Serie TV > Sherlock (BBC)
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Autore: artemix_    12/08/2013    2 recensioni
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"Ci metto qualche secondo ad accusare quel colpo. – E’ questo quello che volevi? Che TI dimenticassi?! Ma ti rendi conto di cosa mi stessi chiedendo? – dico, spingendolo via con un colpo solo – Chiedere, poi? Te ne sei andato con uno stupido biglietto telefonico lasciandomi lì per strada, morto con te su quel marciapiedi. Non ti ho visto più, Sherlock. "
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes , Sig.ra Hudson
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Do you show me what this love is for?



PART 1 – so close so far.

Le mie sensazioni sulla sua preannunciata morte si sono avverate come un desiderio dopo la stessa caduta. Mi sento rimbombare in testa le parole sotto la morsa della paura mentre quella stella cade. Mi sento sprofondare come se stessi morendo io stesso, come se stessi per schiantarmi su quell'asfalto, su quel marciapiedi metri più sotto. Quel tetto fin troppo alto, quel salto fin troppo ingiusto.
    - Non muoverti - mi dice Sherlock quando scendo dal taxi. – Scusa, è tutto vero. - Mi sembrano tutte parole senza senso in quel momento, mi sembrano parole dette inutilmente per perdere tempo, mi sembrano frasi incastonate in un contesto arrivato al limite della sopportazione.
Scuoto la testa meccanicamente, scatti veloci che mi fanno girare la testa. Cosa ci fa, Sherlock, Sherlock, lassù? Mi manca fiato nei pensieri, persino la mia testa ha bisogno d'aria, il cervello non si mette in moto, non vuole farlo, è pietra pesante quassù. Gli vedo il cappotto nero svolazzare come un cattivo presagio.
   - Addio, John. - Quell'uomo che fino a poco tempo fa era mio amico ed essere umano, è uccello. Vola giù.
I miei piedi cominciano a muoversi senza che lo voglia, gli corro incontro al volo con la stupida intenzione di alleviargli la caduta, ma sono il primo a schiantarmi. Un tizio su una bici mi interrompe, inveisco e cado. La botta mi graffia la testa, mi confonde i pensieri peggio di quanto già non siano. Mi rialzo con la poca forza che mi rimane, una folla attorno a quel cappotto nero schiantatosi sulla ghiaia. Corro, mi inginocchio. - Sono suo amico - sussurro, ma nessuno sembra ascoltarmi. - Sono un dottore, lasciami controllare - strillo in preda al panico
Lancio via le persone, cerco di crearmi spazio, mi sento schiantare il suo corpo dentro. Mi sento sparire e scoppiare in un altro posto. Mi tirano su ma io cado, di nuovo, mi spingo su quel corpo unanime, prendo il suo polso, una stretta che mi conferma che è tutto finito. Veloce mi sfilano via da quell'ingorgo. A nessuno va di ascoltare il parere di un medico che non è più, di un amico senza forze.
   - Un ambulanza, chiamate un'ambulanza - sento dire da qualcuno. Qualcun altro mi prende sotto braccio, ho il fiatone per una paura superata già, per una certezza schiacciata dalla mia sensibilità. John Watson, perdi credibilità. Ma tu non sei mai stato l'uomo risoluto che era Sherlock. Era. Troppo velocemente sparisce, già non c'è più.
    - Le ho chiamato un taxi - dice qualcuna. Perché tutti si preoccupano per me? Perché vogliono mandarmi via?
Mi trovo al 221b di Baker Street senza rendermene conto, l'auto sfreccia via con un sussurro ovattato che si trascina dietro al tubo di scarico. Sfilo la chiave di casa dalla tasca e la inserisco nella serratura come un automa. Le palpebre si chiudono per un nanosecondo prima che apra la porta.
Silenzio. Le scale sanno già di assenza. Vuoto. Non c'è più. Sherlock non c'è più.
Mi sento come stretto in gola. Mi tolgo il giubbotto, lo getto a terra. Stringo le palpebre e la mia faccia si contorce.
Urlo. Urlo di dolore. Mi schiaccio la testa con i pugni, le nocche mi bruciano, le ossa si contraggono, mi faccio scorrere lungo la parete come uno schifoso insetto. Mi sento così piccolo.
Strillo. Mi schiaccio la testa ancora di nuovo fino ad accovacciarmi a terra; la testa tra le mani mentre tutto di me sembra distruggersi. Mi sento sterminato. Riapro gli occhi gonfi di lacrime, il respiro che mi manca, le tempie doloranti per botte contro il muro che continuo a dare. Le nocche delle mani mi si infiammano sempre di più come se le ossa volessero fuoriuscire da questa pelle sottile. Una lacrima mi scorre sulle labbra semiaperte, le chiudo e la lacrima si schiaccia sulla loro pelle tritata dai miei denti. Mi sto distruggendo.
Mi alzo, barcollo. In cucina trovo la colazione di stamattina, le fette biscottate con marmellata, un mezzo morso sbriciolato sul tavolo. Non ce la faccio a guardare, prendo la bottiglia di scotch e la bevo d'un sorso, mezza bottiglia finisce. Mi appoggio al banco della cucina e sento scendere il liquido dentro il mio stomaco. Mi bruciano gli organi. Alzo la testa per ricacciare l'ultimo litro di lacrime che sta per scendere giù. Sbuffo.

