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Autore: RubyChubb    25/02/2008    11 recensioni
Spinse con forza la porta di vecchio legno scuro e vetro. Una serie che pareva infinita di scricchiolii e mugolii accompagnò quel breve momento e, non appena anche l’ultimo centimetro del suo corpo fu all’interno, la richiuse. Uno tintinnio sottolineò la sua presenza: attaccati sulla porta, piccoli e di bronzo, delle piccole campanelle avevano suonato fin dal primo istante in cui la sua mano si era appoggiata sulla nera maniglia esterna.... -RubyChubb-
Genere: Generale, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO 10
The answer is written on the pages of a Never-Ending Story

 

 

Fissava la parete.
Cercava un segno, un qualcosa, un nulla che gli dicesse: ‘Andiamo Moritz! Non sei pazzo!’.
Ma non trovava niente.
In mezzo al vicolo, non lasciò mai che i suoi occhi divagassero oltre quei mattoni, finchè il rumore di un paio di tacchi lo distrassero, ricollegandolo alla realtà.
Una signora, infiocchettata nel suo cappotto rosso, portava a spasso un delizioso ma irritante barboncino bianco.
“Ehm… mi scusi…”, la richiamò Georg.
La donna si fermò quasi spaventata, guardandolo come se fosse stato un maniaco in cerca di una facile preda.
Georg preferì non avvicinarsi a lei, che gli era lontano almeno una decina di metri e sembrava avere intenzione di correre via.
“Sa dirmi se qui c’è mai stata un libreria?”, le chiese, “Oppure in qualche vicolo vicino a questo.”
Sì, non poteva essere altrimenti, doveva aver sbagliato di nuovo strada.
La donna parve calmarsi di poco. Il barboncino, nel frattempo, si era nascosto tra le sue gambe.
“Beh…”, disse, titubante, “Che io sappia non ci sono librerie da queste parti…”
“Nemmeno una vecchia? Tutta polverosa, con un libraio anziano e scorbutico…”, ritentò Georg.
Ci doveva essere.
Ci doveva essere a tutti i costi.
“No… ne sono sicura.”, ripetè la donna, prima di tornare sui suoi passi ed abbandonarlo di nuovo.
Non si risvegliò dalla trance in cui era caduto finchè il rumore di tacchi si disperse in lontananza.
Si mise le mani nei capelli.
No, non poteva essere successo.
No.
Era tutto un errore.
Come un vero pazzo, camminò per i vicoli del centro storico. Spese un’ora del suo tempo in quella dannata ricerca.
Del tutto inutile, doveva ammetterlo.
Così come Mondenkind, anche la libreria si era volatilizzata.
E lui stava diventando totalmente scemo. 

