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Autore: Francine    16/08/2013    1 recensioni
[Great Mazinger/Il Grande Mazinga]
'Cause nobody knows what’s gonna happen tomorrow
We try not to show how frightened we are.

(Duran Duran - What’s gonna happen tomorrow, 2004 )
Genere: Introspettivo, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Lui&Lei'
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Dove sarai domani?


‘Cause nobody knows
what’s gonna happen tomorrow
We try not to show
how frightened we are
(Duran Duran- What’s gonna happen tomorrow?)


Fortezza delle Scienze, Penisola di Izu, Giappone.
21 Maggio 1974

« Procedura di rientro completata.»
Il dottor Kenzo Kabuto riprende a respirare. Osserva sul monitor le telecamere che gli mostrano da diverse angolazioni la discesa poco atletica di Tetsuya dal Brain Condor.
Prende in mano il microfono. Sorride. « Ottimo lavoro, Tetsuya.» gli dice, anche se vorrebbe chiamarlo figliolo, ma non può. Non è il momento. La guerra contro i Micenei è al suo culmine, e il ragazzo deve rimanere concentrato sulla sua missione; ma, in futuro, Kenzo Kabuto si ripromette di essere meno chiuso e freddo. Ma in futuro, quando potrà finalmente svelare a Shiro il legame che li unisce, e magari riabbracciare Koji. « Ora lascia che i tecnici si occupino del Grande Mazinga, e vatti a riposare.»
Tetsuya vorrebbe obiettare che lui non è affatto stanco, e che se fosse per lui uscirebbe subito di nuovo a perlustrare la zona, ma poi desiste; borbotta un « Roger » poco convinto e si dirige agli ascensori, non prima di aver lanciato uno sguardo al gigantesco robot che lo accompagna in battaglia.
Il dottore spegne il microfono. « È il caso che vada a vedere come procedono le riparazioni. Dottor Tonda, viene con me?»
« Sicuro », replica il diretto interessato.
« Jun », le dice Kabuto prima di entrare in ascensore « te lo affido ».
Lei annuisce. « Dai, Shiro, andiamo.»
« E dove? » le domanda il ragazzino. « Tetsuya sarà stanco e vorrà riposare.»
« Appunto, ma prima deve farsi una doccia. E se non ci sbrighiamo, quel sudicione se ne andrà a dormire sporco e sudato così com’è.»
Shiro le trotterella dietro ridacchiando. « Secondo me ti preoccupi troppo », le dice, alludendo ad un legame ipotetico che secondo lui dovrebbe esserci tra loro due.
Lei non sa più in che lingua dirgli che non è così, ma si sa come sono testardi i ragazzini quando s’impuntano. « Tu dici? »
« Si capisce », risponde Shiro dandosi arie da esperto. « Tetsuya è un uomo, e un uomo non si profuma come una donnicciola. »
« Un po’ di sapone non ha mai fatto male a nessuno. E questo vale anche per te.» Jun liquida la questione in due parole.
« Ma se mi lavo se ne va via l’abbronzatura! Mica sono come te!»
« Come hai detto? »
« L’abbronzatura », precisa Shiro mostrando il segno del costume. « A te è bastato prendere un po’ di sole l’altro giorno e sei già scura, io, invece, mi sono scottato, con tutto che mi sono spalmato per bene di olio solare.»
Lei sorride. « Sbrighiamoci, ora o non faremo in tempo », lo esorta prendendo un telo da bagno bianco. Quest’anno voglio un colorito invidiabile…


