CAPITOLO 10
The answer is written on the pages of a Never-Ending Story
Fissava la parete.
Cercava un segno, un qualcosa, un nulla che gli dicesse: ‘Andiamo Moritz!
Non sei pazzo!’.
Ma non trovava niente.
In mezzo al vicolo, non lasciò mai che i suoi occhi divagassero oltre quei
mattoni, finchè il rumore di un paio di tacchi lo distrassero, ricollegandolo
alla realtà.
Una signora, infiocchettata nel suo cappotto rosso, portava a spasso un
delizioso ma irritante barboncino bianco.
“Ehm… mi scusi…”, la richiamò Georg.
La donna si fermò quasi spaventata, guardandolo come se fosse stato un maniaco
in cerca di una facile preda.
Georg preferì non avvicinarsi a lei, che gli era lontano almeno una decina di
metri e sembrava avere intenzione di correre via.
“Sa dirmi se qui c’è mai stata un libreria?”, le chiese, “Oppure in qualche
vicolo vicino a questo.”
Sì, non poteva essere altrimenti, doveva aver sbagliato di nuovo strada.
La donna parve calmarsi di poco. Il barboncino, nel frattempo, si era nascosto
tra le sue gambe.
“Beh…”, disse, titubante, “Che io sappia non ci sono librerie da queste parti…”
“Nemmeno una vecchia? Tutta polverosa, con un libraio anziano e scorbutico…”,
ritentò Georg.
Ci doveva essere.
Ci doveva essere a tutti i costi.
“No… ne sono sicura.”, ripetè la donna, prima di tornare sui suoi passi ed
abbandonarlo di nuovo.
Non si risvegliò dalla trance in cui era caduto finchè il rumore di tacchi si
disperse in lontananza.
Si mise le mani nei capelli.
No, non poteva essere successo.
No.
Era tutto un errore.
Come un vero pazzo, camminò per i vicoli del centro storico. Spese un’ora del
suo tempo in quella dannata ricerca.
Del tutto inutile, doveva ammetterlo.
Così come Mondenkind, anche la libreria si era volatilizzata.
E lui stava diventando totalmente scemo.
Doveva andare a casa, doveva chiamare un dottore, uno psicanalista, uno
strizzacervelli che gli dicesse: ‘Caro il mio bel Georg, soffri di
schizofrenia, ti rinchiudiamo così non ammazzi nessuno.’
Nel mentre stava per entrare nel parcheggio sotterraneo del suo blocco di
appartamenti, il suo telefono squillò.
“Dove cazzo sei imbecille!”, tuonò Gustav, “La conferenza sta per cominciare!”
La conferenza…
La conferenza!
“Oh merda!”, esclamò Georg, “Arrivo subito!”
Cazzo, doveva correre all’Hilton.
Guardò l’ora sullo schermo del telefono: era mezzogiorno e cinquantacinque. Non
ci sarebbe arrivato prima di venti minuti buoni. Di nuovo, guidò come un pazzo
verso l’hotel, ci mancò poco che si schiantasse da qualche parte, ma ce la fece.
“Ma dove cazzo sei stato! Che cazzo hai fatto!”, gli gridò contro Bill, appena
lo vide spuntare nella stanza sul retro della sala conferenze, dove lo stavano
aspettando.
“Niente… sono stato a trovare una mia amica all’ospedale!”, si difese
all’istante Georg, ancora del tutto scosso dall’incubo che aveva appena finito
di vivere.
“Ma vai a raccontarla a tua madre!”, gli rispose Tom.
“Prima ci vendi alla stampa… e ora che fai?”, rincarò Gustav, “Hai paura?”
David, intuendo dalla faccia irata di Georg una possibile controversia corporea
tra i due, si mise nel mezzo.
“Andiamo, calmatevi!”, li interruppe, “E’ ora della conferenza stampa.”
Tra di loro cadde un’ipocrita calma. Uno per volta salirono sul palco della
sala conferenze e si sedettero dietro ai microfoni, con facce serie. Una salva
di flash accolse il loro arrivo e, dopo che David ebbe come sempre stabilito le
regole, la conferenza iniziò.
Immerso nei suoi pensieri, Georg non stette nemmeno ad ascoltare le domande che
vennero loro rivolte. Era ovviamente Bill a parlare in nome di tutti.
Non sentì una sola parola.
Fu come se due invisibili tappi si fossero posizionati dentro le sue orecchie,
isolandolo acusticamente dal resto del mondo.
