L'appartement Français
Chapitre I:
“Il terzo coinquilino”
Il taxi si fermò ed io automaticamente alzai lo sguardo, osservando
curiosamente la palazzina in mattoni beige segnata come il numero 52.
«Sono 32 sterline, signorina.» Mi voltai verso l’autista ed annuii, consegnandogli
poi il denaro con un leggero rilento, dato dalla mia poca familiarità con la
moneta britannica. «Buona permanenza a Londra!»
Lo ringraziai ed aprii lo sportello, facendo prima scendere la mia grossa
valigia nera e poi me stessa. Non appena il taxi ripartì, una leggera
pioggerellina cominciò a picchiettare sul mio viso. Ecco, quello era sicuramente
il clima inglese di cui avevo tanto sentire parlare. Ovington Street sembrava
una via tranquilla e chiaramente residenziale: era buio, vista la tarda ora, e
solo un paio di persone camminavano, affiancate dal proprio cane. Sulla strada
c’erano perlopiù macchine e moto parcheggiate.
Quando arrivai di fronte la porta d’ingresso, guardai il citofono e premei il
tasto segnato dal numero e la lettera 2A, come mi era stato detto di fare.
«Sì?» Il marcato accento francese mi fece capire che ero arrivata nel posto
giusto.
«Sono Alexis.» Risposi in francese e la porta di fronte a me si aprì
immediatamente.
«Adesso scendo e ti aiuto con le valigie!»
«Merci!»
Sentii prima il rumore di passi sulle scale; poi la porta tornò ad aprirsi e mi
ritrovai davanti Jacques, sorridente come non mai.
«Quanto tempo!» Mi strinse forte e a sé, sorridendo. Ricambiai quell’abbraccio,
anche se non ero esattamente a mio agio. Jacques ed io eravamo praticamente
cresciuti insieme: era il figlio del migliore amico di mio padre ed avevamo
passato praticamente ogni pomeriggio libero insieme fino al liceo. Dopo lui si era
trasferito a Montreal con la famiglia. «Come stai? Com’è andato il viaggio?»
«Bene, molto bene!» Ricambiai il suo sorriso e lo seguii, mentre lui afferrava
la mia valigia e cominciava a salire le scale, lamentandosi della mancanza di
un ascensore.
Era notevolmente cambiato in quegli anni, Jacques. L’ultima volta che l’avevo
visto aveva quindici anni, uno più di me: era sempre stato il più fra i due, ma
in quei sei anni le sue spalle si erano anche allargate e aveva messo su
muscolatura. Il volto ora appariva privo dei segni della pubertà ed il suo
stile elegante e classico enfatizzava il suo portamento regale e composto. Era
strano come ci fossimo ritrovati lì, a Londra. Ero stata ammessa all’università
London School of Economics, LSE, e mi ero ritrovata a dover cercare un posto
dove vivere. In quegli stessi giorni avevo ricevuto un messaggio da Jacques,
che mi diceva di come studiava anch’egli a Londra da ormai un anno e di come un
suo coinquilino avesse deciso di tornarsene in Portogallo dalla famiglia,
perché insoddisfatto delle sue scelte accademiche. In poche parole, Jacques
aveva resto la mia ricerca di un appartamento a Londra l’impresa più semplice
di sempre, salvandomi da coinquilini sconosciuti e spiacevoli esperienze.
«Staremo bene, qui insieme.» Mi disse, aprendo la porta di casa e facendomi
entrare. «Siamo tutti francesi!» Aggiunse, sorridendo. Mi limitai ad annuire,
impegnata a squadrare il posto dove avevo appena fatto il mio ingresso: il salone
era ampio, con due divani posti a L e un grosso televisore al plasma sulla
parete. Immediatamente notai la playstation e non riuscii a trattenere un
risolino: uomini!
«È molto bella!» Dissi, guardando Jacques.
«Siamo semplici studenti, non degli animali.» Mi rispose con una leggera
scrollata di spalle. «Anche se le due cose vengono spesso accumunate.»
Aggiunse, questa volta ridacchiando. «Seguimi, ti faccio vedere la tua stanza
ed il resto della casa.»
Annuii, seguendolo: la casa era molto grande, occupando tutto il secondo piano
della palazzina. La mia stanza si trovava alla fine di un lungo corridoio che
collegava il salone con la cucina, i due bagni, ed un’altra stanza. Jacques
aprii la porta ed io sorrisi, sentendomi quasi a casa. La mia stanza non era
molto grande, ma calda, accogliente e luminosa.
«Spero vada bene!» Mormorò il mio accompagnatore, portandosi una mano alla
nuca.