 
Doveva andare a casa, doveva chiamare un dottore, uno psicanalista, uno strizzacervelli che gli dicesse: ‘Caro il mio bel Georg, soffri di schizofrenia, ti rinchiudiamo così non ammazzi nessuno.
Nel mentre stava per entrare nel parcheggio sotterraneo del suo blocco di appartamenti, il suo telefono squillò.
“Dove cazzo sei imbecille!”, tuonò Gustav, “La conferenza sta per cominciare!”
La conferenza…
La conferenza!
“Oh merda!”, esclamò Georg, “Arrivo subito!”
Cazzo, doveva correre all’Hilton.
Guardò l’ora sullo schermo del telefono: era mezzogiorno e cinquantacinque. Non ci sarebbe arrivato prima di venti minuti buoni. Di nuovo, guidò come un pazzo verso l’hotel, ci mancò poco che si schiantasse da qualche parte, ma ce la fece.
“Ma dove cazzo sei stato! Che cazzo hai fatto!”, gli gridò contro Bill, appena lo vide spuntare nella stanza sul retro della sala conferenze, dove lo stavano aspettando.
“Niente… sono stato a trovare una mia amica all’ospedale!”, si difese all’istante Georg, ancora del tutto scosso dall’incubo che aveva appena finito di vivere.
“Ma vai a raccontarla a tua madre!”, gli rispose Tom.
“Prima ci vendi alla stampa… e ora che fai?”, rincarò Gustav, “Hai paura?”
David, intuendo dalla faccia irata di Georg una possibile controversia corporea tra i due, si mise nel mezzo.
“Andiamo, calmatevi!”, li interruppe, “E’ ora della conferenza stampa.”
Tra di loro cadde un’ipocrita calma. Uno per volta salirono sul palco della sala conferenze e si sedettero dietro ai microfoni, con facce serie. Una salva di flash accolse il loro arrivo e, dopo che David ebbe come sempre stabilito le regole, la conferenza iniziò.
Immerso nei suoi pensieri, Georg non stette nemmeno ad ascoltare le domande che vennero loro rivolte. Era ovviamente Bill a parlare in nome di tutti.
Non sentì una sola parola.
Fu come se due invisibili tappi si fossero posizionati dentro le sue orecchie, isolandolo acusticamente dal resto del mondo.
Doveva realizzare quell’incubo chiamato ‘La Storia Infinita’…
Un semplice ed innocuo libro come tutti gli altri. All’apparenza.
Che cosa aveva vissuto lui da quasi un mese a quella parte?
Una schizofrenia allucinante. Un abominio psichico chiamato Mondenkind.
Non c’era una razionalità in quella ragazza. Non c’era.
Ma soprattutto non c’era più letteralmente.
E tutto quello era inimmaginabile, ma lo stava vivendo.
Non voleva pensare che quello che Mondenkind… o meglio, Mitternacht, gli aveva detto in sogno fosse vero. Perchè non era scientificamente possibile.
Fantàsia non esisteva se non nel libro di Ende.
Lui non aveva salvato niente e nessuno dal Nulla, pronunciando semplicemente un nome.
La libreria del signor Metternich non era mai esistita. Non c’era mai entrato dentro, non aveva mai rubato alcun libro, non aveva mai incontrato nessuna Mondenkind. Non aveva mai fatto amicizia con lei, non era mai stato a trovarla in ospedale.
E soprattutto, non aveva mai fatto quel sogno in cui scopriva la sua vera identità… in cui lei gli spiegava che, per farsi salvare da lui, il mondo di Fantàsia si era aperto un piccolo squarcio nella vita reale. Non era mai accaduto che, contemporaneamente, le loro volontà comuni –una di salvarsi dalle fans impazzite, l’altra di essere salvata da lui- li avessero fatti incontrare nella libreria del signor Metternich. Non era successo, quindi, che questa fosse apparsa dal niente. Non era possibile far comparire una libreria in un muro di mattoni liscio, da un momento all’altro. Non era infine accaduto, come gli aveva detto Mondenkind nel sogno, che fosse stato lui stesso a ‘crearla dal niente’, perchè aveva avuto bisogno di un posto in cui rifugiarsi per scappare dalle sue fans. 
No, tutto quello non c’era stato.
Tutto quello era frutto dello stato confusionale in cui si trovava. Si era immaginato tutto per colpa dello stress. Bastava solo farsi ricoverare per qualche mese, sotto sedativi e antidepressivi, poi sarebbe tornato come nuovo. Un bravo psicanalista avrebbe sicuramente detto che si era rifugiato in quella ‘fantasia reale’ perchè la vita vera non lo soddisfaceva. Aveva avuto quindi bisogno di un pretesto immaginario per continuare ad andare avanti. Si fosse trovato, per esempio, a leggere ‘Il giro del mondo in ottanta giorni’, avrebbe sicuramente pensato di essere su una mongolfiera in viaggio per la Terra…
Sì, era l’ora di svegliarsi veramente.
Era l’ora delle cure mediche.
Era l’ora di…
Una gomitata di  Gustav, seduto accanto a lui, lo risvegliò, facendolo tornare con la mente per terra.
Un giornalista gli aveva appena fatto una domanda, ma lui non gli aveva dato la minima attenzione.
“I suoi compagni hanno appena chiarito la loro posizione riguardo alla situazione del gruppo. Lei cosa ne pensa?”, ripetè un uomo in occhiali tondi alla John Lennon.
Se li avesse ascoltati…
Scena muta, non gli uscivano parole dalla bocca.
“Georg… rispondi!”, gli sussurrò minacciosamente Gustav.
“Beh… io…”, balbettò.
Poi chiuse gli occhi.

