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Autore: _eco    20/08/2013    10 recensioni
[Katniss Everdeen/Peeta Mellark]
Entrambi sapevamo che questo momento sarebbe arrivato. Inesorabilmente, inevitabilmente, e, cosa ancora peggiore, improvvisamente.
[Partecipa alla Challenge Multifandom e Originali con il prompt#32 Vecchiaia]
Genere: Angst, Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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A Deb, in attesa della sua Katniss/Peeta/Haymitch/Effie <3
Costante.
[Katniss/Peeta; in un futuro, molto futuro, pieno di fluff e angst]

Ognuno di noi ha delle costanti nella propria vita, elementi che, nonostante il passare degli anni, non vengono consumati dal tempo.
La vecchiaia ti avvolge in un manto leggero e impercettibile, così, all’improvviso, come se un soffio di vento avesse deciso di sospingerla nella tua direzione, aderisce con cautela al tuo corpo, in silenzio, ingannevole. E magari ride, persino, mentre ti crogioli ancora nella dolce e illusoria consapevolezza di essere giovane.
Il colore degli occhi di Peeta è rimasto immutato. Azzurro intenso come il cielo in primavera – e questa è una delle costanti della mia vita.
Ma alcune sottili rughe hanno iniziato a trapuntargli la pelle, un tempo liscia, e adesso quasi raggrinzita, mentre solitari fili d’argento inquinano il biondo cenere dei suoi capelli, che però sono folti come un tempo.
Ancora intorpidita dal sonno, mi rigiro nel letto, attorcigliandomi in un groviglio di lenzuola che emanano il calore del mio corpo e di quello di Peeta.
Batto le palpebre rapidamente, senza mai aprirle del tutto, infastidita dalla penetrante luce del sole.
Il primo profumo che avverto è quello pungente delle arance, che, pian piano, si mescola a quello della terra umida di pioggia e del legno bruciacchiato del camino, al piano di sotto.
Peeta deve aver acceso il fuoco.
Lo sento, mentre sale le scale, il tintinnio dei cucchiaini sul vassoio di plastica, l’aroma di marmellata che mi pervade le narici, il profumo del pane caldo e leggermente tostato che si avviluppa in vortici invisibili e mi raggiunge.
I soliti cucchiaini, il solito vassoio, la solita confettura di agrumi che, da quando ho provato la prima volta, una ventina di anni fa, è diventata la mia preferita, il solito pane appena appena abbrustolito.
Altre costanti, altri pilastri, altre ancore cui aggrapparsi, altri elementi che il tempo non ha scalfito, altre ragioni per farsi una bella risata in barba alla vecchiaia.
Ma poi, in quel tripudio di confortante quotidianità, lo sento. Quell’arrancare affaticato. Peeta quasi pesta i piedi sui gradini, per lo sforzo di scalarli uno ad uno. Il suo respiro pesante, unito al tintinnio delle posate sul vassoio, sembra sbagliato, terribilmente sbagliato.
So da tempo che Peeta non è proprio quel che si dice un tipo silenzioso. Né per le parole con cui riempie spesso i miei frequenti silenzi, né per il chiasso che produce anche solo camminando, chiasso che, ancora una volta, compensa il mutismo dei miei piedi su qualsiasi superficie.
Tuttavia, quel rumore è davvero troppo forte. E, da rassicurante certezza che era, la sua incapacità di muoversi in silenzio si schiera accanto alle cose che la vecchiaia, con il suo manto invisibile e fallace, ha cambiato irreversibilmente.
Quando qualcosa piomba per terra con un tonfo sordo, scatto in piedi, dimentica del sonno che sino a poco fa mi intorpidiva ancora le membra arrugginite.
Non caccio da otto, forse nove anni.
È stata una decisione sofferta, una scelta che la vecchia Katniss non credeva avrebbe preso mai. Ma la nuova Katniss, che, per ironia della sorta, tanto nuova non è, ha dovuto farlo.
Peeta è carponi in cima alle scale, le braccia che armeggiano sul pavimento, raccattando cucchiaini e fette di pane incollate al tappeto invernale da uno spesso strato di marmellata appiccicosa.
La prima cosa che vedo di lui è la schiena, scossa da tremiti improvvisi che si ripercuotono nelle braccia, nelle mani, in ogni singolo dito. In me nasce un desiderio vigliacco, degno della ragazzina che si dava alla fuga quando il tavolo della cucina diventava una barella, o, più frequentemente, un letto di morte.
Forse è per la consapevolezza di non avere più forza a sufficienza per correre via, forse è perché Peeta, carponi davanti alle scale, rappresenta un ostacolo ad ogni mio tentativo di fuga, o forse è perché, come quando lo avevo visto oltre il vetro, steso su una barella, esanime, con una equipe medica intorno, non mi resta altra scelta se non quella di restare qui: non muovo un solo passo verso i gradini.
- Questa ferraglia non serve più a molto. – si giustifica debolmente, gettando a caso una fetta di pane sul vassoio, lo sguardo che trabocca sofferenza e impotenza, e che tuttavia Peeta cerca di celare con un sorriso che ha tutta l’aria di essere una smorfia di dolore.
Sto per dire qualcosa – cosa? – ma le parole mi muoiono in gola.
Entrambi sapevamo che questo momento sarebbe arrivato. Inesorabilmente, inevitabilmente, e, cosa ancora peggiore, improvvisamente.
- Vieni, ti aiuto ad alzarti. – gli dico, tendendogli la mano.
Il dottore ci aveva detto che, con il sopraggiungere della vecchiaia, la protesi di Peeta sarebbe diventata un peso e nient’altro, per lui. Che avrebbe avuto bisogno, nel migliore dei casi, di un bastone. E nel peggiore… nel peggiore, non voglio nemmeno pensarci.
Avrò un’aria da gran signore, con un bastone in mano, aveva scherzato Peeta, strappandomi una risatina isterica.
Lui si appoggia al corrimano e intreccia le dita alle mie, mettendosi in piedi. Protesta un attimo, emettendo un mugolio, e capisco che è mortificato per il pasticcio che ha combinato sul tappeto, ma io scuoto la testa e gli faccio cenno di non preoccuparsi con la mano.
 