Orfanotrofio “Casa delle Rondini”, Tokyo, Giappone.
19 Luglio 1963

« Vattene via, sei tutta sporca» le gridano le altre bambine allontanandola dal loro gruppetto.
« Fatemi giocare» le prega lei remissiva. Se mi faccio vedere gentile, mi vorranno bene e mi accetteranno, spera mentre le altre la fissano in cagnesco. « Per favore. »
« No. Hai le mani sporche», risponde lapidaria Natsuko, la capobanda. Nessuna osa muovere un muscolo se non lo dice lei.
« Ma me le sono lavate. Lo giuro», insiste portandosi le mani al petto, implorandole, quasi, che le permettano di giocare con loro e non la lascino in disparte a guardare mentre loro si divertono e lei no.
Non le credono. Non le credono mai.
Natsuko alza di nuovo la voce, intimandole di non seccarla ancora, ed ecco che arriva Taro, il capo dei maschi, a darle manforte. Come se ne avesse bisogno.
« Vattene via. Sei sporca, fuori e dentro.» grida Natsuko, e Taro rincara la dose.
« Sei sorda? Oppure hai le orecchie piene di cerume? Vattene!»
Lei indietreggia, intimorita dalla stazza di quei due. « Ma è vero! Me le sono lavate!», mormora mentre loro si avvicinano e le lacrime salgono a pizzicarle gli occhi. Perché non mi credete?, pensa. Si guarda le mani, sente l’odore di rosa della saponetta e li fissa.
A quel punto, di solito, succedono due cose: o le grida di Natsuko richiamano l’attenzione della signorina Sumire, che interviene a difenderla insieme al suo amico Satoru, oppure, se è particolarmente sfortunata, Taro raccoglie un sasso e glielo tira contro, subito imitato da tutti gli altri.
Oggi non è giornata.
La pioggia inizia, e lei fa appena in tempo a rannicchiarsi che un tiro più zelante degli altri centra in pieno una finestra.
« Che succede? » grida la voce gracchiante della signorina Okochi, e tutti i bambini scappano lontani dalla sua portata.
Jun resta fuori a piangere, la testa nascosta tra le ginocchia. Sa già che, se la signorina Sumire non assiste al fattaccio, la signorina Okochi darà a lei la colpa di quel vetro rotto.
La signorina Sumire la consola sempre, la difende dagli altri bambini e le cura anche le ferite che le procurano sempre accidentalmente, come sostiene la signorina Okochi. Questa è una zitella con una crocchia color topo che trattiene dei capelli legati stretti stretti, un paio di occhiali bruttissimi e un kimono nero con l’obi rattoppato.
Ogni volta che accade qualcosa di spiacevole, la colpa è di Jun. Per la signorina Okochi è stata lei, e non Takeshi, a dar da mangiare il veleno al gatto del vicino; è stata lei, e non Sadako, a mettere il sale all’acqua dei pesci rossi, ed è sempre stata lei, e non Himeko, ad attaccare i pidocchi agli altri bambini dell’orfanotrofio.
La porta si spalanca e la signorina Okochi esce in cortile.
« Jun! Lo sapevo che c’era il tuo zampino in tutto questo! » la sgrida. È come se non vedesse i sassi a terra attorno a lei e il pietrisco che le sporca i capelli mossi. Jun si chiede come faccia ad essere così cieca.« Cos’è, non puoi giocare tranquilla con la sabbia come tutti gli altri bambini?»
« Loro non mi fanno giocare… », piagnucola lei, tirando su con il naso.
« Ma mia cara, non puoi pretendere di andare a genio a tutti. Magari non volevano giocare con te. Capita, sai? »
Jun ha imparato presto che quei mia cara, pronunciati con tono suadente, vogliono dire, invece, che non la sopporta, che, se fosse per lei, la spedirebbe il più lontano possibile dalla sua vista, ma non può. Per ogni bambino ospite in un orfanotrofio, lo Stato garantisce un benefit, e più bambini ospita una struttura, più soldi riceve dall’Erario. E la “Casa delle Rondini” ha bisogno di soldi per tirare avanti, per questo la signorina Okochi effettua una selezione dei suoi piccoli ospiti, e quando arrivano degli aspiranti genitori, sposta nelle prime file quei bambini che hanno qualche chance di essere adottati; e Jun, che assomiglia ad una mou in una scatola di mentine, non avrà mai quest’opportunità.
« Meglio che si levi certi grilli dalla testa, ed impari a rendersi disponibile per lavorare qui dentro», le ha sentito dire una volta alla signorina Sumire mentre annaffiava i tulipani sotto la sua finestra.
« Avanti, adesso alzati e vai a lavarti la faccia. Ti aspetto nel mio ufficio, mia cara », le dice aiutandola. Sorride, e Jun sa che qualcosa non quadra.
Primo, la signorina Okochi non sorride mai, e se ride, il naso e il mento si toccano tra di loro, come una strega delle fiabe. Uno spettacolo non gradevole. Tutt’altro.
Secondo, in condizioni normali le avrebbe urlato contro, e l’avrebbe messa in punizione a sedere sui fagioli secchi fino a che non le fossero venute le piaghe sulle ginocchia.
Terzo, avrebbe potuto scordarsi la gita al mare della domenica.
Invece, non accade nessuna di queste tre cose. Lei resta a guardare stralunata la signorina Okochi, pensando che qualcuno l’abbia sostituita durante la notte – un marziano, forse? – e quella continua a sorriderle.
« Avanti, cosa aspetti? » la esorta mentre gli angoli della sua bocca cedono dalla paresi che hanno assunto e tremano, tradendo un certo nervosismo.
Jun annuisce e va in bagno.