 *

La testa era una sfera di piombo, l’udito era l’unico senso che funzionava in quel momento. Poco, ma funzionava.
“Si sta riprendendo…”
“Mamma mia…”
“Portiamolo in ospedale, è meglio.”
“A casa…”, borbottò Georg, con un filo di voce, “Per favore…”
“Sì, ti ci portiamo subito.”
“Magari poi chiamiamo un dottore che venga a visitarlo.”
“Ma è meglio portarlo in ospedale!”
“Lo dividiamo in due? Così ti facciamo contento e scarrozzi la tua metà dove ti pare!”

 

*

 

Si svegliò nel suo letto. Non potette accertarsene subito, ma riconobbe la consistenza del suo cuscino. Non appena il corpo rispose ai segnali nervosi, riuscì ad aprire gli occhi ed a mettersi seduto.
“Come stai?”, gli venne chiesto da qualcuno, seduto da qualche parte nella penombra della stanza.
“Bene, Tom… sto bene.”, rispose, con un filo di voce.
“Sei... svenuto durante la conferenza stampa.”, gli disse.
“Sì… lo so.”, continuò Georg, portandosi una mano alla testa per fermare l’ennesimo giramento.
“Gli altri sono di là, nel tuo salotto…”, disse Tom, alzandosi ed avvicinandosi alla porta, “Non era saggio lasciarti solo. Ma adesso che stai meglio ce ne andiamo.”
“Mh… ok.”, fece Georg.
Tom esitò un attimo, poi annuì con la testa, mise le mani in tasca ed uscì, chiudendo la porta dietro di sé.
La testa di Georg, oltre ad essere dolorante, era totalmente vuota. Non un pensiero disturbava la calma che vi regnava dentro.
Se ne andò in bagno, aveva bisogno di una doccia per riprendersi.
Era svenuto come un demente e non aveva ascoltato un verbo di tutta la conferenza stampa. Chissà che cosa era stato detto, ma non ci voleva un genio per saperlo...
Guardò le profonde occhiaie che disturbavano il suo viso riflesse sullo specchio. Pareva che si fosse divertito a farle con l’eye liner di Bill. Si legò i capelli ed aprì il rubinetto del lavandino. Prese una manciata d’acqua e vi affondò la faccia, sentendo il freddo benefico del liquido bagnargli la pelle. Tastò alla sua destra in cerca di un asciugamano e si tamponò.
Di nuovo, il viso stanco apparve sul vetro.
No, niente doccia. Ci voleva un bel bagno caldo. Si avvicinò alla vasca e, dopo aver chiuso lo scarico, lasciò che si riempisse di acqua bollente. Non era da lui, ma sentiva il bisogno di farlo. Nel mentre il rumore del flusso dell’acqua riempiva il bagno, sentì come un paio di occhi puntarsi sulla nuca.
Si voltò, ma non c’era nessuno. Gli altri se ne erano già andati, era totalmente solo in casa.
Tornò verso il lavandino.
Se non si ricordava male, Gustav una volta gli aveva regalato una scatola di sali da bagno. Anzi, era stato un regalo che gli aveva riciclato perchè non se ne faceva di niente. Dovevano essere da qualche parte, nel mobiletto del lavandino, e si accucciò per cercarli.
Toc toc toc
Drizzò le orecchie al lieve rumore che aveva sentito.
“Chi è?”, chiese, presupponendo che qualcuno avesse bussato alla sua porta. Ma non gli arrivò nessuna risposta.
Alzò le spalle e tornò nella ricerca.
Toc toc toc toc
Si alzò ed aprì la porta del bagno. Nessuno. Richiuse.
Toc toc toc toc toc
Quel piccolo bussare veniva da dentro il suo bagno...
Guardò alla finestra, magari un uccellino stava col becco a picchiettare sul vetro. Infatti, appena l'aprì uno sfarfallio di ali si allontanò dalla soglia. Serrò la finestra e tornò a cercare i suoi sali da bagno, ma non li trovò. Si rassegnò, avrebbe fatto senza, non erano poi così necessari.
Fece per spostarsi verso la vasca, ma un paio di occhi chiarissimi, riflessi sul suo specchio, lo distrassero. 
Non aveva parole. Gli si sbarrarono gli occhi, sentì il cuore fermarsi di colpo. Tum tum tum... e poi più niente. Il sangue fluì velocemente via dal suo corpo, sparendo invisibile. Gli mancò il respiro, o forse ne fece a meno per i lunghi secondi seguenti in cui rimase a fissare quell'immagine.
Un bianco surreale contornava il viso candido di Mondenkind.
Mitternacht
Quel nome rimbombò nella sua testa, echeggiando.
Era come l’aveva vista nel sogno. Esattamente uguale.
Non se la sarebbe più dimenticata...
No… non poteva abbandonarsi di nuovo alla follia, doveva chiamare gli altri, doveva raccontare loro quello che gli era successo, doveva far vedere loro che…
Mitternacht alzò una mano, prima nascosta dal limite dello specchio, e si portò l’indice sulle labbra, schiudendole lievemente.
'Sshh...', frusciò nelle sue orecchie.
“Ma tu… io…”, prese a balbettare Georg, sentendosi sfinito dallo squilibro mentale.
‘Non devi dirlo a nessuno. Devo rimanere un segreto.’
Sentì la sua voce, senza che lei aprisse le labbra carnose e rosee. Non parlava con la bocca, ma con gli occhi. La sua voce suonava dolce e quasi infantile dentro la testa, senza che ci fosse il bisogno per lei di rompere quel tenero sorriso che aveva.
“Io non voglio avere questi segreti! E non voglio diventare pazzo!”, protestò Georg.
Doveva mettere in atto un'opera di autoconvincimento per far sparire Mitternacht dal suo specchio. Gli stava prendendo una irrefrenabile voglia di sfondarlo con un pugno, piuttosto che continuare nella consapevolezza che il suo cervello stava collassando su se stesso.
‘Tu non sei pazzo. Mi hai salvato. Conserverai questo semplice segreto per sempre?’, gli chiese Mitternacht. 
Detta da lei, quella richiesta sembrava semplice come... come bere un bicchiere d'acqua! Semplice come guardare fuori dalla finestra, come respirare, come mangiare.
Ma come poteva essere così facile?