 
Mentre premo la cornetta del telefono all’orecchio, in ascolto dell’estenuante tu-tu, inseguo con gli occhi la sagoma di Peeta, addormentato sul divano.
Quando il dottor Brenner risponde, dall’altro lato, le parole che Peeta mi ha sussurrato in un orecchio poco fa, prima di chiudere gli occhi, rimbalzano da una parte all’altra della mia testa.
Non sarà così male. Avrò un’aria da gran signore.
Mi chiedo come potrà avere un’aria da gran signore, curvo sulle spalle, limitato a starsene seduto su una sedia a rotelle. Perché lo so, accidenti, lo so che un bastone non gli saprebbe dare l’aiuto di cui necessita.
Sto quasi per crollare, mentre passo in rassegna tutto ciò che il tempo ha scheggiato irreparabilmente. Penso agli occhi di Peeta, azzurri come il cielo in primavera, e sento l’improvviso bisogno di poterli guardare, ma non posso, perché dorme, e questo mi sta facendo impazzire.
Non sarà così male.
Ed eccola, la costante più importante della mia vita, quella che è incastrata per bene nell’animo di Peeta, che è connaturata in lui, impossibile da scalfire anche per quell’ingannevole mostro che è la vecchiaia.
La sua instancabile e sorprendente abitudine nel proteggermi.


 


Angolo autrice:
Salve! (:
Mi dispiace per le vostre teste, ma sono tornata. *aria minacciosa*
Questa, davvero, non so da dove sia venuta. È stato un colpo scriverla, perché immaginare gli Everlak vecchietti e acciaccati mi fa quasi angosciare.
Però, ammettetelo, non sono tenerissimi? *w*
Non so nemmeno se una protesi, con il tempo, possa arrivare ad essere un peso. Cioè, se ci sono delle incongruenze mediche, mi dispiace, ma non sono assolutamente del campo. Voglio dire, ho quindici anni... LOL
Bando alle ciance: se vi è piaciuta, recensite.
Se non vi è piaciuta, a maggior ragione, recensite.
Insomma, avete capito. Recensite. XD
Un bacio,
S.

 

  
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