Doveva realizzare quell’incubo chiamato ‘La Storia Infinita’…
Un semplice ed innocuo libro come tutti gli altri. All’apparenza.
Che cosa aveva vissuto lui da quasi un mese a quella parte?
Una schizofrenia allucinante. Un abominio psichico chiamato Mondenkind.
Non c’era una razionalità in quella ragazza. Non c’era.
Ma soprattutto non c’era più letteralmente.
E tutto quello era inimmaginabile, ma lo stava vivendo.
Non voleva pensare che quello che Mondenkind… o meglio, Mitternacht, gli aveva
detto in sogno fosse vero. Perchè non era scientificamente possibile.
Fantàsia non esisteva se non nel libro di Ende.
Lui non aveva salvato niente e nessuno dal Nulla, pronunciando semplicemente un
nome.
La libreria del signor Metternich non era mai esistita. Non c’era mai entrato
dentro, non aveva mai rubato alcun libro, non aveva mai incontrato nessuna
Mondenkind. Non aveva mai fatto amicizia con lei, non era mai stato a trovarla
in ospedale.
E soprattutto, non aveva mai fatto quel sogno in cui scopriva la sua
vera
identità… in cui lei gli spiegava che, per farsi salvare
da lui, il mondo di
Fantàsia si era aperto un piccolo squarcio nella vita reale. Non
era mai
accaduto che, contemporaneamente, le loro volontà comuni
–una di salvarsi dalle
fans impazzite, l’altra di essere salvata da lui- li avessero
fatti incontrare
nella libreria del signor Metternich. Non era successo, quindi, che
questa fosse apparsa dal niente. Non era
possibile far comparire una libreria in un muro di mattoni liscio, da
un
momento all’altro. Non era infine accaduto, come gli aveva
detto Mondenkind nel sogno, che fosse stato lui stesso a ‘crearla
dal niente’, perchè aveva avuto bisogno di un posto in cui rifugiarsi per
scappare dalle sue fans.
No, tutto quello non c’era stato.
Tutto quello era frutto dello stato confusionale in cui si trovava. Si
era
immaginato tutto per colpa dello stress. Bastava solo farsi ricoverare
per qualche
mese, sotto sedativi e antidepressivi, poi sarebbe tornato come
nuovo. Un bravo psicanalista avrebbe sicuramente detto che si era
rifugiato in quella
‘fantasia reale’ perchè la vita vera non lo soddisfaceva. Aveva avuto
quindi bisogno di un pretesto immaginario per continuare ad andare avanti. Si
fosse trovato, per esempio, a leggere ‘Il giro del mondo in ottanta giorni’,
avrebbe sicuramente pensato di essere su una mongolfiera in viaggio per la
Terra…
Sì, era l’ora di svegliarsi veramente.
Era l’ora delle cure mediche.
Era l’ora di…
Una gomitata di Gustav, seduto accanto a lui, lo risvegliò, facendolo
tornare con la mente per terra.
Un giornalista gli aveva appena fatto una domanda, ma lui non gli aveva dato la
minima attenzione.
“I suoi compagni hanno appena chiarito la loro posizione riguardo alla
situazione del gruppo. Lei cosa ne pensa?”, ripetè un uomo in occhiali tondi
alla John Lennon.
Se li avesse ascoltati…
Scena muta, non gli uscivano parole dalla bocca.
“Georg… rispondi!”, gli sussurrò minacciosamente Gustav.
“Beh… io…”, balbettò.
Poi chiuse gli occhi.
“Mamma mia…”
“Portiamolo in ospedale, è meglio.”
“A casa…”, borbottò Georg, con un filo di voce, “Per favore…”
“Sì, ti ci portiamo subito.”
“Magari poi chiamiamo un dottore che venga a visitarlo.”
“Ma è meglio portarlo in ospedale!”
“Lo dividiamo in due? Così ti facciamo contento e scarrozzi la tua metà dove ti pare!”
*
Si svegliò nel suo letto.
Non potette accertarsene subito, ma riconobbe la consistenza del suo cuscino.
Non appena il corpo rispose ai segnali nervosi, riuscì ad aprire
gli occhi ed a mettersi seduto.
“Come stai?”, gli venne chiesto da qualcuno, seduto da qualche parte nella
penombra della stanza.
“Bene, Tom… sto bene.”, rispose, con un filo di voce.
“Sei... svenuto durante la conferenza stampa.”, gli disse.
“Sì… lo so.”, continuò Georg, portandosi una mano alla testa per fermare
l’ennesimo giramento.
