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Autore: Im_Not_Okay    17/08/2013    2 recensioni
DAL PRIMO CAPITOLO: "Era più o meno mezzanotte e lui era uscito perché non riusciva davvero ad addormentarsi, erano ore che ci provava. Era uscito nonostante sapesse benissimo che quella era una città pericolosa. Ad ogni angolo potevi trovare spacciatori di droga, ladri pronti a fotterti il portafoglio, criminali pronti a spararti in testa senza "se" e senza "ma". Eppure Alex aveva deciso di uscire comunque.
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Il volto completamente coperto da lacrime, calde, salate, pesanti... Dio, per quel che sapeva avrebbe potuto star piangendo sangue, tanto quelle gocce fuggitive facevano male. I singhiozzi gli impedivano anche di respirare, gli squarciavano il petto riducendolo a una piccola fogliolina tremante e impaurita rannicchiata in un angolo.
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Il destino esisteva? Alex non lo sapeva. Nessuno lo avrebbe mai potuto sapere per certo. Ma di una cosa era sicuro, QUALCOSA che lo aveva spinto verso il piccolo che in quel momento era stretto al suo petto c'era. E sapeva che loro si erano sempre cercati, senza scoprirlo mai. Senza sapere nulla prima di quel momento. Ma ora, ora che si erano trovati... ora sapevano entrambi, sapevano che si erano cercati."
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E' una slash, omofobi VADE RETRO!!!! xD
Genere: Drammatico, Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Non-con, Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
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Contro Tutti, Contro Nessuno
 








Allora, so che nessuno di voi mi ha mai visto (ma va?) ma solo perché è la prima volta che scrivo in questa sezione (propendo verso i My Chemical Romance) perciò non allarmatevi: non vi sto usando come cavie per la mia prima fanfiction. D:
E niente, spero che vi piaccia... 
Non so cosa ne uscirà, avevo idee per l'inizio e per la fine, in mezzo sarà un mix di cose fluff e drammatiche quindi... >.<
Ci vediamo giù perché devo dire due paroline... intanto leggete!
I hope you like it!!!! <3











 
 
Destino o Coincidenza?



 
Alex camminava per le strade pericolose di Newark, cittadina del New Jersey in cui si era appena trasferito, fissandosi attentamente i piedi per non calpestare nessuna crepa del marciapiede mentre faceva un passo dopo l'altro. Era un giochino stupido, certo, ma lo faceva sin da quando era un bambino spensierato che correva per le vie assolate di Phoenix, era diventata un'abitudine, qualcosa che faceva in automatico tanto per passare il tempo. 
Era più o meno mezzanotte e lui era uscito perché non riusciva davvero ad addormentarsi, erano ore che ci provava. Era uscito nonostante sapesse benissimo che quella era una città pericolosa. Ad ogni angolo potevi trovare spacciatori di droga, ladri pronti a fotterti il portafoglio, criminali pronti a spararti in testa senza "se" e senza "ma". Eppure Alex aveva deciso di uscire comunque. 
Non sopportava più il suo appartamento. Non che fosse tanto squallido, solo non ne poteva più. Era a Newark da giusto un paio di mesi e aveva visto davvero di tutto. 
Perché si era trasferito lì? Beh, aveva voglia di cambiamento, di vita vera, di vedere quello che in Arizona, nella sua dolce Phoenix, non avrebbe mai potuto vedere. Aveva bisogno di essere costretto a stare costantemente attento a quello che faceva, a dove andava... aveva bisogno di sentirsi in pericolo
Ma non era solo quello, sapeva che qualcos'altro lo aveva attirato in quella cittadina dove la legge veniva dettata dai più forti. Non sapeva cosa fosse stato, ma il primo posto a cui aveva pensato quando aveva deciso di trasferirsi era stato quello. Alex non era fatalista, tutto il contrario. Ateo convinto, disilluso al massimo, senza nulla da perdere e tutto da trovare. Ma si sa, per trovare qualcosa bisogna cercarla, Alex ne era più che certo. Eppure quella volta non stava cercando, stava aspettando che le cose succedessero, susseguendosi sulla linea del tempo. E non era da lui. Non era per nulla da lui. 
Anno 1997, la notte fra mercoledì 16 e giovedì 17 aprile. Le strade buie non erano particolarmente popolate quella sera, ma i locali erano stipati di gente che si rintanava al sicuro dai pericoli che la solitudine portava con sé, i parchi erano il tripudio degli spacciatori, di chi comprava merce per svenderla e di chi semplicemente voleva la sua dose giornaliera. 
Davvero, Alex si stava chiedendo cosa diavolo stesse aspettando che accadesse... che gli sparassero, forse? Che lo drogassero e lo sequestrassero? Non sapeva davvero cosa pensare. 
E continuava a fissarsi le scarpe, continuando a evitare le crepe sul cemento grigio, talvolta faticando a vederle a causa del buio, talvolta imprecando perché ne calpestava una. 
Quel giorno era vestito con quello che si metteva di solito: le sue scarpe completamente nere. Lacci, suola, rifiniture, tessuto, erano del tutto nere. Poi i suoi jeans abbastanza comodi e strappati sulle ginocchia e una felpa blu.  Una caratteristica di Alex era che amava i colori scuri, nero, blu notte, viola scuro e poi il cremisi. Il colore del sangue. 
Stava davvero congelando, faceva freddo per essere metà aprile. Si strinse di più nel tessuto pesante della maglia e continuò a camminare, senza una meta. 
Quello che Alex non sapeva e non avrebbe potuto sapere in nessun modo era che quando si cammina si ha sempre una meta, consciamente o inconsiamente. Se attraversi la strada la tua meta è il marciapiede opposto, se vuoi restare solo la tua meta sarà un posto dimenticato anche da Dio, se vuoi compagnia un locale affollato. E' l'istinto che ci guida. Ma l'istinto non può fare tutto da solo. Che lo si chiami "fato", "destino" o "karma" non è importante. Sta di fatto che qualcosa c'è, c'è sempre. 
E il fatto che Alex non sapesse di stare cercando qualcosa, non vuol dire che non lo stesse facendo. 
 