«Va più che bene. È perfetta.» Risposi, sorridendogli. «La tua stanza è questa
qui affianco?» Domandai, avendo notato una porta affianco la mia.
«Oh no, no, la mia stanza affaccia sul salotto. Questa è
la stanza di Théo.»
«È a casa?» Ero curiosa di conoscere il mio secondo coinquilino, ma Jacques
scosse la testa.
«Ci farai l’abitudine… È un po’ matto, ma un bravo ragazzo, tutto sommato.»
Quella descrizione non mi rincuorò affatto, ma cercai di forzare un sorriso,
mentre guardavo l’ora sul mio cellulare. Erano le 23.50 di un lunedì sera di
fine agosto e la mia nuova vita stava per cominciare, lì in Inghilterra,
lontana dalla mia Parigi. «Ti lascio sistemare le tue cose. Quando fai, vieni
semplicemente di là, tanto ho anche io delle cose da fare, non penso che
dormirò.»
Cominciai a disfare la valigia,
sistemando le cornici con le foto sul comodino e mettendo i miei vestiti nel
grosso armadio. Attaccai un poster, che avevo fatto io stessa sviluppando una
vecchia foto scattata da mio padre che ritraeva il mio angolo di pace in
Corsica: Porto Vecchio. Sorrisi nostalgica: era passato tanto tempo dall’ultima
volta che ero andata lì, in Corsica; era stata circa cinque anni prima, prima
che i miei genitori divorziassero e mio padre se ne andasse di casa. Scossi la
testa, scacciando quel ricordo e continuai a sistemare le mie cose.
Continuavo a guardarmi intorno e a pensare che da quel giorno in poi la mia
vita si sarebbe sviluppata lì, in quell’appartamento, nelle strade che
circondavano Overton Street.
Avrei cominciato a raccogliere memorie, ricordi su e giù per quelle vie. Avrei
conosciuto persone, avrei conosciuto nuovi posti, quella metro così complicata
sarebbe diventata semplice da capire, le strane banconote inglesi sarebbero
diventate familiari e mi sarei sentita a casa, prima o poi.
È buffo trasferirsi.
Inizialmente sembra tutto così nuovo, così diverso, ci si domanda cosa
succederà, e come e quando succederà.
Ci si domanda se si hanno abbastanza forze per ricominciare, se ne vale la
pena…
E poi all’improvviso si ricomincia senza neanche accorgersene.
Improvvisamente si riconoscono le differenti strade, come anche i volti, le
macchine, i negozi.
In un istante non ben definito, ogni cosa assume una forma ed un senso nella
nostra mente e, come per magia, sostituisce ciò che una volta rappresentava il
nostro mondo.
Chissà quando sarebbe arrivato quel fatidico momento anche per me.
Non appena ebbi finito di sistemare le mie cose, andai in salotto, dove trovai
Jacques sveglio, come aveva promesso, che faceva qualcosa al computer, stando
comodamente disteso sul divano.
«Ei!» Mi accolse con un sorriso, non appena mi vide. «Fatto?» Annuii, sedendomi
di fianco a lui.
«Insomma, com’è stato il tuo primo anno qui?» Domandai curiosamente. Ero piena
di dubbi e di paure. Forse lui era in grado di tranquillizzare il mio stato
d’animo.
«È stato diverso, almeno all’inizio.»
Rispose. «Dipende tutto dalle persone che frequenti: non appena ti fai un buon
giro di amicizie, si sta come a Parigi.» Si strinse nelle spalle.
Chissà perché quella frase non mi rinfrancò realmente.
Una parte di me sperava di cominciare da zero, cambiare la persona che ero
stata fino ad allora.
«Non ti preoccupare.» Aggiunse affabile. «Ti troverai bene. Domani sera,
infatti, un mio caro amico organizza una festa a casa sua, a pochi passi da
qui. Ti va di andarci?» Propose.
«Certo! Mi sembra un’ottima idea.» Ricambiai il suo sorriso.
Infondo dovevo pur cominciare da qualche parte per costruire il mio giro di
amicizie.
«Anche l’altro coinquilino, mh… Théo
verrà?» Domandai curiosa.
Non avevo ancora avuto modo di incontrare il terzo abitante dell’appartamento.
Jacques scoppiò a ridere, guardandomi come se avessi appena detto la cosa più
esilarante del mondo.
«No, Théo non frequenta il nostro
giro.» Si limitò a dire, aprendo la strada a più domande e curiosità nella mia
mente.
«Come mai ci vivi? Come lo hai conosciuto?»
