a pieni polmoni di voler vivere e che gli permetteva di non arrestare la fuga; e che lo salvò, dalla morte o dalla semplice prigionia. Riuscì per sua fortuna a far perdere le proprie tracce: bastarono pochi secondi in cui gli agenti, sicuri di avercelo in pugno, persero il contatto visivo che già era svanito tra la fitta vegetazione, malconcio ma, perlomeno, ancora libero.
Perse le forze di botto non appena il pericolo fu considerato lontano e l’ansia fu un poco scemata. Continuò ad avanzare nella direzione che aveva preso nonostante non sapesse bene dove si stesse dirigendo; anche se lo avesse saputo, non sarebbe in ogni caso riuscito a decidere dove andare: la base era lontana e lui non poteva raggiungerla in quelle condizioni. A parte che se davvero aveva fatto scoprire gli altri gli avrebbero dato una lavata di capo, l’avrebbero declassato, l’avrebbero messo a pelare patate per tutto il Team. Ma quello al momento era davvero il male minore: doveva pensare a non morire dissanguato.
«Viviamo nel Far West, maledetto poliziotto.»  ironizzò amaramente, stringendosi la ferita con la mano. La voce non gli sembrava più la sua, e iniziava a girargli la testa. Andava avanti per inerzia, inciampando sempre più frequentemente.
Dove avrebbe trovato aiuto? Finchè indossava quella divisa, da nessuna parte di sicuro. E da che parte era la civiltà? Qual era la città più vicina? Quanto ci voleva per raggiungerla? Aveva perso l’orientamento e il panico non gli permetteva di ragionare.
Non ce la farò mai.
Aveva una paura boia. L’angoscia quasi gli bloccava il respiro.
Epilogo di una vita di merda.
I colori perdevano poco a poco brillantezza, eppure il sole era sempre più alto…
Forse è meglio così.
Quelle lucine però sicuramente erano frutto del suo delirio.
Si guardò la gamba ed ebbe un fremito nel vedere il pantalone zuppo del proprio sangue. Perse ogni traccia di colore dal viso e iniziò a sentire come degli aghi che gli pungevano il cuoio capelluto; l’ultima cosa che vide prima di perdere i sensi furono il luccicchio del mare e, non lontano, un paesino dai tetti rosa.
Fiorpescopoli…
   
 
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