“Gli altri sono di là, nel tuo salotto…”, disse Tom, alzandosi ed avvicinandosi
alla porta, “Non era saggio lasciarti solo. Ma adesso che stai meglio ce ne andiamo.”
“Mh… ok.”, fece Georg.
Tom esitò un attimo, poi annuì con la testa, mise le mani in tasca ed uscì, chiudendo la porta
dietro di sé.
La testa di Georg, oltre ad essere dolorante, era totalmente vuota. Non un
pensiero disturbava la calma che vi regnava dentro.
Se ne andò in bagno, aveva bisogno di una doccia per riprendersi.
Era svenuto come un demente e non aveva ascoltato un verbo di tutta la
conferenza stampa. Chissà che cosa era stato detto, ma non ci
voleva un genio per saperlo...
Guardò le profonde occhiaie che disturbavano il suo viso
riflesse sullo
specchio. Pareva che si fosse divertito a farle con l’eye liner
di Bill. Si legò i capelli ed aprì il rubinetto del
lavandino. Prese una manciata
d’acqua e vi affondò la faccia, sentendo il freddo
benefico del liquido
bagnargli la pelle. Tastò alla sua destra in cerca di un
asciugamano e si tamponò.
Di nuovo, il viso stanco apparve sul vetro.
No, niente doccia. Ci voleva un bel bagno caldo. Si avvicinò alla vasca e, dopo
aver chiuso lo scarico, lasciò che si riempisse di acqua bollente. Non era da
lui, ma sentiva il bisogno di farlo. Nel mentre il rumore del flusso dell’acqua
riempiva il bagno, sentì come un paio di occhi puntarsi sulla nuca.
Si voltò, ma non c’era nessuno. Gli altri se ne erano già andati, era
totalmente solo in casa.
Tornò verso il lavandino.
Se non si ricordava male, Gustav una volta gli aveva regalato una scatola di
sali da bagno. Anzi, era stato un regalo che gli aveva riciclato perchè non se
ne faceva di niente. Dovevano essere da qualche parte, nel mobiletto del lavandino, e si accucciò per cercarli.
Toc toc toc
Drizzò le orecchie al lieve rumore che aveva sentito.
“Chi è?”, chiese, presupponendo che qualcuno avesse bussato alla sua porta. Ma
non gli arrivò nessuna risposta.
Alzò le spalle e tornò nella ricerca.
Toc toc toc toc
Si alzò ed aprì la porta del bagno. Nessuno. Richiuse.
Toc toc toc toc toc
Quel piccolo bussare veniva da dentro il suo bagno...
Guardò alla finestra,
magari un uccellino stava col becco a picchiettare sul vetro. Infatti,
appena
l'aprì uno sfarfallio di ali si allontanò dalla soglia.
Serrò la finestra e
tornò a cercare i suoi sali da bagno, ma non li trovò. Si
rassegnò, avrebbe fatto senza, non erano poi così
necessari.
Fece per spostarsi verso la vasca, ma un paio di occhi chiarissimi, riflessi
sul suo specchio, lo distrassero.
Non aveva parole. Gli si sbarrarono gli occhi, sentì il cuore fermarsi di
colpo. Tum tum tum... e poi più niente. Il sangue fluì velocemente via
dal suo corpo, sparendo invisibile. Gli mancò il respiro, o forse ne fece a
meno per i lunghi secondi seguenti in cui rimase a fissare quell'immagine.
Un bianco surreale contornava il viso candido di Mondenkind.
Mitternacht
Era come l’aveva vista nel sogno. Esattamente uguale.
No… non poteva abbandonarsi di nuovo alla follia, doveva chiamare gli altri,
doveva raccontare loro quello che gli era successo, doveva far vedere loro che…
Mitternacht alzò una mano, prima nascosta dal limite dello specchio, e si portò
l’indice sulle labbra, schiudendole lievemente.
“Ma tu… io…”, prese a balbettare Georg, sentendosi sfinito dallo squilibro
mentale.
‘Non devi dirlo a nessuno. Devo rimanere un segreto.’
Sentì la sua voce, senza che lei aprisse le labbra carnose e rosee. Non parlava
con la bocca, ma con gli occhi. La sua voce suonava dolce e quasi infantile
dentro la testa, senza che ci fosse il bisogno per lei di rompere quel tenero
sorriso che aveva.
‘Tu non sei pazzo. Mi hai salvato. Conserverai questo semplice segreto per
sempre?’, gli chiese Mitternacht.
