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Autore: yelle    18/08/2013    1 recensioni
Tara è in coma, giace in un letto dell'ospedale in cui lavora. Il suo corpo è martoriato dalla febbre, ma la sua mente è sveglia, vigile, e viaggia, fra sogni febbrili e dialoghi che hanno luogo appena al di fuori di lei.
"Si abbandonò all’oblio lasciando che le soffocasse il respiro fino al punto in cui il mondo ruotò sul suo asse ed ogni atomo e particella vennero inghiottiti dal nulla, lasciandola vuota e senza forze a domandarsi se fosse finalmente giunto il momento della fine."
Disclaimer: possibili spoiler riguardo l'ultima stagione andata in onda in America, in quanto la fanfic si svolge all'inizio della quinta stagione (non ho la minima idea se la quinta sia mai stata trasmessa qui in Italia o meno).
Genere: Drammatico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jax Teller, Tara Knowles
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Qualcosa era cambiato.
Il buio, non quello. L’oscurità era l’unica costante, l’unica certezza a cui le era permesso aggrapparsi. L’ultima rimasta. Ogni volta che la marea si abbassava e lei rimaneva lì, nuda sotto lo scrutinio della sua stessa anima, le tenebre accoglievano a braccia aperte i suoi timori e le sue paure, cibandosene e lasciandola più leggera ad affrontare il dolore.
Anche il dolore era presente, ma non sempre. Su quello non poteva fare affidamento. A volte apriva gli occhi su quella marea pronta a sommergerla, e non sentiva niente. Non provava alcun male, ma solo una grande pace che la riempiva del timore che il suo tempo sulla Terra fosse ormai giunto al termine. Ma non era mai così.
Nell’oblio fuori dalla sua esistenza percepì quel cambiamento. Per la prima volta avvertì una presenza al di fuori dell’involucro della sua carne. Non poteva vedere, ma poteva sentire. Una voce riuscì a spezzare la nebbia, fino a dipingere un volto nella sua mente. Il volto di un uomo che lei conosceva sin nei minimi dettagli, dalla piega dei suoi occhi ridenti al profilo delle orecchie, nel punto dove i capelli piegavano all’indietro a rivelare la curva del collo. Conosceva il luccichio dei suoi occhi quando comunicavano con parole che non necessitavano di venire pronunciate; aveva imparato la forma che prendevano le sue lacrime quelle poche volte che cadevano e morivano davanti a lei. E poteva distinguere la sua voce nell’insieme di mille altre, perché nessun altro suono al mondo le era altrettanto familiare.
Ed era quella voce che aveva spezzato il buio più fitto. Un nome comparve nella sua mente, marchiato a fuoco nei suoi ricordi dimenticati.
Jax.
L’oscurità venne squarciata da una luce così intensa , così fitta che le fu impossibile capire se fosse morta o ancora aggrappata al mondo dei vivi. Non riusciva più a capire se i suoi occhi fossero chiusi o aperti, se fosse sveglia o dormisse. Non vedeva che un biancore convulso, caotico, macchiato del rosso del sangue che era stato versato. Oltre, la voce di Jax l’ancorava ad una realtà cui non era certa di appartenere. Le parlava della vita che lei aveva lasciato, della malinconia che appestava la stanza fino a posarsi sulla sua pelle come umidità del mattino. Afferrò quella vena cremisi di amarezza e ne seguì il richiamo, aggrappandosi al cammino descritto dal suo bagliore aggressivo ed improvviso, tempestato di tuoni. I boati si facevano sempre più vicini, impedendole di riemergere dalla nebbia e, anzi, schiacciandola sempre più in profondità nelle tenebre che ribollivano intorno a lei. Tuoni che diventavano orribilmente regolari, come il battito del cuore che nella stanza faceva compagnia al suo, che inesorabile si allontanava, sempre più faticoso da raggiungere. Quel ritmo le risuonava nelle orecchie sempre più debole, e lei si sentiva una pelle vuota, tesa, che vibrava ad ogni eco. La paura le aveva rubato ossa, fegato, polmoni, lasciando di lei solo un involucro di terrore incapace di trovare il coraggio per rimanere ancorato alla realtà che le si faceva sempre più estranea.
Si abbandonò all’oblio lasciando che le soffocasse il respiro fino al punto in cui  il mondo ruotò sul suo asse ed ogni atomo e particella vennero inghiottiti dal nulla, lasciandola vuota e senza forze a domandarsi se fosse finalmente giunto il momento della fine.