[****]
 
Il volto completamente coperto da lacrime, calde, salate, pesanti... Dio, per quel che sapeva avrebbe potuto star piangendo sangue, tanto quelle goccie fuggitive facevano male. I singhiozzi gli impedivano anche di respirare, gli squarciavano il petto riducendolo a una piccola fogliolina tremante e impaurita rannicchiata in un angolo. 
Gli scoppiava la testa, voleva solo perdere i sensi, svenire e svegliarsi rendendosi conto che quello era stato un brutto sogno o, ancora meglio, non ricordandosi affatto che tutto quello era successo. Così come ogni altra volta che succedeva. Ed era successo davvero tante, troppe volte. Ian sapeva di avere un taglio sulla fronte perché quella zona gli pulsava forte, come se il suo cuore si fosse stabilito esattamente in quel punto. 
Ogni volta si sentiva morire e non riusciva mai a capire perché gli stesse succedendo e perché a lui. E piangeva, tanto, prendendosela con tutti e con nessuno, rifugiandosi lontano dal mondo, sperando e pregando che tutto passasse in fretta. Ma non passava mia in fretta, mai! Ci volevano ore, giorni, prima che stesse di nuovo bene. E appena iniziava a sentirsi meglio tutto ricominciava daccapo. Come una punizione perché si era permesso di essere felice, o almeno, di provare a essere felice. Ian non doveva stare bene, non conosceva la vera felicità, non sapeva cosa volesse dire dare e ricevere amore. 
E come ogni fottuta volta, mentre cercava di far entrare aria nei polmoni, scappava fuori dalla porta di quella casa che era la sua prigione, il posto in cui veniva torturato e punito ogni volta, il luogo deve si anidavano tutti i ricordi più oscuri e terribili che aveva. 
E come ogni volta correva per qualche centinaio di metri, gridando silenziosamente per il dolore che sentiva dovunque, fino a che non raggiungeva quel posto che era solo suo, che non era di nessun altro. Quell'albero con il tronco grosso e i rami rigogliosi e pieni di foglie verdi, quel salice che lo proteggeva, quella piccola dimensione fuori dal mondo. Quel luogo che aveva visto tutto, che lo aveva visto piangere, urlare, sfogarsi, che lo aveva visto sanguinare sia per mano di altri che per mano sua perché sì, i tagli che aveva sulle braccia erano anche colpa sua. Come se non bastassero gli altri per disperdere il suo liquido vitale, il suo sangue.
E anche quella notte stava correndo, si trascinava fino a quel piccolo rifugio che lo avrebbe protetto un po' da tutto il resto, mordendosi a sangue il labbro inferiore per non gridare. E si lasciò cadere contro il tronco scuro e forte, vittima inerte dei suoi sfoghi ma che lo accettava e gli offriva riparo, che nonostante tutto non lo avrebbe mai tradito. 
Si abbandonò sull'erba bagnata dalla rugiada primaverile, coperto dai lunghi rami del salice, con le unghie piantate nel terreno per resistere al dolore nell'attesa che tutto finisse, sempre che sarebbe mai finita. Distrutto, ecco cos'era. Il suo corpo era distrutto, troppo provato per un ragazzino di appena diciassette anni appena compiuti. La sua anima era distrutta, ferita nel profondo, irrecuperabile. Se i tagli sulla pelle si sarebbero cicatrizzati e forse sarebbero anche spariti quelli dentro di lui non si sarebbero mai chiusi. La violenza avrebbe continuato a tenerli aperti, sempre e per sempre. 
Si lasciò andare ad un pianto isterico, come ogni volta, graffiandosi braccia e gambe con le unghie mangiucchiate e sporche di terra fino a che non ebbe la pelle completamente rossa e con qualche accenno di sangue che iniziava a zampillare fuori dal suo corpo.
Quanto passò? Secondi? Minuti? Forse ore...
Il tutto si era ridotto a singhiozzi stranzianti che gli distruggevano l'anima, mentre lui si era rannicchiato contro la corteccia solida, le ginocchia strette al petto e la fronte poggiata su di esse. 
 