Ma come poteva essere così facile?
“Io…”, disse Georg, disperato.
‘Lo so che è difficile.’
“Tu sei… sei così reale… com’è possibile?”, fece Georg, avvicinandosi allo
specchio.
Sembrava che fosse diventato una finestra e lei stesse lì a guardarlo, così
come la guardava lui. La sua veste si confondeva quasi con il bianco che la
contornava, dandole un aspetto etero, di fantasma. Il fine nastro che le
abbelliva la fronte sembrava quasi una corona.
‘Io sono reale… Questo lo sai anche tu.’, disse lei.
“Sei una mia immaginazione.”, disse Georg, risoluto.
Doveva chiarirlo, doveva dirglielo. Lei era solo un parto della sua mente
malata.
E basta.
Ma la testa di Mitternacht non fu d’accordo con la sua affermazione e si scosse
in un cenno negativo.
‘Se ti fa felice pensarmi come un’immaginazione, fallo pure.’, disse.
Sui suoi occhi si posò un velo di tristezza ed il sorriso scomparve, lasciando
posto ad un’espressione di sconforto. Percepiva tutti i sentimenti dipinti
sulla sua tenera faccia come se fosse stato lui stesso a provarli. Georg si sentì
riempire di malinconia.
“No, ti prego, non volevo…”, la implorò, sentendosi colpevole per quello
che aveva appena detto.
‘Non è facile per te accettare quello che hai vissuto, me ne rendo perfettamente
conto… I nostri due mondi sono così profondamente diversi che spesso è
impossibile capire quanto siano legati.’
Vide una lacrima cadere fugace lungo una sua guancia.
Il pianto di Mitternacht non era di disperazione: era silenzioso, quasi impercettibile
se non per via di quella piccola goccia d’acqua che si era infranta sul suo
vestito. E per Georg era dolorosissimo.
Avrebbe preferito, piuttosto, prendere un pugno direttamente in faccia. Fare
piangere Mitternacht era l'ultima cosa che voleva a quel mondo. Lei non doveva
essere triste, soprattutto per causa sua. Voleva che ridesse, perchè gli
piaceva quando sorrideva, gli scaldava il cuore.
Sentì l'anima infrangersi.
“Non piangere…”, le disse.
E, anche se la sua parte puramente razionale si rifiutava di credere, non
riusciva a pensare che tutto quello fosse solo causato dalla sua mente. Doveva essere vero…
Voleva che lo fosse. Lo desiderava con tutto il cuore.
Improvvisamente, il viso di Mitternacht tornò ad essere luminoso e il piccolo
rivolo che lo imbruttiva si prosciugò all'istante.
‘Grazie Georg per averlo pensato… Sai quanto i tuoi desideri siano
importanti per noi.’
La appoggiò contro il vetro trasparente che li divideva e Georg potette solo
farlo altrettanto.
Si lasciò investire di nuovo dal fiume di calore di Mitternacht, che lo svuotò
di tutte le incertezze. Realtà o immaginazione, non aveva più importanza.
Lei era lì, vera, candida, di un altro mondo. Ed anche lui era lì, vero,
il Georg di sempre, ma con un segreto in più.
Per un attimo odiò quel vetro invisibile che li separava.
Avrebbe voluto che non ci fosse. Desiderava vederlo scomparire.
Mitternacht rise con delicatezza, portandosi con nobiltà la mano davanti alla
bocca impertinente. Ed esaudì il suo nuovo desiderio.
Il vetro si dissolse e le loro mani si toccarono. L’intenso calore di quel
tocco era impossibile da sopportare, ma a Georg non faceva alcun effetto, se
non quello di sentirsi completamente nuovo, rinato. Incrociò le proprie dita
con le sue.
Era vera.
“So che non ti vedrò più.”, le disse, “Quindi ti dico addio.”
"Ricordati Georg. Fa’ ciò che vuoi.", disse Mitternacht, "Addio."
Chiuse gli occhi stringendole a sè più che poteva.
“Addio.”, le disse, con una fatica ed un dolore che non pensava di aver mai provato prima.
Chiuse di nuovo gli occhi.
Percepì il contatto freddo della sua mano contro lo specchio.
Era finito.
Tutto finito.
Un fortissimo senso di delusione e malinconia presero posto nel suo cuore, come
quando un bellissimo sogno veniva interrotto nel suo punto più bello.
In quell'istante, si rese conto di amarla.