 
 

** **

 
 

L’alveare di suoni e sensazioni scemò fino a concentrarsi su una voce solamente. Una voce femminile. In quella stanza in cui risiedeva la sua vita c’erano altre persone, ed una di loro era Gemma Teller.
“Lei non lo vorrebbe, e lo sai. Hai due figli, Jax, devi pensare a loro. Non puoi chiuderti qui d-”
“Basta così! Non ho bisogno che tu mi dica cosa fare, ne ho le palle piene di chi passa il tempo a dirmi cosa sia meglio per me!”
“Jackson Teller, farai meglio a non alzare la voce davanti a tua madre…”
“Altrimenti? Mi prendi a schiaffi?”
“Tara-…”
“Tara cosa? Si sveglia? Se non te ne sei accorta, è in un fottuto coma! E se hai ascoltato una parola di quello che ha detto ieri il dottore, è molto probabile che non si svegli più!”
Un suono secco e feroce riempì la stanza, rimbalzò contro i muri e arrivò fino all’udito atrofizzato di Tara.
“Non… dirlo.” La voce di Gemma era un sibilo feroce. “Non considerarlo neanche. Come puoi pensare che Tara possa farcela se il suo stesso marito non crede in lei? Ora te ne vai a casa, da tuoi figli, a riposare e staccare il cervello. Ti chiamerò io…”
La sua voce di donna e di madre si affievolì nel turbine che imperversava fra i silenzi, il buio e il dolore che spingevano Tara nuovamente indietro, nuovamente in quel mondo popolato da suoni ritmici e stranieri Un mondo gremito dell’odore di paura che stazionava nelle sue narici.

 
 

** **

 
 

Qualche volta, tra le nubi che la separavano dal resto del mondo, emergevano dei volti. Alcuni le erano dolorosamente familiari, anche se a molti non riusciva ad associare un nome. Le arrivavano alle spalle emergendo dalla marea, per poi sfuggire al suo tocco appena allungava la mano e tentava di afferrarli. Altri le apparivano estranei, di quelle facce sconosciute e intraviste che talvolta popolano la propria visuale quando il sonno sta per coglierti. La fissavano con indiscrezione e indifferenza, per poi voltarle le spalle e andarsene nel grigiore dell’oblio.
Le altre, quelle che credeva di conoscere, avevano espressioni allarmate o comprensive; fissavano il loro sguardo nel suo, ma i suoi occhi scivolavano via macchiati dal senso di colpa, in preda a vertigini e incapaci di fare presa.
Le labbra di tutti loro si muovevano, e capiva che parole stavano rotolando sulle loro lingue e scivolavano dalla presa dei loro denti, ma era incapace di cogliere i suoni finali, il loro senso. Non sentiva alcun rumore al di fuori dei tuoni silenziosi della sua tempesta, che sommergeva qualsiasi cosa si trovasse sul suo cammino.

 
 

** **

 
 

“È una bella giornata, Jax. Dovresti uscire un po’. Respirare aria fresca.”
“Aria che non sappia della merda che danno da mangiare in questo posto. Quant’è che non mangi qualcosa che non sappia di sterco di cavallo, Jackie boy? Sei più magro di una puttana in sciopero della fame.”
“Chibs ha ragione. Fai spavento.”
“Passa da noi, più tardi. Gemma prepara la cena delle grandi occasioni. Ci saremo tutti.”
“Tara non ci sarà.”
“Ci sarà Opie. Vorrebbe che tu venissi, è preoccupato per te.”
“Lo siamo tutti.”
“Se è tanto preoccupato può venire lui da me. Sa dove trovarmi.”
“Lo sai che non verrà. Non vuole incontrare Clay.”
“Io invece vorrei che Tara si svegliasse dal coma, ma evidentemente non sempre otteniamo quello che vogliamo. Andate a dire questo, a Opie.”
“Jax…”
“Potete andare.”
“No, Jax, noi non andiam-…”
“E INVECE SÍ! Non vi voglio qui, mi sembra di essere già stato abbastanza chiaro! Non torno a casa con voi, quindi risparmiate le energie.”