“Io…”, disse Georg, disperato.
Lo so che è difficile.
“Tu sei… sei così reale… com’è possibile?”, fece Georg, avvicinandosi allo specchio.
Sembrava che fosse diventato una finestra e lei stesse lì a guardarlo, così come la guardava lui. La sua veste si confondeva quasi con il bianco che la contornava, dandole un aspetto etero, di fantasma. Il fine nastro che le abbelliva la fronte sembrava quasi una corona.
‘Io sono reale… Questo lo sai anche tu.’, disse lei.
“Sei una mia immaginazione.”, disse Georg, risoluto.
Doveva chiarirlo, doveva dirglielo. Lei era solo un parto della sua mente malata.
E basta.
Ma la testa di Mitternacht non fu d’accordo con la sua affermazione e si scosse in un cenno negativo.
Se ti fa felice pensarmi come un’immaginazione, fallo pure.’, disse.
Sui suoi occhi si posò un velo di tristezza ed il sorriso scomparve, lasciando posto ad un’espressione di sconforto. Percepiva tutti i sentimenti dipinti sulla sua tenera faccia come se fosse stato lui stesso a provarli. Georg si sentì riempire di malinconia.
“No, ti prego, non volevo…”, la implorò, sentendosi colpevole per quello che aveva appena detto.
‘Non è facile per te accettare quello che hai vissuto, me ne rendo perfettamente conto… I nostri due mondi sono così profondamente diversi che spesso è impossibile capire quanto siano legati.
Vide una lacrima cadere fugace lungo una sua guancia. 
Il pianto di Mitternacht non era di disperazione: era silenzioso, quasi impercettibile se non per via di quella piccola goccia d’acqua che si era infranta sul suo vestito. E per Georg era dolorosissimo. 
Avrebbe preferito, piuttosto, prendere un pugno direttamente in faccia. Fare piangere Mitternacht era l'ultima cosa che voleva a quel mondo. Lei non doveva essere triste, soprattutto per causa sua. Voleva che ridesse, perchè gli piaceva quando sorrideva, gli scaldava il cuore.
 