Ma quello che provava per lei non era l'amore fisico, nè
sentimentale che avrebbe potuto provare per qualsiasi altra donna. Era
qualcosa che non sapeva che si potesse sentire per qualsiasi persona
comune, era un sentimento totalmente sconosciuto, profondo e diverso.
Era come l'amore per un bambino, per un fiore o per il cielo sgombro
dalle nuvole. Era un amore semplice, un sentimento che quietava l'animo. E che non avrebbe provato mai per nessun altro al mondo. Chiunque avesse avuto modo di incontrarla, o anche solo di vederla per un istante, non poteva non provare lo stesso.
Non sapeva spiegarlo a parole.
Non si sentì infelice nel pensare che non l'avrebbe mai
pià rivista. Anzi, era proprio questo sentimento speciale che
provava per lei ad annullare la malinconia che provava nel sapere che
Mitternacht non sarebbe mai più comparsa dinanzi a lui.
Forse era l'unico, in tutto il mondo, ad averla
vista. Chissà chi altro, prima di lui, le aveva dato il
nome con cui l'aveva conosciuta, Mondenkind. Forse lo stesso Michael
Ende, che le aveva poi dedicato uno tra i tanti libri magici che
esistevano sulla terra. La Storia Infinita,
appunto. Chissà chi, dopo di lui, le avrebbe dato un nuovo nome.
Avrebbe voluto che vivesse come Mitternacht per sempre, ma sapeva che
prima o poi si sarebbe di nuovo ammalata... Forse sarebbe accaduto tra
cento anni, mille anni, non poteva saperlo. Chiunque l'avesse
incontrata di nuovo, sarebbe stata la persona più fortunata di
tutto l'universo.
Suo magrado, però, era il momento di tornare alla realtà. Era il momento di tornare nella realtà..... qualcosa di caldo bagnò il suo piede. Gli venne da voltarsi verso la...
“Cazzo!”, gridò, vedendo l’acqua traboccare al di fuori della vasca.
Si precipitò a chiudere il rubinetto e, come un fulmine, sventrò l’armadietto
degli asciugamani per frenare l’avanzata dell’acqua verso la porta del bagno.
“Georg!”, sentì esclamare, dalla camera.
Era Bill.
Non se ne erano ancora andati…
“Stai bene? E’ tutto a posto?”, gli chiese con insistenza.
Vide la luce, che filtrava nella fessura tra il pavimento e il legno della
porta, rompersi a più riprese. Sentì poi il rumore di altri passi nervosi.
“Ho solo… fatto traboccare la vasca!”, spiegò Georg, mentre con una mano si
preoccupava di fermare l’acqua e con l’altra apriva l’uscio del bagno.
“Cavolo!”, esclamò Bill, precipitandosi a dargli una mano, tamponando il pavimento bagnato.
Anche Tom e Gustav andarono in suo soccorso. Non appena Tom
svuotò la vasca, Gustav la riempì con gli asciugamani
inzuppati. In pochi secondi, tutta l'acqua fu raccolta. Rimaneva solo
quella che inzuppava i loro vestiti.
“Ma cosa avevi in testa!”, sbuffò Bill, con i pantaloni bagnati fino al
ginocchio, ridendo.
La situazione, infatti, era abbastanza comica. Un tripudio di colori spuntava
fuori dal bianco latteo della vasca, mentre loro cercavano di asciugarsi nella
stoffa dei loro vestiti mollici.
Ma a Georg non andava affatto di ridere, come
invece facevano gli altri. Si sedette sul pavimento ed appoggiò stancamente la schiena al muro di
piastrelle azzurrognole dietro di sé.
“Hey…”, gli fece Tom, sul bordo della vasca, “E’ tutto a posto?”
Lo vedevano strano, fuori dalla realtà.
Triste.
“Se volete potete andare, non vi preoccupate, sistemo da solo.”, disse Georg.
“Andiamo…”, lo esortò Gustav a parlare.
Georg sospirò, toccandosi la testa.
“E’ come chiedere al malato terminale che cosa pensa del proprio domani.”,
riprese poi, “Niente può essere a posto….”
“Mi dispiace…”, disse Bill.
Non sapeva che farsene del suo dispiacere.
Avrebbe tanto voluto che ognuno di loro si potesse rendere conto di che cosa
avevano combinato… e ricominciare da capo.
Era quello il suo desiderio finale.
Se Mitternacht fosse stata tra loro, forse lo avrebbe esaudito. Ma ormai non
c'era più, se n'era andata. Tornata in Fantàsia, a prendere il posto di
Imperatrice, come da sempre.