 
 

** **

 
 

Per la prima volta dopo innumerevoli giorni si sentiva piuttosto strana, ma non malata. Le nebbie della febbre che l’avevano accompagnata per innumerevoli giorni si erano ritirate; continuavano a creare ombre che baluginano agli angoli della sua coscienza, lasciando comunque buona parte del suo campo visivo pulito e sgombro di zone buie. Riusciva a vedere il legno grezzo delle travi del soffitto.
Non era in una stanza di ospedale come le era già capitato di vederne. Di sicuro, non ve n’erano di uguali al St. Thomas, che conosceva da cima a fondo. Non c’era un solo metro quadro in tutto l’edificio a poter vantare la bellezza di tale legno, tanto maestoso da sentirsene soggiogata. I nodi e le spirali della sua superficie levigata in ogni venatura sembravano al tempo stesso statici e animati da una grazia innata e superiore a quella concepita dalla natura umana. I colori emanavano il bagliore del sole al tramonto e dell’essenza della terra, a tal punto che riusciva a percepire e vedere come la trave stessa era stata trasformata, mantenendo lo spirito dell’albero.
Ne era affascinata ed ipnotizzata a tal punto che allungò la mano per toccare il legno, trattenendo il respiro dalla sorpresa quando vi riuscì. Le sue dita lo sfiorarono con reverenziale stupore, deliziate dal contatto con la superficie fresca e rugosa, con solchi a forma di ali. Riusciva quasi a percepirne il battito, potente e scandito dalle correnti d’aria.
Mentre esplorava quell’inedita sensazione, si rese vagamente conto che la trave si trovava due metri e mezzo sopra il letto. Si voltò, senza avvertire il minimo sforzo, fino a constatare che si ritrovava distesa al di sopra di esso. Era supina, il lenzuolo zuppo e sgualcito sparso qua e là, come se ad un certo punto avesse tentato di buttarlo per terra, ma le fossero mancate le forze per completare l’azione. L’aria nella stanza era umida, pesante, si appiccicava al suo corpo trapassando il tessuto sottile della camicia da notte impedendole di godere della frescura della notte al di fuori di quella stanza. I colori e le loro forme brillavano nel tessuto come gemme in fondo al mare, vivide, ma smorzate. Il contrasto con la sua pelle pallida era netto, il biancore della sua carnagione reso esangue e tremolante dalla sfacciataggine dei colori. E un attimo dopo comprese perché: era così magra che la pelle del viso e del corpo premeva forte sulle sue ossa, il cui bagliore attraverso lo strato sottile di epidermide le donava una luminosità non terrena. Insieme alla cartilagine sottostante formavano una estensione solida che risplendeva attraverso la pelle trasparente.
Si scoprì stupita davanti alla meraviglia che le si parava innanzi, dalla forma delle ossa alla perfezione della ragnatela di vene e capillari che correva sottopelle. I suoi occhi seguivano la delicatezza delle costole, dell’arco che formavano, la bellezza straziante del cranio. Il suo sguardo era tinto di stupore, misto a timore reverenziale.
I suoi capelli erano spettinati, arruffati e aggrovigliati. Eppure la attiravano, ne tracciava le curve con lo sguardo e con le dita. Non aveva percezione dei suoi stessi movimenti, eppure riusciva a sentire la morbidezza delle ciocche, il baluginare del castano sulla punta dei suoi polpastrelli e la vibrante eleganza dei radi fili d’argento. Li sentiva risuonare nell’aria, in un fruscio di note cascanti come quelle suonate da una cascata inafferrabile.
Mio Dio, disse, e l’aria satura fu perforata da quelle parole che lei stessa udì, ma che non uscirono dalla sua bocca. Sei così bella!

