Mirror
Mirror, tell me something.
Tell
me who's the loneliest, of all?
(Mirror Mirror, Jeff Williams and Casey Lee
Williams)
Il
buio lo avvolgeva, come una di quelle calde
coperte nelle notti troppo fredde: caldo, accogliente, ma anche
terribilmente
soffocante.
Non
c’era nulla che potesse, in qualche modo, far
entrare il benché minimo raggio di sole o qualsiasi altra
forma di luce che
potesse andare a sciogliere la presa dell’oscurità.
Ma
Roxas sapeva che era inutile pregare per qualcosa
di simile: per lui che dall’oscurità era nato non
ci sarebbe mai stata alcuna
luce.
Allora
restava lì, fermo nell’immobilità del
niente,
in attesa di qualcosa – di qualcuno- che non sarebbe
arrivato, perso nella
solitudine di cui solo le ombre sono a conoscenza.
Lì,
nel cuore di Sora, non c’era nulla per lui.
Nonostante
quello fosse il suo posto da sempre, sembrava
che, nel lasso di tempo in cui si era allontanato dall’altro
se stesso, persino
quel luogo si fosse dimenticato di lui, trasformandosi in una prigione
buia in
cui un Nobody come lui finiva per perdere anche il minimo barlume di
emozione a
cui era riuscito a rimanere legato, tramutando ciò che, in
teoria, non avrebbe
dovuto avere in pietra.
Tuttavia
Roxas non si ribellava a quella condizione,
conscio di ciò che era.
Ci
aveva provato solo una volta e il dolore che ne
era conseguito era stato talmente tanto da annientarlo.
C’era
stato un momento, un singolo attimo nell’infinità
del sempre, in cui una piccola finestra si era aperta sul mondo di Sora.
E
lui, ingenuo ingordo di normalità, aveva corso
come un disperato verso quella che appariva come una fonte di salvezza,
ma che
in verità era stata un’ulteriore prova della sua
condanna.
Da
quella piccola fessura Roxas aveva potuto vedere
l’unica cosa che mai avrebbe voluto vedere.
E
all’improvviso la pietra si era rotta e aveva
iniziato ad urlare, ma nessuno –che perfida ironia- poteva
sentirlo; aveva
urlato al se stesso al di là di quel vetro di stare attento,
di fermarsi, di
fermare l’altro, ma a nulla erano valse le sue grida; aveva
allungato le mani,
dita protese a raggiungere quell’alone di oscurità
che scompariva per sempre
tra le braccia sbagliate, ma non era riuscito a toccare nulla.
E
aveva pianto, Roxas. Aveva pianto tutto il suo
dolore, pregando per riuscire a strapparsi fuori dal petto quel cuore
che non
doveva avere, ma che sentiva struggersi terribilmente a quella vista.
Poi
lui aveva
parlato e il dolore era cresciuto, ma Sora, dall’altra parte,
non riusciva a
sentirlo, non riusciva a capirlo.
Negli
ultimi istanti, quando si era reso conto che
tutto quello che avrebbe fatto non sarebbe servito; quando si rese
conto che la
piccola finestra si stava per chiudere, portandolo di nuovo nella sua
prigione,
Roxas si era rassegnato.
Accasciandosi
in ginocchio, le braccia ancora protese
verso quell’esterno che non poteva raggiungere, aveva infine
posato leggermente
le labbra su quel vetro, senza un vero motivo se non quello dettato
dalla
disperazione.
Ma
ciò che gli aveva risposto era stato solo il suo
riflesso, e lui si era sentito come un bambino che appoggia le labbra
sul vetro
della propria finestra per imitare un gesto d’amore che non
può ancora capire.
Perché
lui non poteva capire.
Perché
lui non aveva un cuore, il buio lo sapeva e,
proprio per questo, non gli permetteva di nascondersi da se stesso.
Quella
era la sua punizione: restare solo con se
stesso, a cercare le risposte per un cuore che non poteva esistere, nel
buio,
per sempre.
°Blabla
vari°
La
canzone iniziale –che anche se non c’entra nulla
era bella lo stesso- è questa http://www.youtube.com/watch?v=qROQOpei73Q
e sì, ho seri problemi perché mi sono figurata
immediatamente Roxas: curatemi!
L’unica
nota seria che mi sento di fare è che ciò che
vede Roxas dovrebbe in teoria –molto
in teoria- essere la “morte” di Axel, ma non ho
voluto specificarlo.
Lasciamo
perdere poi che ciò che ho scritto non ha molto senso ed
è un po’ orribile, ma
fa nulla.
Alla
prossima, Seki