Niente, non va via, pensa insaponandosi per bene le mani. Gli altri bambini pensano che la sua pelle sia scura perché lei non si lava, ma per quanto lei s’insaponi e si strofini fin quasi a scorticarsi, resta color caffellatte.
« Che stai facendo? »
« Mi sto lavando… » replica lei.
« Te le hanno date di nuovo, eh? »
La signorina Sumire le dice sempre di non lasciarsi abbattere, che non conta come si è fuori, ma come si è dentro, e che alla fine Natsuko e Taro l’accetteranno.
« Se fai vedere loro che te la prendi, insisteranno e lo faranno apposta per farti arrabbiare », le dice anche stavolta asciugandole le lacrime.
« Ma io voglio solo giocare con loro… »
Jun si sente triste. Non ha amici, non ha compagni, né nessuno che si sieda accanto a lei per mangiare a mensa, tranne Satoru; ma Satoru non è una bambina e, per quanto lui la difenda, non ama giocare con le bambole o fare il girotondo con lei.
La signorina Sumire fa spallucce. « Oh, ma tu non hai bisogno di loro per giocare.»
« No? »
« No » risponde decisa. « Ti ricordi il gioco che ti ho insegnato? »
Jun annuisce.
Si tratta di un passatempo molto divertente, e che mette in risalto il suo spirito d’osservazione, anche se adesso Jun è troppo piccola per capirlo. Consiste nel sedersi da qualche parte, in silenzio, fissare un punto, un albero, una casa, un fiore, un sasso, e chiedersi: “Dove sarò domani?” e poi partire con la fantasia immaginando lo scenario con dovizia di particolari.
Può essere un pirata spaziale, una ballerina, una farfalla, una violinista o una pittrice; può essere tutto quello che vuole.
La sua ambientazione preferita è quella in cui è una principessa coraggiosa, come Zaffiro di Silverland, che di giorno vive in un castello a picco sul mare, con una grande torre da cui si può vedere tutto il regno, mare e monti, colli e valli; di notte, invece, si veste di nero, salta in groppa al suo cavallo e se ne va per le strade a riparare i torti a suon di spada.
Si dice che i sogni diventino realtà, e Jun non sa ancora quanto questo adagio possa essere vero. « La signorina Okochi ti aspetta nel suo ufficio », le dice la signorina Sumire pettinandole i capelli con le mani e spolverandole il vestito. « Non vorremo farla aspettare, vero? »