 
 

** **

 
 

“Grazie per essere venuto, Ope.” Suoni di carne contro carne, di pacche sulle spalle. “Mi fa bene parlare con te.”
“Nessun problema. Gli amici servono anche a questo. A proposito, lo sai che stai uno schifo? Quand’è stata l’ultima volta che hai messo qualcosa nello stomaco?”
“Io… non lo so. Dio, che giorno è oggi?”
“Giovedì. Ormai è passata una settimana da che hai cacciato Gemma via di qui.”
“Merda. Mi dispiace per… quello. E per averle detto di non tornare più. Glielo diresti? Che… che mi dispiace e che può tornare?”
“Perché invece non glielo dici tu, Jax? È pur sempre tua madre. E sai che ti dico? Potresti andare a casa, farti una doccia e parlarle. Penso vorresti sapere che puzzi quanto la spazzatura che sta qui fuori.”
“Opie, io non… non posso. Credo di dover stare qui. Di aver bisogno di stare qui. Con lei.”
“Stronzate. Certo che puoi, il tuo problema è che non vuoi. Lasciati dire che ne avresti di bisogno, fai davvero schifo. Che bene pensi di farle, conciato come sei? Se ti ostini a continuare in questo modo finirai a farle compagnia confinato nel letto accanto.”
“Ope…”
“Non pensare nemmeno per un secondo di cacciarmi via, ho appena iniziato, e non sono tua madre. Non mi lascerò sbattere fuori solo perché non hai voglia di sentire la verità. E non ho alcuna intenzione di andarmene da questa maledetta stanza senza di te!”
“Beh, puoi risparmiare il fiato, io da qui non me ne vado. Dannazione, Ope! Proprio tu, fra tutti…”
“È per questo che mi volevi qui, non è vero? Per darti ragione, prenderti la mano e dirti che non stai sbagliando niente. Abbi le palle per ammetterlo, almeno.”
“Pensavo che avresti capito…”
“No, pensavi che ti avrei lasciato qui a marcire in pace in questa stanza, a nasconderti e a tenerti lontano dalle attenzioni morbose di Gemma. Beh, hai pensato male.”
“Fa lo stesso.”
“No, Jax. Non è lo stesso. Questo non vuol dire che io non possa capirti, credimi. Capisco fin troppo bene, e mi ferisce che tu ti sia già dimenticato di cosa sia successo alla morte di Donna. Io lo ricordo, e mi ricordo anche di come tu eri lì a fare ciò per cui io sono qui ora. Ti sto tendendo la mano per evitarti di affogare, e tu mi farai il dannato piacere di afferrarla e di lasciarti aiutare. Non me ne andrò di qui senza di te, a costo di restare qui giorni interi. Non ho fretta.”

 
 

** **

 
 

Aveva gli occhi aperti.
Guardò intensamente ed incontrò un volto, due occhi che ricambiavano il suo sguardo, fissando il proprio molto più lontano, trapassandolo senza vederlo. Tara avvertì il calore della loro oscurità avvolgerla con consapevolezza. Percepì un profondo senso di pace, e l’aria intorno a lei si mosse come vento che frusciava fra le foglie d’autunno.
Poi, un suono la indusse a voltarsi verso la finestra e a focalizzare  la sua vista sull’uomo che stava lì. Non aveva un nome per lui, eppure sapeva di amarlo. Dava la schiena al letto, le braccia che puntavano contro lo stretto davanzale, le spalle curvate sotto il peso di un dolore antico e la testa chinata sul petto, così che i raggi dell’alba arrivavano a illuminare i suoi capelli di una luce rossa, e a tingere d’oro le sue braccia. Uno spasmo di dolore lo fece tremare, lo sentì come la scossa di un terremoto lontano.
Qualcuno si mosse accanto a lui. Una donna dai capelli caldi come miele. Gli si avvicinò, gli toccò la schiena e gli sussurrò qualcosa. Vide il modo in cui lo guardava, la dolce inclinazione del capo, l’intimità nella vicinanza dei loro corpi, quello di lei che oscillava teneramente verso quello di lui.
Così non va, pensò Tara.
Guardò di nuovo il suo corpo disteso sul letto e, con una sensazione di ferma decisione mista ad un incalcolabile rimpianto, prese un respiro profondo.