Un improvviso rumore di chiavistello mi fa rinsavire. Sorridendo corro all'ingresso. L'attesa si fa pressante, io sono veloce, impaziente, felice che tutta questa sofferenza sia già finita.
La porta si apre e Mrs. Hudson entra in casa. La mia faccia si ridipinge di paonazzo, guardo alla mia destra con la mascella contratta.
   - Oh, buonasera signor Watson, di buon'ora stasera a casa - canticchia l'anziana donna. Il mio viso diventa rosso e gli occhi mi si rigonfiano d'ira e disperazione. L'afferro per la collottola con uno scatto repentino che la donna non comprende. Le sento un rantolo di paura uscirle dalla gola.
   - Dov'è?! - gli strillo in pieno viso. - Dov'è?!
Gli occhi della signora Hudson sono iniettati di terrore, mi guarda, incredula del gentile uomo che credeva di conoscere. Deglutisco e la lascio andare, le braccia mi ricadono lungo i fianchi come steli di paglia.
   - Sherlock, Sherlock ... - mormoro a singhiozzi. Cado in ginocchio e mi getto ai piedi della signora Hudson. La poveretta mi guarda basita, cerca di farmi alzare.
   - Cosa succede, John? - sussurra ancora spaventata, mi sembra di poterle sentire il cuore battere all'impazzata. - John, per l'amor del cielo, cosa è successo? - tuona con la sua vocina stridula.
Mi sembra di essere un bambino frignone, mi sento distruggere di nuovo. Quell'ennesima speranza di vederlo tornare a casa, sano e salvo, è svanita. Mi sono illuso troppo in fretta.
   - Sherlock se n'è andato, se n'è andato! - urlo contro il suo ginocchio.
   - Oh Signore... - la guardo in viso e lei si poggia una mano sulla bocca mentre gli occhi le si riempiono di lacrime.

***

Ogni giorno, da quello, Mrs. Hudson entra in casa e mi trova poggiato a quella cucina troppo deserta.
Guardo l'orologio appeso al muro, le 6.09 di sera. Il cappotto che vola giù, quella chiazza di sangue, il polso che non batte, la mia mente dolorante, l'impossibilità della situazione. Non sorrido. Semplicemente guardo quell'orologio e quelle briciole sul tavolo e sussurro: "Ti odio, Sherlock Holmes", perché quell'uomo è capace di farsi odiare anche da morto.