[****]
 
Alex sentì qualcosa, un rumore spezzato, confuso. Era lontano, non capiva bene da dove provenisse o di cosa si trattasse. All'inizio ebbe un po' di paura, a Newark non sapere equivaleva ad essere dieci volte più in pericolo di chiunque altro. Era sempre meglio sapere
Tese le orecchie e si diresse verso quella che gli sembrava la direzione da cui proveniva quel suono, fottendosene delle crepe che stava deliberatamente schiacciando e che sotto di lui imploravano pietà. Individuò un albero, un... un grosso salice, uno dei più grandi che avesse mai avuto occasione di vedere. Suppose che il rumore venisse da lì dietro. 
Ora che si era avvicinato distingueva abbastanza bene il suono, lo separava dai classici rumori di sottofondo come auto che sfrecciano in lontananza, chiacchiericci confusi di ragazzi che camminano per strada o dal rumore della brazza primaverile che scuoteva i rami degli alberi. 
Erano... Sembravano singhiozzi, come se qualcuno stesse piangendo. Appena se ne rese conto qualcosa di imprecisato - il cuore magari? - gli si strinse forte nel petto. E capì che doveva andare a vedere cosa stava succedendo. Sarebbe stato pericoloso, andare là voleva dire abbandonare la luce rassicurante dei pochi lampioni delle periferie, voleva dire rischiare. E in qualche modo sapeva che, per la prima volta da quando era nel Jersey, rischiare era la scelta giusta. 
Prese un respiro profondo e mise un piede davanti all'altro, facendo frusciare l'erba umida, abbandonando la luce. Non credeva che esistesse un "sesto senso" ma cazzo, davvero sentiva che finalmente stava facendo una cosa giusta. Anche se comunque non poteva evitare di rimproverarsi perché 'fanculo, poteva star rischiando la vita in quel momento, perché aveva ventitré anni e non poteva fare cazzate come se ne avesse quindici! Ma nulla, niente poteva dissuaderlo.
In qualche manciata di secondi raggiunse l'albero che si erigeva possente nello spiazzo erboso. Con un fruscio, cercando di fare meno rumore possibile, scostò i rami coperti di foglie che accarezzavano delicatamente il terreno e, aprendosi un varco, entrò nella cupola protetta che essi creavano. 
Stava per fare un'altro passo quando notò qualcosa o meglio, qualcuno rannicchiato contro il tronco che piangeva senza contegno. Alex sentì qualcosa spezzarglisi dentro. Non si reggeva più sulle sue stesse gambe e crollò in ginocchio facendo sobbalzare il ragazzino che fino a poco prima singhiozzava. Aveva smesso di colpo, puntando addosso ad Alex due occhi color del ghiaccio, spaventati, gonfi di lacrime e arrossati. 
Il ragazzino indietreggio, impaurito, ma si ritrovò presto intrappolato dal tronco incavato dell'albero, con il respiro accellerato e il terrore negli occhi. Quei bellissimi occhi azzurri che non potevano essere umani, non c'era nulla della malvagità umana, erano assolutamente puri.  Puri come una farfalla, innocenti come quelli di un bambino eppure erano occhi che avevano visto più cose brutte di un qualsiasi adulto. 
E Alex non potè trattenersi oltre e allungò una mano fino a che non riuscì a sfiorargli con le dita una guancia rigata dalle lacrime amare che aveva pianto fino allo sfinimento. 
Gli occhi del piccolo si concentrarono su di lui. Lo scrutarono, dapprima spaventati, poi sempre più confusi fino a che non si sciolsero in un pianto, liberatorio questa volta, e allora il ragazzo si lasciò stringere nell'abbraccio di Alex, cento volte più protettivo di quello del salice. 
Il destino esisteva? Alex non lo sapeva. Nessuno lo avrebbe mai potuto sapere per certo. Ma di una cosa era sicuro, qualcosa che lo aveva spinto verso il piccolo che in quel momento era stretto al suo petto c'era. E sapeva che loro si erano sempre cercati, senza scoprirlo mai. Senza sapere nulla prima di quel momento. Ma ora, ora che si erano trovati... ora sapevano entrambi, sapevano che si erano cercati.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Allora, gente, piaciuto? (no, lo so che non è piaciuto ma lo chiedo lo stesso u_u)
Abbiate pietà ho 13 anni e un cervello che da i numeri... >.<
Uhm... ah, sì... 
per gli aggiornamenti suppongo di riuscire ad aggiornare una volta a settimana, ma boh, non sono un gran che regolare, non è l'unica ff che devo aggiornare ma posso gestirne più di una quindi non preoccupatevi. 
Qui vige una regola: leggere = recensire u_u 
meglio una recensione negativa che niente, ci tengo a sapere i vostri giudizi. L'autolesionismo è una cosa che mi riguarda in prima persona, quindi lo so descrivere particolarmente... bene.
Se vi da fastidio avviso: sappiate che nei prossimi capitoli ci andrò pesante, quindi se sapete che non riuscite a leggere cose del genere non fatelo, graaaaaaaaazie!!! ^_^
Beh, ci vediamo al prossimo capitolo allora!!!! 
bye
 
Jas
   
 
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