Malachite.
Vittorio era nato tra i monti di un’isola selvaggia, sul finire di un inverno che aveva lasciato in lui la durezza e la resistenza ai fuochi delle dominazioni straniere. La primavera che, timida, si affacciava mentre lui veniva al mondo, aveva infuso la verdeggiante ribellione nei suoi occhi di smeraldo, e il colore delle castagne che lo avrebbero nutrito negli anni di carestia, tra i capelli. Gli stessi capelli che un giorno, per scherzo, avrebbero mutato il loro colore nel corvino della morte e nel nero della sabbia di Nonza.
Vittorio era nato piccolo e indifeso. Era cresciuto robusto e sicuro di sé, ribelle e fiero, così come la sua isola aveva iniziato a ricoprire sempre una maggiore importanza nel bel Mediterraneo che la circondava. Kallìste, l’avevano battezzata i Greci. La più bella. E Corsis, che negli anni sarebbe diventata Corsica. Giunsero sull’isola i primi invasori: iberici, liguri, fenici, greci. I greci fondarono la loro prima colonia sull’isola di Corsica, isola che per lungo tempo era stata temuta e rispettata anche dai ciprioti e dai fenici: Alalia. Gli unici che Vittorio mai considerò invasori, ma amici, furono gli Etruschi, guidati da un alto e fiero uomo dai lunghi capelli color del legno, e una ciocca d’oro che gli incorniciava il volto ambrato, sul quale gli occhi azzurri spiccavano come un fuoco nella notte. Tinia era il nome col quel l’uomo si era presentato, ed era come se si conoscessero da sempre. Come se fosse il padre che non aveva mai avuto. Gli Etruschi avevano ottenuto finalmente il controllo sulla Corsica sconfiggendo i Focei, ma non l’avevano mai trattata come una colonia, bensì come un semplice porto dove poter scambiare le proprie merci e la propria cultura. Vittorio aveva amato quell’uomo che gli permetteva di farsi chiamare “nonno”, che aveva imparato la lingua del bambino e gli aveva insegnato, in risposta, a combattere. Vittorio aveva imparato a difendersi prima ancora che a parlare, ma era ancora un bambino con l’enorme responsabilità di dover e voler difendere il proprio popolo, e la propria famiglia.
Il
piccolo corso passava le ore abbarbicato su uno scoglio, scrutando con
lo
sguardo il mare, in attesa dell’arrivo delle navi etrusche. E
quando queste
arrivavano, era una festa infinita, col bambino che correva sul ponte
della
nave, infilandosi poi curioso nella stiva per vedere cosa il nonno
avesse
portato, stavolta. Ed Etruria glielo lasciava fare, rivedendo nella
curiosità e
nella gioia di quel bambino il riflesso di se stesso centinaia e
centinaia di
anni prima. Anche quando Vittorio aveva notato quel barile, Etruria lo
aveva
lasciato fare, impegnato a dirigere lo sbarco. Non si era accorto che
il
bambino era svanito, finché non aveva sentito delle grida
spaventate. Lo aveva
ripescato dal fondo del barile appena in tempo, il corso coperto di un
liquido
nero che l’etrusco non avrebbe saputo identificare se fosse
inchiostro o henné
disciolto. Gli etruschi avevano riso, vedendolo ridotto a quel modo, ma
Vittorio tossiva e singhiozzava spaventato da tutto quel nero. Etruria
era
stato l’unico a non ridere, mentre lo teneva tra le braccia e
lo conduceva a
terra, immergendolo poi in un catino d’acqua per ripulirlo.
Gli occhi seri
dell’uomo avevano insegnato molto, al corso, in quel
frangente. Tinia gli aveva
fatto capire che doveva tenere a freno la curiosità ed agire
con molta più
cautela, perché se non ci fosse stato lui a tirarlo fuori da
quel barile,
Vittorio sarebbe potuto annegare. Quell’episodio li
unì ancora di più, se
possibile, e Vittorio trovò finalmente il modello di cui
necessitava. Da
quel giorno in poi, i capelli e le
sopracciglia del corso non riacquistarono mai più
l’originale castano, ma
rimasero neri come l’ala di un corvo. Etruria, scherzando,
diceva al nipote che
somigliava incredibilmente all’erede di Hellas. Nessuno di
loro sapeva, allora,
che un giorno il destino di Vittorio e quello di Heracles si sarebbero
intrecciati. Come nessuno poteva prevedere che
quell’idilliaca convivenza
sarebbe presto stata spezzata dall’arrivo di un nuovo
dominatore: Roma. Etruria
aveva sempre meno tempo per fare visita all’adorato nipote,
impegnato com’era a
contrastare l’avanzata della nuova potenza. Ed era arrivato
il giorno in cui
Roma aveva avuto la meglio su Etruria, e la grande potenza etrusca
aveva
piegato la schiena sotto il giogo romano. La Corsica, allora, era
divenuta la
calamita dell’attenzione romana, che aveva fatto di Alalia la propria base corsa,
chiamandola Aleria e
ampliandola.
I corsi avevano costituito un ostacolo non indifferente per i Romani,
tanto che
questi avevano dovuto accontentarsi della costa tirrenica, senza poter
addentrarsi ulteriormente nel territorio corso. Vittorio, ancora
bambino, ma
testardo e determinato, aveva opposto fiera resistenza ai Romani,
combattendo
anche nella rivolta di Aleria, incitando i propri compagni a tenere
duro,
nonostante l’evidente superiorità dei Romani. E i
corsi non avevano
ceduto, né
allora, né in tutta la loro
storia. I Romani erano stati i primi a sperimentare la resistenza
corsa, e non
sarebbero stati di certo gli ultimi.
Roma non riuscì mai ad entrare nel cuore del corso come invece era riuscito a fare Etruria. Vide sempre e solo le spalle volte del bambino, mai il suo sorriso o le braccia protese. Etruria rimase nel cuore di Vittorio, e la sua ricompensa fu che l’etrusco non dimenticò mai il nipote. Negli anni, nei secoli, Tinia, per quanto ormai impotente, ridotto a sopravvivere solo nel sangue dei propri discendenti, della propria stirpe, continuò ad amare il corso e a tenerselo vicino. Fu sempre l’etrusco ad attraversare lo stretto braccio di mare che divideva le coste toscane dalla Corsica, finché Vittorio fu bambino. Una volta cresciuto, divennero inseparabili. Nessuno avrebbe potuto dire che non fossero realmente nonno e nipote, nonostante le differenze fisiche, tanto era l’affetto che li legava. I millenni sarebbero trascorsi, e i due sarebbero stati ancora legati come il giorno in cui Tinia era sbarcato in Corsica.