***

I giorni a venire non furono altro che una tortura, mi sembrava fossero passati anni, mi sentivo dei dolori improvvisi dovuti all'assenza e bevevo. Ho ricordato spesso cosa avessi provato, come sfogliando pagine di diario scritte una settimana prima, ma mi sembrava che fossero passati altri diciotto mesi dalla sua scomparsa, come se il tempo avesse cercato di riempire l’assenza con l’inesistenza. Come se i diciotto mesi con lui non fossero mai arrivati. Come se lui non mi fosse mai piombato nella vita.
La poveretta della signora Hudson dovette sopportarmi per un altro po', finché non tornai a casa con quella furtiva decisione fra le mani. - Me ne vado da qui, da quest'appartamento.
La signora Hudson mi guardò con i suoi occhietti impauriti ma comprensivi. - Perché non gliel'ha detto prima, John?
Fingevo di non capire. Ma sapevo bene.
Feci le valige, ma mi resi conto che tutte quelle parole non erano servite a nulla, non potevo andarmene d lì, vivevo attaccato a quell'appartamento come una stupida carta da parati. Vivevo come la muffa che si accumulava negli angoli delle stanze
La piccola casa al 221b di Baker Street adesso diveniva famosa per una morte accertata dalle biopsie, adesso la 221b era una casa pubblicitaria. Uno stupido appartamento che arricchiva la stampa anche solo per un movimento alle finestre. Io divenni pagine su pagine dello "sfortunato fantasma di Holmes", una stupida testimonianza della sua esistenza. Una prova del dolore che mi aveva provocato. Ero fantasma persino di me stesso, che giravo per Londra con la voglia di fare, di trovare, disperatamente ricercatore di qualcosa che già è sotto terra o ovunque fosse.

***

Io, John Watson osservo queste pareti scolorite in questa cucina che un tempo era gremita dei nostri commenti sarcastici. Mi accascio contro queste pareti, mi schiaccio le dita sulle palpebre strette, le sopracciglia tornano a crearmi strane espressioni di sofferenza sul viso.
Mrs. Hudson non commenta, mi vede chiudermi in casa per una giornata intera e mi guarda uscire di casa come nulla fosse successo, come se non stessi diventando la talpa priva di avventure che invece riempivano la mia vita un tempo. Rimpiango i tempi in cui mi riempivano di esplosivi e aspettavo di morire sui bordi delle piscine, con gli occhi di Sherlock nei miei, che aspettavano di trovare una giusta soluzione a tutte quelle stranezze con cui ci eravamo imbattuti dal nostro primo incontro con Moriarty.
Mi sembrava strano che i nostri casi arrivassero sempre a quella strana linea limite che convogliava quel ragazzo decisamente e stranamente amichevole in principio.
Mi manca terribilmente il pettegolezzo su di noi. Non ci è stato mai nulla di così vero, di quello che hanno detto su noi. Adesso mi chiamano il “vedovo innamorato”. Mi sento come schiacciato dentro, proprio là dove si sentono i sentimenti. Sei un soldato, John Watson. Hai curato le persone in guerra, hai curato te stesso.

Esco di casa oggi, decido di fare un giro, quasi sfinito di questa oscurità dovuta alle finestre chiuse e alla mancanza delle nostre conversazioni che rendono tutto così fottutamente silenzioso. Mi rendo conto che Londra, così caotica e piena di sguardi e di vita, non fa per me. Attraverso la strada e un camion sta per centrarmi. Il clacson quasi mi scoppia un timpano. Mi stordisce e cado. Sulla parete destra del veicolo la scritte “ALI’s fabrikations”. Corrugo la fronte a quella scritta e guardo le mie mani sull’asfalto. Non va bene che stia qui. Non posso più muovermi. Tampono i graffi con un palmo della mano sull’altro.

***

Inizio a tagliarmi del pane su questa tavola, è di tre giorni fa. Non ho bisogno di cibo, se ho fame la tavola calda è un ottimo posto.
Diciotto giorni. La vita mi scorre davanti agli occhi perché tutto questo vuoto mi sembra di sentirlo da una vita intera. Mentre penso mi taglio lungo l’indice con il coltello che ho in mano. Mi sento lacerare la pelle per la mia distrazione, afferro un panno dalla cucina e me lo schiaccio sulla ferita. Tutta questa pena mi muore e mi rinasce dentro. Pena per me stesso, per l’uomo che sono stato, per l’uomo felice che stavo diventando.
Perché ti sei lanciato da quel fottuto palazzo, Sherlock? Perché lo hai fatto? Non lo saprò mai.
Hanno trovato Moriarty su quel palazzo, uno sparo in gola che gli ha bucato la nuca. Ho visto il corpo di quell’uomo nei notiziari alla tv, ne parlano come se il responsabile fosse il mio amico. Quel mio compagno.
Sono stanco di queste stronzate che sparano sui giornali, questi titoli accattivanti che cerco di ignorare quando passo davanti alle edicole e ci sono triliardi di fogli spalmati ovunque. Queste pagine di giornale non mi importano per niente.
Mi sposto quella pezza pregna di sangue dal mio dito, la getto a terra e scaglio il coltello dall’altro lato della stanza.
Singhiozzo, un sospiro per riprendermi, ultimo respiro profondo. Basta John, sei una ragazzina. Sei un uomo forte. Un uomo forte dilaniato in corpo, ma pur sempre un uomo. E forte.
Posso farcela.
Deglutisco e vado a farmi una doccia. Mi sento una stupida femminuccia. Ingoio l’acqua che scorre, la trattengo nelle guance e poi la sputo via. E’ bollente ma non mi brucia più nulla su questa pelle. Esco, raggiungo l’accappatoio e mi ci appendo contro. Mi distruggo ancora. Domani. Io domani non voglio vederlo in quella fottuta tomba e in quella cazzo di terra assieme ad altri mille corpi.