«All’inizio dell’anno scorso frequentavamo
– marcò il passato di quel verbo, quasi a voler sottolineare come quei tempi
fossero belli che finiti- lo stesso giro di amici. Cercavamo entrambi casa e
trovammo un annuncio, di João, il nostro vecchio coinquilino, che diceva che
c’erano due stanze libere in quest’appartamento. Ci trasferimmo e ci trovammo,
ci troviamo bene a convivere.»
C’era ancora qualcosa che mi sfuggiva.
Abbassai lo sguardo e guardai il lucido parquet sotto le mie ciabatte.
«È simpatico.» Lo guardai un po’ confusa, non capendo di cose stesse parlando.
«Théo è simpatico. È solo che Londra fa un effetto diverso ad ognuno di noi… Domani sera conoscerai persone simpatiche
e ti sentirai come a casa.»
Quando Jacques si congedò, andando a dormire, tornai nella mia stanza.
Mi sedetti sul letto ed aprii il mio diario. Lo avevo comprato appositamente
nell’aeroporto di Parigi per segnare l’inizio di quella nuova avventura per me.
Presi la penna e la posai sulla carta immacolata, sospirando.
Per una delle prime volte nella mia vita, faticai a scrivere. Formulavo un
pensiero nella mia mente ma scuotevo poi quasi immediatamente la testa, essendo
travolta da un nuovo fiume di emozioni. Era come se non riuscissi ad ordinare
tutto ciò che stava passando per la mia mente in quel momento.
Ero elettrizzata, ma ero allo stesso tempo spaventata.
Non vedevo l’ora che fosse mattina per uscire e girare quell’immensa metropoli,
per scoprire cosa c’era nei paraggi della mia nuova casa.
Volevo andare a vedere l’università.
Volevo conoscere persone.
Chissà chi mi avrebbe accompagnata in quella mia avventura.
Chissà chi sarebbero stati i miei amici.
Chissà fra un anno quale sarebbe stato il mio bagaglio di esperienze.
Sospirai nuovamente e cominciai a scrivere. La scrittura era sempre stata la
mia valvola di sfogo, il mio angolo di paradiso. Avevo scritto sin da quando ero
bambina, sognando una vita romanzata, una vita piena di avventure, piena di
speranze, delusioni, novità.
Solo scrivendo riuscivo a scappare da ciò che ero veramente, da ciò che ero
diventata frequentando determinate scuole, determinate persone. Delle volte mi
domandavo chi fossi, chiedendomi talvolta se magari fossi affetta da crisi da
personalità multipla.
Mi incuriosiva ciò che aveva detto Jacques su come Londra potesse avere un
effetto diverso su ognuna persona.
Cos’era successo a Théo che invece non era capitato a Jacques?
Ero immersa nei miei pensieri quando improvvisamente sobbalzai, quasi facendo
cadere tutto dal letto.
La porta di casa si aprì rumorosamente e si chiuse altrettanto violentemente.
Guardai velocemente l’ora: le quattro del mattino.
Per un momento ebbi una crisi di panico: forse erano i ladri? Cosa avrei dovuto
fare in quel caso? Poi mi ricordai che la stanza di Jacques era vicina alla
porta e, se qualcosa fosse stato fuori posto, lui sicuramente se ne sarebbe
accorto e se ne sarebbe occupato. Infine, fortunatamente, riuscii a calmarmi
quando mi ricordi che in casa eravamo tre
coinquilini, di cui uno ancora assente.
Quello quindi doveva essere Théo.
Ben presto, infatti, dei pesanti passi nel corridoi annunciarono l’arrivo del
terzo coinquilino. Lo sentii inizialmente aprire la porta della propria stanza e
poi buttare qualcosa a terra. Poi mi accorsi che i suoi passi fossero sempre
più vicini alla porta della mia camera.
Trasalii, specchiandomi velocemente e accertandomi di avere un aspetto
presentabile. Feci appena in tempo a chiudere il diario, che la porta della mia
camera venne bruscamente spalancata.
Théo era in piedi davanti il mio letto e mi guardava con fare incuriosito.
Aveva dei corti capelli castani, leggermente ondulati e teneva la testa piegata
verso sinistra, quasi per osservarmi meglio. Anche a quella distanza riuscivo a
cogliere quanto fosse chiara la tonalità di azzurro di cui erano colorate le
sue iridi.
«Tu devi essere Alexandra, allora.» Disse ad un tratto.
Parlava lentamente, come se stesse pesando ogni singola parola. Inarcai prima
un sopracciglio e poi mi alzai, tendendogli la mano.