“Lascia stare.”, disse Georg, prendendo l’ultimo asciugamano bagnato e
gettandolo nel mucchio della vasca, “Non sempre la volontà di uno coincide con
quella degli altri.”
Bill gli porse una mano e lo aiutò alzarsi.
“Allora anche questo è un addio…”, fece Georg, retoricamente.
“Perchè dici anche?”, gli domandò Gustav, sempre attento a tutte le parole.
Loro non potevano saperlo.
Non dovevano, era un segreto.
“Mi correggo. Allora questo è un addio.”, ripetè Georg.
“Diciamo… un arrivederci.”, disse Tom, alzando le spalle.
Georg lo guardò. Quel suo essere criptico nei momenti più inopportuni lo aveva sempre
infastidito un po’.
“Arrivederci a quando?”, gli chiese.
“A tra un po’.”, fece Bill, incrociando le braccia, con un piccolo sorriso
sulle labbra, “Cioè a quando saremo in grado di chiederci scusa.”
*****
Si buttò sul divano,
esausto, a pancia in giù.
Totalmente senza forze.
Vi cadde sopra a peso morto, come senza vita.
Borbottò qualcosa contro il suo cellulare che, dentro alla tasca dei pantaloni,
gli si stava incarnando nella gamba.
Era andata.
E pure bene.
Non lo avrebbe detto.
Cinque minuti prima di iniziare aveva pensato: ‘Sei sicuro di quello che
stai facendo? Perché sei sempre in tempo a scappare a gambe levate.’
Eppure aveva varcato la soglia e si era buttato nel vuoto.
Davanti ad un pubblico esiguo, fatto di circa duecento persone, aveva imbracciato
di nuovo il suo basso e si era esibito.
Gustav alle sue spalle.
Bill alla sua destra e Tom al di là di lui.
Come era sempre stato da quando si erano conosciuti.
Lo avevano fatto in un piccolo locale, una ‘bettola’ di periferia di
legno e tende rosse che chiudevano il retro del palco. L’atmosfera era tenue,
quasi spenta, illuminata da piccole luci e candele basse sui tavoli. C’era un
odore di vaniglia che faceva venire fame.
Lì dentro, un locale per jazzisti e trombe del blues, avevano suonato ancora insieme.
Ma non lo avevano fatto lì perché gli stadi e le arene non li volevano più.
Quel locale era suo. Era di Georg Mortiz Hagen Listing.
Non si ricordava nemmeno di preciso come ne era diventato proprietario. Fatto
stava che una sera era andato lì dentro a prendere una birra con Fabian e,
quello seguente, aveva tirato i soldi fuori per comprarlo. Se ne era innamorato
così tanto che un pensiero veloce gli aveva sfiorato la testa: abbandonare
tutto per buttarsi in quel locale. Ma poi si era dato dello scemo. Lui senza il
suo basso non era niente e nulla, nemmeno imparare a servire Bloody Mary e
birra alla spina, poteva sostituirlo.
Sì, quel locale era una ‘bettola’, per come lo aveva definito Tom quando
lo aveva visto la prima volta. Ma era una ‘bettola speciale’.
I musicisti che, ogni sera, riempivano il palco su cui si erano appena esibiti
non erano di certo così sconosciuti. Beh, per Tom lo erano, dato che lui di
musica jazz non ne capiva una mazza. Ma lui, che quella maledetta
sera con Fabian ne era rimasto travolto, in poco se l’era fatta propria. Ne era
diventato un estimatore e conoscitore profondo. Ed amico anche di tutti i
gruppi che avevano suonato per lui.
Prima che la gente venisse a sapere che lui aveva comprato quel posto, ne era
passata di acqua sotto i ponti. Sì, perché in un locale come quello tutti erano
anonimi e lui non aveva mai pubblicizzato il suo acquisto. Anzi, passava come tutti gli altri il tempo ad ascoltare i ritmi
sincopati della musica, bevendo un sorso di birra alla volta. Con la vendita, mantenendo il loro posto di lavoro
aveva anche acquisito la stima dei dipendenti
e l’aveva cementata con il tempo, entrando in relazione con loro.
"Ha il cervello come una spugna, cazzo!”, avrebbe detto Ferdinand,
il barista, il mago dei cocktail, “In meno di una settimana, cazzo, ha
imparato a gestire questo posto… Mica cazzi!”
Non era un tipo molto fine, pensava sempre Georg, ma ci sapeva fare.