 
 

** **

 
 

Camminava in un campo di gigli tigrati. Il vento soffiava leggero, accarezzandole con gentilezza ad ogni passo nella terra spugnosa, nell’erba alta e brillante. I petali setosi le solleticavano la pianta dei piedi e la punta delle dita. Il suo corpo sembrava quasi fluttuare sopra il terreno soffice ed umido, solleticato dalla rugiada della notte che evaporava. Tutt’intorno, gli uccelli fischiettavano melodie dai suoni irriconoscibili, vivaci. Il sole alto nel cielo splendeva così luminoso che Tara dovette schermarsi gli occhi, e ad ogni folata il profumo dolce dei fiori le riempiva le narici.
Era un luogo sconosciuto alla sua mente, ai suoi ricordi, eppure una parola sfiorò i suoi pensieri mentre la pace s’impadroniva dei suoi muscoli. Casa. Un luogo sconosciuto a cui il suo cuore sentiva di appartenere, che le donava un’armonia a cui pensava di aver detto addio tanto tempo prima. Si sentiva in pace, fra le braccia di quell’istante in cui aveva inseguito la realtà e aveva trovato un caos di emozioni dall’effetto calmante. Era felice. In pace.
Il suo cuore si chiuse quando d’improvviso il cielo si oscurò e la luce intensa del sole sparì dietro un banco minaccioso di nubi nere. Il vento divenne più forte, l’aria si fece fredda. Le corsero brividi lungo la schiena e le braccia, riempiendola di leggeri spasmi che la resero inquieta. I petali iniziarono a vorticare intorno a lei confondendole la vista, dal terreno spuntarono pietre affilate che le graffiavano i piedi ad ogni suo passo.  Gli uccelli non cantavano più, si limitavano a fissarla appollaiati sui rami vuoti di foglie e vita.
Qualcosa non andava. Un rivolo di sudore scivolò lungo il solco della sua schiena, mentre un odore agrodolce iniziava a sprigionarsi dalla sua pelle. Odore di paura.
Davanti a lei, in lontananza nell’erba alta, si intravedeva una pietra acuminata più alta delle altre, grigia e minacciosa nelle sue forme affilate. Tara avrebbe voluto tornare nella pace di qualche istante prima, ma al contempo la curiosità di scoprire cosa c’era più avanti le divorava le viscere. Si avvicinò, mettendosi improvvisamente a correre mentre lampi di luce cristallina piovevano con repentina violenza. Corse sulle pietre aguzze, in mezzo all’erba dai bordi dentellati che le graffiava gambe e braccia. Corse con le orecchie piene del rumore sordo del proprio cuore che pompava sangue ad una velocità doppia del normale, con la foga e l’attesa di qualcosa di ineluttabile pronta ad accoglierla fra le proprie braccia. Non si guardò indietro per paura di ciò che avrebbe potuto vedere.
Raggiunse la pietra, e d’improvviso le gambe le cedettero. Cadde in ginocchio davanti a quella che si rivelò essere una lapide sepolcrale, che lucida e crudele si ergeva fiera dal terreno umido e fra l’erba alta. Tara allungò una mano, con dita tremanti sfiorò la fredda pietra mentre dentro  di lei montava un terrore cieco e disperato. Fuoriuscì d’improvviso in un verso gutturale che crebbe di violenza ed intensità, fino ad erodere ogni cosa al di fuori di sé stessa e di quella tomba. Gettò indietro la testa in un gesto di disperata rassegnazione, continuando ad urlare mentre nella mente le si incidevano a fuoco, una per una, le parole scolpite sulla fredda pietra.

 
 

In loving memory of
Tara Grace Knowles Teller
June 1974 – September 2012
Beloved friend,
Greatly missed wife
 
 
 
** **

 
 
 

“Papà?”
“Sì?”
“Mamma sta morendo?”
“No.”
“Gemma dice che morirà.”
“Un giorno, Abel. Un giorno molto lontano. Non oggi. Dì a tua nonna che non dovrebbe dire certe cose.”
“Resterà sempre a letto?”
“No, solo fino a quando non guarirà. Un giorno si sveglierà, e vorrà dire che starà meglio e che potrà tornare a casa con noi.”
“E quanto manca?”
“Non lo so, Abel. Non lo so.”