La sagoma dell’orfanotrofio sparisce man mano che la vettura blu scuro si allontana.
Jun si siede sulle ginocchia e continua ad agitare la mano per salutare la signorina Sumire che è rimasta fuori dal cancello grigio. Gli altri sono rientrati subito. Probabilmente non mancherà a nessuno di loro. Anzi, saranno sollevati.
La Casa delle Rondini sparisce dietro una curva e lei si mette seduta composta.
Il signore che l’ha adottata, il dottor Kabuto, è un uomo sui trentacinque anni, vestito con un completo nero, un paio di guanti anche se è piena estate, e ha una cicatrice che gli va da una parte all’altra della faccia.
« Jun, questo signore da oggi in poi sarà il tuo nuovo papà… » le ha detto la signorina Okochi, e la signorina Sumire l’ha accompagnata a mettere in una sacca le sue cose: i suoi vestiti, la sua spazzola con le ciliegie sul dorso e il suo panda di pezza.
Jun stringe forte l’orlo del vestito pulito, e guarda l’uomo accanto a sé, non sapendo bene come chiamarlo. Papà? Signore? Dottore? Ehi tu?
Per fortuna ci pensa lui a rompere il ghiaccio. « Io sono il dottor Kenzo Kabuto. Gradirei che non mi chiamassi papà o zio, perché non sono né tuo padre né tuo zio. »
« E come devo chiamarla, signore? »
« Dottore andrà più che bene. »
Il dottor Kabuto tace di nuovo e lei fissa le sue ginocchia, non sapendo dove altro guardare.
« La signorina Okochi dice che ti piacerebbe diventare una principessa di giorno e un’eroina di notte… »
Lei arrossisce. Che significa quella domanda? Può continuare a sognare di essere la principessa Jun, oppure deve smetterla?
« È un bel problema», le dice il dottore gettandola nella più cupa disperazione. « Vedi, Jun, ci sono due modi per essere una principessa; il primo, il più semplice, è quello di essere la figlia di un qualche re, ma io non lo sono, né ho intenzione di diventarlo, e quindi non è una strada praticabile.»
« E il secondo? » domanda pendendo dalle sua labbra.
« Il secondo è quello di sposare un principe, ma credimi, legano tra di loro ed è molto difficile che una ragazza di umili origini ne sposi uno », risponde lui con la massima franchezza. Forse anche troppa.
Lei torna a fissare le sue ginocchia, avvilita. Come sarebbe? Non potrà diventare una principessa? E allora come farà a vivere in un castello a picco sul mare di giorno e a cavalcare nella notte per aiutare i deboli?
Poi quell’uomo riprende a parlare. « Però, se non possiamo fare di te una principessa, posso sempre tentare di renderti un’eroina…» e lei rinasce.
« Davvero? »
« Davvero. »