***

Il taxi ci trasporta dall’altra parte di Londra, i palazzi sfiorano col loro riflesso il finestrino lungo queste strade, qualche albero, un ponte, buio, ci sono io che mi ci rifletto. Il cimitero. Arriviamo, stringo, quasi aggrappandomi, i fiori da posargli sulla tomba. Li schiaccio tra le dita. Sospiro e sono spento. Mi spengo su quell’erba mentre la calpesto. Mi trascino e striscio. Sono di nuovo quello sporco insetto gravido di sensi di colpa. “Scusa, John”, scusa per cosa, Sherlock? Scusa se ho provato qualcosa per te, scusa che sei stato per me qualcosa di più di un semplice coinquilino e che mi manca vederti esaminarmi ed esaminare con le tue brillanti deduzioni? “Scusa, John” e finisce tutto con quella stupida frase che non ha un punto, ma solo puntini sospensivi che adesso vorticosamente mi girano in testa e non trovano frasi a cui mettere fine.
Perché non può essere la fine, Sherlock. Non è ancora successo nulla, non c’è momento che sia mai finito tra noi, perché io non so mettere punti alle cose, sei tu… era che mi stupivi ogni volta che chiudevi un fascicolo fiero e anche fin troppo falsamente modesto di aver finalmente chiuso anche quell’ennesimo caso. Eri come un pozzo di conoscenze anche per me. E io non vedevo l’ora di viverti ancora, Sherlock. Sei sempre stato la mia sorpresa.
“No, cazzo, cancellate quel nome da quella lapide”, lo vedo rilucere su quel marmo scuro e nuovo, lettere d’oro incollate, scolpite poi che nessuno carezzerà tranne me e la signora Hudson che singhiozza al mio fianco. Faccio qualche passo avanti. Mi blocco. La signora Hudson prende quel mazzo di fiori e lo poggia a terra, continuando a blaterare sul tuo corpo unanime che si nasconde sotto questo terreno che non sarà mai calpestato.
Lancio uno sguardo d’intesa a Mrs. Hudson, deve tacere, ho bisogno di parlare solo con te.
Parlo e non me ne accorgo che mi brucia dentro, che mi frantumo. Mi avvicino, sento la freddezza di questo marmo sotto le dita calde.
   - Ero così solo - dico convinto. - E ti devo tantissimo.
Inspiro. - Un solo miracolo Sherlock, per me, non essere morto - dico fra le lacrime che oramai mi bagnano la faccia come la pioggia.
E che poi ricaccio indietro.
Singhiozzo mentre vado via, cammino dritto, cerco di sembrare un uomo su questo terreno di sterminio e dolore, cerco di sembrare vivo, ma per sembrare vivo devo avere emozioni e allora mi lascio piangere addosso quest’assenza che ora sento certezza nelle ossa. Mi allontano, la testa bassa che bagna l’erba. Addio Sherlock.




A/N:
salve, è la prima fic su Johnlock che posto. Questa è soltanto la prima parte, quella parte che tutti conoscete, però  maggiormente dal punto di vista di John. La seconda parte sarà un meanwhile e una soluzione al dilemma che ho "progettato" io, diciamo. (: spero sia di vostro gradimento, sia questa prima parte che il continuo, se la seguirete. xx

  
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