 
 
 

** **

 
 
 

Cos’era quel peso che le premeva sul cuore, che le impediva il respiro e le oscurava la vista? Cos’erano quelle lacrime racchiuse nella gabbia della sua anima, impossibilitate a uscire, ma smaniose di vedere la luce del sole e gridare il proprio dolore? Cos’era quella voce bianca, e limpida, e innocente che scavava solchi profondi nella sua pelle fino ad aprirsi la strada e scorrere nelle arterie, nelle vene e nei capillari che irroravano il suo corpo di nuova linfa?
Il miraggio di un volto le si impose davanti, con dita fredde che le circondarono il volto e le fecero sollevare il viso, così che fosse costretta ad incrociare il suo sguardo. Jax, il suo Jax dal volto distrutto dalla stanchezza, le rughe che solcavano in profondità il contorno degli occhi e della bocca. Jax dagli occhi limpidi, freddi ed insondabili come le acque di una sorgente nascosta. Accanto a lui, Abel le dava le spalle, rifiutandosi di guardarla. Aggrappato alla gamba di suo padre, spendeva tutte le sue energie strattonandolo e tentando di andarsene, portandolo via. Portando Jax via da lei.
Allungò la mano e gli toccò il viso. Aveva la vista annebbiata. Chiuse gli occhi. Fiocchi di neve cadevano fitti, sciogliendosi sulle curve del suo volto, e per un attimo erano puntini bianchi sulle sue ciglia bionde. Lui le tese le braccia e la strinse a sé.  Restarono così per un istante, avvolti dal respiro freddo della neve e della cenere, dalle corte braccia di Abel che a stento raggiungevano le gambe di entrambi.
Poi Jax la baciò e la lasciò andare, e tutto cambiò. I due scomparirono in una nube di fuliggine che si posò sul suo capo, turbinò intorno a lei e la gettò nell’oscurità.
Aprì gli occhi al mondo cupo ed irriconoscibile.

 
 
 

** **

 
 
 

Continuava a dormire per lunghi periodi ad intermittenza, svegliandosi brevemente solo per nutrirsi. I sogni febbrili se n’erano andati, lasciandola in un sonno che era un lago profondo d’acqua nera, dove respirava oblio e nuotava tra alghe galleggianti, noncuranti come pesci. Talvolta rimaneva appena sotto la superficie, consapevole del mondo intorno a lei, delle persone nella stanza, dei loro sussurri impossibili da decifrare. Le loro voci attutite non avevano un senso. Era consapevole della presenza delle persone e delle cose del mondo che respirava, ma si ritrovava incapace di unirsi a loro. Di tanto in tanto alcune delle frasi pronunciare in quella stanza penetravano il liquido intorno a lei, fluttuando molli come meduse, bianche e trasparenti, eppure pulsanti di un recondito significato che non era per lei da cogliere. Ogni frase restava sospesa nel suo campo visivo, estendendosi e ripiegandosi al ritmo dei battiti del suo cuore, galleggiando nell’aria cristallina per qualche istante prima di andarsene e lasciare dietro di sé una scia di roboante silenzio.
Fra una frase e l’altra Tara tornava ad immergersi in quel lago che la escludeva dalla realtà, ed ognuno dei suoi cinque sensi veniva impiegato nella lotta per tornare a galleggiare in superficie.
“Dottore.”
Un sibilo. Un movimento, un guizzo nell’oscurità che aprì uno squarcio, allagando di luce il suo campo visivo. All’improvviso un guizzo tagliente come metallo. Chi mi chiama?
Aprì gli occhi.
La stanza era invasa della luce del crepuscolo, calda, ferma e accogliente. Non fu un trauma riuscire ad abituarcisi. Avvertiva ancora la sensazione di essere sott’acqua, e non percepì alcuno sconvolgimento.
O Signore Gesù Cristo, il più grande tra i dottori, rivolgi la Tua grazia su questa Tua serva; concedi saggezza e discrezione a chi la curerà nella malattia; benedici i mezzi usati per la sua guarigione…”
Le parole fluivano accanto a lei in un sussurro continuo ed ininterrotto, il volume che ad intermittenza si alzava ed abbassava.
Vedeva una donna davanti a sé. Seduta con il capo chino, teneva le mani giunte a nascondere le labbra che si muovevano a forgiare le parole che faticavano ad arrivare al suo udito. La luce della stanza avvolgeva la sua figura, e lei sembrava farne parte.
“G-Gemma?” disse, afferrando il nome che le affiorò nella mente e sulle labbra. La sua stessa voce era rauca per il lungo silenzio, e parlare fu uno sforzo che le costò più energie di quante ne avesse.
Gli occhi dell’altra donna erano chiusi nella preghiera. Si aprirono di scatto, increduli, e Tara pensò a quanto fosse vivo il bagliore che vi leggeva dentro, vivido come l’alba d’estate.
“Tara?” rispose con voce rotta di un adolescente, lasciando cadere sul pavimento il piccolo rosario di legno.
“Non lo so,” disse, mentre la sensazione di trovarsi sott’acqua minacciava di avvolgerla di nuovo. “Sono io?”
 