È un castello bianco quello che Jun vede non appena l’automobile imbocca una strada che costeggia il mare. Si avvicina al finestrino, le mani sul vetro, e fissa rapita la sagoma bianco gesso all’orizzonte.
« Chi abita lì? » chiede eccitata.
« Noi. Quella è la Fortezza delle Scienze e da oggi sarà anche casa tua » le risponde il dottor Kabuto.
La Fortezza delle Scienze, ripete dentro di sé. Il nome le piace. Avrebbe preferito che si chiamasse il Castello delle Scienze, ma può adattarsi. Forse le eroine vivono nelle fortezze e le principesse nei castelli, pensa lei mentre la vettura si ferma. L’autista preme un pulsante e aspettano.
Jun si chiede cosa ci sia da aspettare. Non c’è un semaforo o un ponte, o i binari del treno, ma uno strapiombo scosceso, e la Fortezza dall’altra parte del dirupo che sembra poco propensa ad accoglierli.
La signorina Sumire le obbietterebbe che le cose non hanno sentimenti, né tantomeno pensano, ma la signorina Sumire non è accanto a lei a fissare quella costruzione massiccia con una grande torre bianca che sembra proprio dirle: E tu chi sei?
Poi, quando meno se l’aspetta, accade qualcosa. Dalla Fortezza si allunga verso di loro un ponte d’acciaio e si incastra nello sperone di roccia su cui l’automobile del dottor Kabuto aspetta.
« Un ponte levatoio! » strilla lei eccitata all’idea. « Allora quello è un castello!»
Il dottor Kabuto le sorride. « Beh, in un certo senso lo è. Ma non metterti in testa l'idea di essere una principessa. Intesi, Jun?»
Jun annuisce, fissando il castello/fortezza che si avvicina sempre di più. Non vede l’ora di scendere e di esplorarlo tutto, e di dare un’occhiata dalla torre.
Sarò un’eroina che vive in un castello a strapiombo sul mare!, pensa scendendo dalla vettura. Al diavolo le principesse! C’è il castello, c’è il mare, c’è anche la torre, e questo le basta e avanza.
Fissa la torre, a base quadrata, poi il dottor Kabuto la chiama. « Vieni qui, Jun. »
È allora che lo vede. Un ragazzino con una tuta blu, i capelli spettinati, le braccia incrociate sul petto e l’aria strafottente la sta fissando, anche se fissando non è il termine più adatto. La sta piuttosto squadrando dalla testa ai piedi, senza dire nulla, senza uno sguardo cattivo come quelli che le lanciavano Natsuko e Taro.
« Jun, lui è Tetsuya. Spero diventerete amici.»
Lei sorride, lui si avvicina e le porge la mano. « Tetsuya Tsurugi. Piacere», si presenta come un vero ometto. « Bell’abbronzatura. Da dove vieni? Okinawa?»
« No, da Tokyo », risponde un po’ intimorita. Può davvero stringergli la mano? « Posso? » chiede lei cercando risposte nel dottor Kabuto.
Lui si limita ad annuire.
« Sono Jun Honoo » si presenta a sua volta. « Piacere.»
« Tetsuya, da oggi in poi Jun entrerà a far parte dell’equipe della Fortezza delle Scienze. Spero diventerete amici.»
« Sicuro.» replica Tetsuya.
« Sì » si accoda lei, sentendosi bene.
« Bene, adesso che abbiamo fatto le presentazioni, possiamo andare » dice il dottore mettendosi in marcia. « Vieni, Jun, ti mostro la Fortezza e la tua stanza. Tetsuya, tu fila a completare i tuoi allenamenti, ci rivediamo a cena. E voglio che tu abbia già fatto la doccia. »
Tetsuya prova a rispondere, ma un’occhiata del dottore gli fa chinare il capo. « Signorsì », dice, le mani dietro la testa e una linguaccia pronta ad uscire non appena il dottore gira le spalle.
« E stasera niente dolce, così impari a fare certe cose…» lo liquida quello seguito a ruota da Jun. « È un bravo ragazzino. Forse un po’ presuntuoso, ma ha un gran cuore. Ah, ed è un sudicione, ma spero che la presenza di una signorina lo induca a curare di più la sua igiene personale. Vuoi aiutarmi?»