Soprattutto, sapeva vendere i suoi drink.
Era passato un anno da quella conferenza stampa.
In dodici mesi erano cambiate molte cose.
Molte priorità.
E loro quattro avevano imparato una bella lezione.
Durante quella conferenza non avevano detto che si sarebbero sciolti, ma solo
che avrebbero preso il loro tempo.
Tempo per pensare.
Tempo per cambiare.
Avevano fatto dei grossi sbagli ed era il momento di fermarsi per comprendere
come risolverli.
Si erano detti arrivederci, alla prossima.
E la prossima era venuta.
Ognuno aveva abbassato la testa, si era morso la lingua, aveva inghiottito l’orgoglio
ed chiesto scusa all’altro.
Ma ci erano voluti ben trecentosessantacinque giorni, o giù di lì, perché ciò
accadesse.
Durante quell’arco di tempo si erano calmati, fatti ragione della crisi che li
aveva investiti e detti: ‘Perché non torniamo fuori a spaccare qualche culo?’
Ed avevano davvero spaccato qualche culo.
Prima di tutto, dovevano tagliare completamente con la loro vecchia immagine.
Questo non aveva voluto dire trovarsi davanti Bill senza trucco o Tom senza i
rasta. Ovvio che chiedere loro questo sarebbe stato come chiedere a Dio di
inventare un altro tipo di donna.
Era il momento di abbandonare tutte le cazzate da adolescenti.
Prima di tutto, erano saltate le teste dei merchandiser, che avevano venduto le
loro facce anche ai produttori di detergenti intimi.
Poi, visto che ne avevano abbastanza di esperienza per vivere in quel mondo,
avevano preso in mano il loro destino.
Via tutti quelle cazzate come interviste a raffica, televisioni e radio,
servizi fotografici e promozioni varie, che li assillavano senza dare loro
tregua. Sarebbero stati loro a decidere quando e come rilasciare interviste.
Sempre affiancati da David e dall’usuale staff manageriale, pretendevano più
indipendenza, più coscienza di sé.
Suonavano la loro musica, non la musica che piaceva alla casa
discografica. Quindi si erano creati una loro etichetta ed avrebbero prodotto
autonomamente i loro dischi senza pressioni di sorta. Avevano abbastanza soldi
per poterselo permettere.
Ma soprattutto, avevano voglia di farlo.
E a chi aveva detto loro: Ma così taglierete tutti i ponti con i vostri
fans, passerete per degli sbruffoni, perderete di immagine!, loro avevano
risposto: E allora?
Avrebbero corso il rischio di passare per dei grossi stronzi, senza un
briciolo di lealtà verso i loro fans, né di modestia.
Insomma, dei bastardi targati Tokio Hotel.
Però, la lezione che avevano dovuto imparare era stata chiara.
Mangia la vita prima che sia lei a mangiarti.
Così, anche dopo la manifestata scetticità di David, avevano deciso di fare a
modo loro: vendere i duecento posti del locale di Georg per presentare in
unplugged l’album che avevano preparato.
Fu una botta mediatica.
Erano corse voci su un possibile loro nuovo album, soprattutto dopo l’annuncio
della separazione dalla Universal per fondare una casa discografica a parte. Ma
poi si erano spente, perse nell’assenza di comunicati stampa e voci fondate in
campo.
Erano stati furbi. Erano usciti quando il mondo sembrava si fosse dimenticato
di loro. Quasi un anno dopo l’esibizione unplugged in televisione, dove erano
stati pesantemente fischiati dal pubblico, ne avevano proposto un’altra.
Di tutt’altro stile e categoria.
Il loro nuovo album non aveva niente in comune con quelli precedenti. Tranne il
nome del gruppo e dei suoi componenti. Essenzialmente rock, con una venatura
heavy metal e molto punk. Alternativo, melodie poco orecchiabili, testi
graffianti.
Ci si erano impegnati abbastanza per ottenerlo. A modo loro.
Per prepararsi a quella esibizione,avevano anche riarrangiato i vecchi pezzi,
per renderli più sulla scia del loro nuovo stile.
Basta con i vecchi Tokio Hotel, basta con le ragazzine piangenti.
Adesso volevano conquistare un pubblico più grande, adulto, totalmente diverso.
Non sapevano se ce l’avrebbero fatta, ma tanto valeva riprovare.
Non avevano nulla da perdere, tranne l’essere definiti ancora una boyband.
Avevano optato per l’unplugged per mandare un preciso messaggio.