 
 
Tentò di sollevare una mano, ma lo sforzo impiegò energie che non aveva: dopo soli pochi istanti si ritrovò a gettare il braccio nuovamente sulle lenzuola, umide del suo sudore. Gemma venne in suo soccorso, aiutandola a sedersi e poggiare il proprio corpo esausto sulla pigna di cuscini. Le mise una mano dietro la nuca per impedirle di vacillare, mentre accostava un bicchiere d’acqua alle sue labbra secche. Il liquido fresco le rinfrescò la bocca, scivolò giù nella gola lavando via i residui della febbre. Spossata dallo sforzo si abbandonò nuovamente contro la barriera dei cuscini, chiudendo gli occhi. Li riaprì quando avvertì le dita leggermente grinzose di Gemma accarezzarle la guancia accaldata, prive della consueta forza.
“Tara.”
La sua voce affilata era ammorbidita da una ventata di commossa tenerezza che arrivava a dipingerle le iridi.
Tara non si accorse che stava piangendo. Le lacrime sgorgarono semplicemente mentre il dolore esplodeva nel suo corpo esausto, come una miriade di macabre stelle filanti, come il sangue che spilla violento da un’arteria recisa. Rosso, violaceo, che sprizza e sporca ovunque. Tara si lasciò sommergere, affogò in quel dolore mentre le lacrime la svuotavano dentro e la lasciavano spossata. Gemma la afferrò mentre precipitava, trascinandola con sé in superficie. Abbracciò il suo corpo stanco e lo cullò fino a quando il dolore si quietò, fino a quando le lacrime si calmarono tanto da permetterle di vedere una figura maschile che entrava nella stanza e si arrestava d’improvviso di fronte a quell’immagine di intimità familiare.
Quando gli occhi di Tara vagarono per la stanza fino ad incontrare quelli del nuovo arrivato, il tempo si arrestò e il mondo si riempì del suo nome, del suo volto, della sua voce. Jax. Allungò la mano per raggiungerlo ove il resto del suo corpo non poteva andare. Quando le loro dita si toccarono l’elettricità scaturitasi a quel contattò vagò per la stanza, producendo scintille visibili a loro due soltanto. Gemma non poté vederle, ma riuscì a scorgere il cambiamento che stava avvenendo nella stanza e sotto i suoi occhi. Se ne andò, chiudendo la porta senza fare alcun rumore. Jax andò a sedersi accanto al letto, cauto nei movimenti e negli sguardi, come se temesse di romperla o di vederla svanire sotto i suoi occhi, evanescente come rugiada mattutina.
Tara stava ancora piangendo, ma in modo più consapevole, senza più annaspare. La sensazione di freddo alle ossa era passata, e le sue membra erano ora calde. Il cuore stava di nuovo rallentando, e aveva la vaga impressione di trovarsi piedi accanto al suo corpo.
“Tara!”
Si accorse che la voce di Jax era dipinta di un’urgenza crescente, mentre la scuoteva per un braccio. Con uno sforzo immenso cercò di fissare la propria attenzione su di lui, sui suoi occhi fissi nei propri, e di tentare un sorriso che non sentiva dentro. Jax era davvero allarmato, e lei si chiese se avesse ricominciato a morire. Ma non era possibile, pensò. Era troppo tardi per quello.
Spalancò gli occhi sulle macchie scure delle occhiaie che spiccavano sul viso incavato di lui, e che lo facevano assomigliare ad una vecchia civetta preoccupata. Riusciva ad avvertire la stanchezza sprigionarsi dal suo corpo. Sorrise, ma lui non sembrò in grado di ricambiare.
“Che c’è?”
Lui sospirò, apparentemente di sollievo.
“Per un attimo mi sei… sembrata strana.” La sua voce era rotta, così diversa da quella forte e virile cui era abituata. Sembrava quasi che parlare gli costasse uno sforzo immane.