«In realtà sono Alexis, Alexis Le Fort.» Dissi cercando di non avere una
parvenza troppo acida. Lui prima guardò me e poi la mia mano tesa, quasi a
decidere se dovesse stringerla o meno. Infine, protese il braccio e strinse la
mia mano con decisione, facendomi quasi sussultare.
«Giusto, sei l’amica di Jacques. Mi ha parlato di te.» Fece una pausa. «Io sono
Théophile, Théophile Lenoir. Tuttavia, puoi tranquillamente chiamarmi Théo.»
Sciolse la stretta delle nostre mani ed entrò nella mia stanza, superando
tranquillamente la soglia.
E se io non fossi stata d’accordo?
Scossi la testa, intimandomi di essere più accogliente, soprattutto visto che
mi stavo quasi intromettendo nelle
dinamiche di quell’appartamento. Mi voltai, seguendolo con lo sguardo. Lo vidi
guardare curiosamente le foto ed i libri che avevo sistemato sulle mensole,
posare lo sguardo sul mio computer lasciato chiuso sulla scrivania, ed infine
avvicinarsi al poster che tenevo sopra il mio letto.
«Porto Vecchio?» Domandò con semplicità.
«Esatto.» Risposi prontamente, stringendomi nelle spalle.
«Dovresti incorniciare il poster, piuttosto che appenderlo così semplicemente
al muro. Farebbe sicuramente una più bella figura.» Commentò, pungendomi
leggermente nell’orgoglio: chi era per entrare in camera mia e dettare ordini?
«Quindi, cos’è che fai qui a Londra?» Domandò infine, mentre apriva la finestra
e guardava giù.
«Studio giurisprudenza alla LSE.» Risposi pacata. Lui non si scompose
minimamente, continuando a guardare fuori.
Lo vidi poi tirare fuori un pacchetto di sigarette dalla tasca dei jeans.
Tuttavia, non tirò fuori una sigaretta ma qualcosa che assomigliava di più ad
una canna. Mi morsi la lingua: qualche
tiro non avrebbe reso irrespirabile l’aria della mia stanza per sempre, potevo
tollerarlo. Ciò che però non mi andava proprio giù era il suo fare saccente,
come se tutto fosse lecito. Lo guardai, così sicuro nei suoi movimenti e
spavaldo, non riuscendo a non pensare che avesse decisamente un bell’aspetto: i
lineamenti del suo viso erano lineari e marcati, il naso dritto, le spalle
larghe, un abbigliamento elegante ma al contempo sportivo e alla mano.
Théo posò lo sguardo su di me e si accorse che lo stessi fissando.
Tese la mano nella mia direzione, porgendomi la canna.
«Ne vuoi un po’?» Domandò. Io scossi velocemente la testa. «Mh, non fumi.»
Commentò, più rivolto a se stesso che a me. «Bevi?» Tornò a rivolgersi a
me.
«No, in verità no…» Risposi. Aveva la capacità di mettermi quasi spalle al muro
come se fossimo nel pieno di un terzo grado.
«Mh.» Tornò a squadrarmi, continuando nel frattempo a fumare lentamente la
propria sigaretta a grandi boccate. «A giudicare dal tuo atteggiamento, sono
più che sicuro che tu abbia frequentato la scuola cattolica.»
«Non mi è chiaro perché tu lo debba pronunciare con quel disprezzo.» Sputai
acidamente. «Potrei aver frequentato un qualsiasi altro tipo di scuola e non
fumare o bere ugualmente. Sai, potrei semplicemente
tenere alla mia salute, o è troppo
folle come concetto?»
«A giudicare dalla tua reazione, posso dire con certezza che hai frequentato la
scuola cattolica… Anche se sarebbe bastato fare caso a come sei vestita»
Ridacchiò compiaciuto.
Cosa c’era di sbagliato con la mia camicia bianca, i jeans, il cardigan blu e
le scarpe bianche?
Mi sistemai una ciocca di capelli castani dietro l’orecchio, cercando di
mantenere la calma.
«Non mi vanno particolarmente a genio le persone tirate e altezzose che escono
da quel tipo di scuola.»
Ecco, stava oltrepassando il limite.
«A me invece non stanno particolarmente simpatiche le persone che sparano
giudizi senza sapere di cosa stanno parlando.» Risposi a tono, avvicinandomi
poi alla porta della mia stanza. «Ora, se non ti dispiace, vorrei dormire. È
tardi e sono molto stanca.» Aggiunsi, guardandolo. Lui non si scompose
minimamente. «Inoltre, ti sarei molto grata se da oggi in poi fumassi fuori dal
perimetro di questa stanza.»