Un’esibizione del genere, aveva segnato la loro fine. Che questa nuova
occasione fosse il nuovo inizio?
Beh, la risposta poteva venire solo nei prossimi tempi.
E poi Georg non voleva pensarci più di tanto, era esausto.
Sbuffò, voltandosi supino e scacciando con un soffio i capelli che gli erano
entrati in bocca.
Era stanco, ma aveva ancora la forza per fare una cosa.
Si alzò e, stropicciandosi gli occhi, andò verso camera sua.
Barcollando, aprì il cassetto del suo comodino.
Prese il libro che stava al suo interno e sfogliò le pagine.
Ritrovò con estrema felicità Piornakzac, un Mordipietra, un gigante
altissimo fatto di sasso, che viaggiava sulla sua bicicletta di pietra verso
Gustav…
Bill…
Tom…
Falsamente modesto, Georg sorrise con soddisfazione.
Se stesso…
Aveva l'aspetto di una bimba di dieci anni, con una veste di seta bianca.
Del medesimo colore anche i suoi capelli, lisci lungo tutta la schiena
Gli occhi coloro dell'oro.
Anche le sue vesti di seta erano bianche.
Eein unbeschreiblich schönes kleines Mädchen.
Una bambina di indescrivibile bellezza.
Se la ricordava molto bene. Forse non era riuscito a memorizzare un volto tanto
quanto il suo. Se avesse saputo disegnare, lo avrebbe fatto con tale
precisione che ne sarebbe uscita fuori una fotografia. Ed infatti era quello
che aveva fatto. Il suo ritratto, disegnato da un artista di strada con un
carboncino, stava appeso in casa sua.
Alla domanda: chi è quella ragazza?, lui aveva sempre risposto: Una
che è venuta a trovarmi in sogno…
Lei era il mistero più impenetrabile del mondo di Fantàsia e che chi lo capiva
del tutto avrebbe spento con ciò la propria esistenza, per parafrasare le
parole del libro.
Ed infatti, lui non aveva capito tante cose.
Ma non avrebbe avuto senso comprenderle, erano un mistero e così doveva rimanere per
sempre.
Sarebbe stato geloso per tutta la vita di questo segreto che avevano in comune.
L’aveva conosciuta in quella libreria così piccola e vecchia.
Forse era per quello che si era innamorato della ‘bettola speciale’.
E quando l'aveva comprata, le aveva dato il suo nome.
Mitternacht.
FINE
Non ci posso credere... sono arrivata alla fine!!!! Oh mio Dio... e pensare che quando sono partita mi facevo più lavori di masturbazione mentale che pensavo di diventare cieca. Anzi, a vedere dagli occhiali sul naso e la prossima visita oculistica già lo sono... ma se la mia miopia peggiorerà sarà tutta colpa di questa storia!
Ingarbugliata all'infinito, so che qualcuna di voi non ci ha capito niente e me ne dispiace abbastanza, pensavo di aver fatto un buon lavoro, cercando di spezzare il capello in quattro, ma si vede che non ci sono riuscita molto bene. Sarebbe stato più facile se tutte voi aveste almeno visto il film, ma non posso di certo pretendere una cosa del genere! Figuriamoci!
Spero che il finale non abbia deluso nessuna di voi, avrei quasi voluto non farli tornare insieme, ma purtroppo sono buona e non volevo portare sfiga al gruppo!
Mi sono dimenticata che sia per il capitolo precedente che per questo, al sottotitolo, ho utilizzato strofe della canzone 'Never-Ending Story' di Limhal, cioè della celeberrima soundtrack del film. No per scopo di lucro.
Per quanto riguarda i ringraziamenti finali, faccio un riassunto generale di tutti i baci e abbracci che mando a tutte voi che avete letto, recensito e messo la storia nei preferiti, anche a quelle che mi seguono di nascosto! Non so più cosa scrivervi, ogni volta mi avete sommerso di complimenti e di elogi, non saprò mai ringraziarvi abbastanza! Non ho più parole, tranne una sola:
Arumi_chan
Bell_Lua
Cirbiricoccola
CowgirlSara
dark_irina
drusilla87
Kit2007
Kheth_el
Kltz
LaTuM
Lidiuz93
natalia
picchia
Pikkola Tokietta
revege
sole a mezzanotte
sososisu
starfi
SweetPissy
_Princess_
Tranquille, ho già in preparazione altre storie sui TH, ma per il momento le ho accantonate, torneranno in cantiere prossimamente!
Vi saluto, un abbraccio e un bacio!