Le loro dita tornarono a toccarsi con la cautela della paura che ancora albergava nei loro animi, scorrendo libera nelle vene.
Per un intervallo di tempo indefinito a Tara era mancata l’energia necessaria per prestare attenzione a qualsiasi cosa al di fuori del guscio del proprio corpo martoriato dalla febbre. Adesso distingueva il mondo intorno a lei, le sue sfumature, ma soprattutto riconosceva le piccole cose familiari del corpo di Jax, la sua voce ed i suoi modi, fino ad iniziare a riaccordarsi a lui. Come un violino riportato alla vita dopo un abbandono forzato, con le corde molli tirate fino a suonare di nuovo.
Sentì un rumore sordo quando lui spinse via la sedia per inginocchiarsi accanto a lei. Senza aver bisogno di guardare, lei allungò la mano verso di lui per fargli appoggiare la testa sul suo petto. Lui la circondò con le braccia e trasse un respiro profondo, caldo sulla pelle di lei attraverso il cotone leggero della camicia da notte. Gli accarezzò la zazzera bionda con mano tremante, ed improvvisamente lo sentì abbandonarsi sotto il suo tocco. La tensione usciva dal suo corpo come acqua da una brocca, scivolando impalpabile fra le sue dita e lasciando dietro di sé una scia umida che rinfrescò la sua pelle arida. Percepì quella stessa tensione a cui si era aggrappata fino a quel momento mutare in energia e fluire dentro di lei, apparentemente senza controllo. La debole presa che Tara aveva sul proprio corpo si fece più forte, più robusta mentre stringeva Jax a sé, e il suo cuore smise di vacillare, riprendendo il ritmo abituale. Solido ed instancabile. Le lacrime se n’erano andate, anche se ancora le sentiva riaffiorare, in equilibrio precario dietro le palpebre pesanti.
Con le dita tracciò i contorni del volto di lui, abbozzando invisibili linee lungo la fanciullesca morbidezza della sua pelle, interrotta improvvisamente dalla ruvida barba tenuta corta. I raggi tiepidi del sole entravano timidi dalla finestra, per raggiungere il suo viso, creare contrasti ammalianti fra le sue ciglia bionde e gettare ombre lungo le morbide curve delle palpebre chiuse e sulla fronte corrucciata, segnata dal sole e dalle preoccupazioni.
“Non farlo mai più.”
La sua voce era un sussurro che giunse a fatica alle sue orecchie, seguito da un respiro tremante altrettanto flebile.
“Non farlo più. Spaventarmi così.”
Tara avvertì la gola di lui muoversi mentre deglutiva.
“Credevo saresti morta. Ero certo che prima o poi sarei entrato da quella porta e ti avrei trovata morta.”
Sollevò la testa, e la guardò in una confusione di lacrime, dolore e sollievo.
“Oh, Dio, Tara!” Il suo sussurro disperato risvegliò le lacrime di lei. “Mi sarei arrabbiato così tanto, se fossi morta e mi avessi lasciato solo!”
Tara allungò la mano, tremante dalla debolezza, e Jax chinò il capo sul lenzuolo affinché lei potesse accarezzarglielo.
“Non l’ho fatto,” disse toccandogli il labbro. “E non ho la minima intenzione di farlo. Ora vieni qui e dammi un bacio di bentornato.”
Jax alzò il viso. Sembrò pensarci un attimo, e lei rimase a fissarlo in quell’interminabile attesa mentre i pensieri gli guizzavano sul volto come pesci di fiume che risalgono la corrente. Poi finalmente si avvicinò a poggiare un ginocchio sul materasso, e si chinò a baciare la moglie, in un gesto che entrambi avevano creduto dimenticato.

   
 
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