«Ho toccato un tasto delicato, principessina?» Domandò, buttando via il
mozzicone della sigaretta e chiudendo la finestra. «Però devo ammettere che sei
quasi buffa.» Continuò, muovendosi nella mia direzione. «Quasi simpatica.» Non mi mossi dalla mi posizione, ancora troppo
stizzita da ciò che mi aveva detto. «Sarà una convivenza interessante.»
L’unica domanda che frullava nella mia mente era: ma chi ti credi di essere?
Era venuto nella mia stanza, aveva fumato alla mia finestra, aveva criticato la
mia vita, il mio poster, il mio modo di tenere la mia stanza e le mie cose.
L’unica cosa che mi appariva interessante era la prospettiva di prenderlo a
calci nel posteriore, altro che la nostra futura convivenza.
«Spero che diventi interessante
presto, allora.» Dissi freddamente mentre lui usciva dalla mia
stanza. «Non sto davvero nella pelle.» Aggiunsi sarcastica. Lo vidi
ridacchiare.
«Oh, non sai quanto fai bene a sperarlo.» Perché mi dava l’impressione che
fosse una minaccia? «Fai qualcosa domani sera? Se vuoi posso farti un tour, gratuito s’intende, di Londra.»
«In realtà ho un impegno con Jacques ed i suoi
amici.» Rifiutai il suo invito con orgoglio: dopo tutte le cose che aveva detto
sperava ancora che io potessi fare la carina e la simpatica con lui? Si era
forse bevuto il cervello?
Théo scoppiò a ridere.
«Beh, allora fammi riformulare la mia proposta: se vuoi fare qualcosa di divertente, sai sempre dove trovarmi.
Anche se dubito che tu sia così svelta da uscire dai tuoi sicuri e ben protetti
confini reali.» Mi fece l’occhiolino. «Buonanotte, Mademoseille!»
«Buonanotte.» Borbottai, chiudendo velocemente la porta.
Perché Jacques si era dimenticato di menzionare il caratteraccio del suo, anzi nostro coinquilino?
Avrei potuto giurare che un carattere del genere non fosse facilmente
omissibile!
Spensi le luci e mi misi nel letto, continuando a rimuginare sulle parole di
Théo.
Aveva ragione: infondo era vero che fosse riuscito a colpire un mio punto
sensibile.
Mi ero sempre sentita frenata ed ero diventata tirata con gli anni: non facevo
molte cose perché il mio ambiente scolastico, i miei genitori mi avevano detto
che fossero sbagliate.
Avevo paura di uscire dagli schemi entro i quali era racchiusa la mia vita
perché temevo che avrei potuto perderne il controllo.
Così tutti erano felici: mia madre, mio padre.
La mia famiglia era orgogliosa di me.
Dovevo essere così e non potevo deluderli.
Allora perché la proposta di Théo sembrava così allettante in confronto a
quella di Jacques?
Perché improvvisamente incontrare i classici parigini mi sembrava una cosa
stupida e ridicola?
Infondo mi ero trasferita per provare qualcosa di nuovo, non le solite cose che
avrei potuto fare comodamente da casa mia.
Se vuoi fare qualcosa di divertente, sai
dove trovarmi.
Scossi la testa, cercando di non pensarci.
Lottai con forza per scacciare quelle parole dalla mia memoria.
La stanchezza prese fortunatamente presto il sopravvento e mi addormentai velocemente,
libera dalle mie ansie, dai miei desideri, e dalla persona che ero diventata.
Bonsoir!
Innanzitutto grazie a tutti coloro che
hanno aperto questa storia, ed ovviamente un grazia ancora più grande
a tutti coloro che hanno deciso di leggerla.
Ormai sono due anni che vivo personalmente
a Londra e, di conseguenza, la tematica del trasferimento, dei coinquilini,
delle iniziali difficoltà mi è
decisamente molto familiare e… bisogna scrivere di ciò che si conosce, giusto?
Alexis rappresenta, a mio avviso, la classica ragazza cresciuta in una famiglia troppo severa: ha bisogno di libertà,
ha bisogno di scoprire chi è veramente. Jacques è invece il
classico bravo ragazzo: un buon giro d’amici, tranquillo, pacato, il
marito che qualsiasi genitore vorrebbe per la propria figlia. Théo invece è ciò
che Alexis vorrebbe diventare: coraggioso,
in grado di prendere le proprie decisioni con la propria testa, caparbio, divertente,
un po’ sfacciato e disilluso nei
confronti dell’amore.
Insomma: un bel trio francese nell’appartamento
più francese di tutta Londra.
Spero vi piacerà questa storia.
Buona lettura a tutti e… recensite!