Fortezza delle Scienze, Penisola di Izu, Giappone.
21 Maggio 1974

La cultura giapponese vede come canone di bellezza una pelle candida come la neve.
Lui è uno dei pochi uomini a cui piace la carnagione scura, ammesso che per quello zuccone il verbo piacere possa includere qualcos’altro oltre agli allenamenti, alle corse in moto e ai piatti abbondanti di riso al curry.
Crescendo fianco a fianco con lui, è arrivata a dimenticare di essere scura, e ad avere di sé un’immagine diversa da quella che le rimanda lo specchio, tant’è vero che il primo rossetto che ha acquistato lo ha scelto di un bel rosa pesca che faceva a cazzotti con la sua carnagione moka.
Fino alla scorsa settimana lei si vedeva bianca come la neve. E per questo, quando una domenica dei ragazzi l’hanno sfottuta dicendole « Ehi, cioccolatino, hai perso il treno per l’Africa? » lei ha reagito a calci e pugni, fino a farsi portare in questura per disturbo della quiete pubblica. E chi mi ha aiutato ad uscirne fuori?, pensa mentre la sua testa le rimanda l’eco di quelle parole.
È un bravo ragazzino. Forse un po’ presuntuoso, ma ha un gran cuore. Ah, ed è un sudicione, ma spero che la presenza di una signorina lo induca a curare di più la sua igiene personale. Vuoi aiutarmi?
« Eccolo! » esclama Shiro mentre le porte dell’ascensore si aprono.
Tetsuya avanza strascicando i piedi come se fossero di piombo. È stanco. Stremato. Oh, davanti a lei non l’ammetterà mai neanche scuoiato vivo, tanto meno davanti a Shiro che tesse le lodi di suo fratello ogni momento, ma Jun lo vede, così come vede che non appena Shiro nomina questo Koji, Tetsuya si rabbuia e fa per minimizzare le sue fantomatiche imprese.
Koji non si è mai allenato giorno e notte, come loro due.
A quanto hanno capito, hanno condotto un’esistenza spensierata sino a quando non è caduta sulle loro teste una tegola da quindici tonnellate, Mazinger Z. Koji aveva sedici anni, sedici anni passati andando a scuola e sognando di diventare medico, astronauta o stella del baseball.
Tu, invece, non hai avuto altra scelta. Non sei stato tu a trovare il Great Mazinger, ma è stato lui a trovare te, pensa Jun avvicinandosi. È un gioco da ragazzi sapere cosa stia attraversando quel cervello bacato. Tetsuya ha la faccia esausta di quando vuole crollare sul letto con tutta la tuta addosso, poco importa se ha sudato e gli si è appiccicata sulla pelle come un collant bagnato.
Lui si toglie il casco di protezione mentre Shiro gli saltella intorno entusiasta. Ha i capelli zuppi e le basette imperate di sudore. Dove credi di andare?, si dice Jun porgendogli di nuovo l’asciugamano.
Lui l’afferra, ma ci prova lo stesso. « Vado a riposarmi un po’… »
« Ma farti una doccia, no?», protesta lei schifata.
« Sono stanco » prova a tagliare corto lui.
« Storie! Non c’è stanchezza che tenga. L’igiene innanzitutto, lo sai! E poi » insiste lei, le mani sui fianchi tondi, « se non impari ad avere più cura di te stesso, non ti prenderà nessuna!»
Come se a te non stesse a cuore l’esatto contrario, pensa Shiro gustandosi il siparietto.
« Strega! » risponde lui. « Invece di preoccuparti per me, perché non impari ad essere più femminile? »
« Fila a lavarti. Ordini del dottore » aggiunge lei, e lui capisce che è capacissima di infilarlo a calci sotto l’acqua.
Sospiro sin troppo teatrale, testa che ondeggia rassegnata e un « Agli ordini! » segnano la capitolazione di Tetsuya. Sbuffa, si passa l’asciugamano dietro il collo e la supera in direzione delle docce.
« Tetsuya, posso venire con te? » gli chiede Shiro trotterellandogli dietro.
« Donne… Stai attento, ragazzo, sono più matte loro di un cavallo.» mormora Tetsuya.
« Guarda che ti ho sentito…» risponde lei fingendo d’essere arrabbiata.

Il mare al tramonto, con il sole che spande i suoi raggi rossi da dietro le colline, è uno spettacolo che la rassicura sempre.
Anche questo giorno è passato. I Micenei sono stati battuti, la Regina delle Stelle è stata revisionata, ha fatto i compiti per corrispondenza e Tetsuya ha fatto la doccia.
Si siede sulla terrazza, la gonna sotto le ginocchia per non sgualcire le pieghe, e decide di prendersi cinque minuti per sé.
Dove sarai domani, Jun?
Da qualche tempo a questa parte sogna che le battaglie finiscano, e che possa vivere in pace; non più in un castello, o in una fortezza, ma in una casa con un giardino e una cucina abitabile, e preparando il bagno per suo marito ogni sera.
Come recita quel proverbio?
A volte, i sogni si avverano.
   
 
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