Sentì l'anima infrangersi.

“Non piangere…”, le disse.
E, anche se la sua parte puramente razionale si rifiutava di credere, non riusciva a pensare che tutto quello fosse solo causato dalla sua mente. Doveva essere vero…
Voleva che lo fosse. Lo desiderava con tutto il cuore.
Improvvisamente, il viso di Mitternacht tornò ad essere luminoso e il piccolo rivolo che lo imbruttiva si prosciugò all'istante.
‘Grazie Georg per averlo pensato… Sai quanto i tuoi desideri siano importanti per noi.’, gli disse ed alzò di nuovo la mano.
La appoggiò contro il vetro trasparente che li divideva e Georg potette solo farlo altrettanto.
Si lasciò investire di nuovo dal fiume di calore di Mitternacht, che lo svuotò di tutte le incertezze. Realtà o immaginazione, non aveva più importanza.  Lei era lì, vera, candida, di un altro mondo. Ed anche lui era lì, vero, il Georg di sempre, ma con un segreto in più.
Per un attimo odiò quel vetro invisibile che li separava.
Avrebbe voluto che non ci fosse. Desiderava vederlo scomparire.
Mitternacht rise con delicatezza, portandosi con nobiltà la mano davanti alla bocca impertinente. Ed esaudì il suo nuovo desiderio.
Il vetro si dissolse e le loro mani si toccarono. L’intenso calore di quel tocco era impossibile da sopportare, ma a Georg non faceva alcun effetto, se non quello di sentirsi completamente nuovo, rinato. Incrociò le proprie dita con le sue.
Poi, come se la sua mano fosse stata del tutto indipendente dal resto del corpo, Georg la sentì tirarsi indietro, verso di sè, stringendo con ancora più forza quella di Mitternacht. Come se niente fosse ad ostacolarla, Mitternacht uscì da quello specchio, passando oltre tutto ciò che di umano c'era tra i loro corpi. Il resto intorno a loro si annullò, scomparve.
La abbracciò. Un grazie detto senza parole. Affondò le dita tra i suoi capelli neri.
Era vera.

“So che non ti vedrò più.”, le disse, “Quindi ti dico addio.”
 "Ricordati Georg. Fa’ ciò che vuoi.", disse Mitternacht, "Addio."
Chiuse gli occhi stringendole a sè più che poteva. Non voleva che Mitternacht sparisse, ma sapeva che lei non poteva esaudire questo suo ultimo desiderio. Lei sciolse quell'abbraccio e, tenendolo ancora per mano, tornò al di là dello specchio.
“Addio.”, le disse, con una fatica ed un dolore che non pensava di aver mai provato prima.
Chiuse di nuovo gli occhi.
Percepì il contatto freddo della sua mano contro lo specchio.
Era finito.
Tutto finito.
Un fortissimo senso di delusione e malinconia presero posto nel suo cuore, come quando un bellissimo sogno veniva interrotto nel suo punto più bello. 
In quell'istante, si rese conto di amarla.
Ma quello che provava per lei non era l'amore fisico, nè sentimentale che avrebbe potuto provare per qualsiasi altra donna. Era qualcosa che non sapeva che si potesse sentire per qualsiasi persona comune, era un sentimento totalmente sconosciuto, profondo e diverso. Era come l'amore per un bambino, per un fiore o per il cielo sgombro dalle nuvole. Era un amore semplice,
un sentimento che quietava l'animo. E che non avrebbe provato mai per nessun altro al mondo. Chiunque avesse avuto modo di incontrarla, o anche solo di vederla per un istante, non poteva non provare lo stesso. 
Non sapeva spiegarlo a parole. 
Non si sentì infelice nel pensare che non l'avrebbe mai pià rivista. Anzi, era proprio questo sentimento speciale che provava per lei ad annullare la malinconia che provava nel sapere che Mitternacht non sarebbe mai più comparsa dinanzi a lui. 
Forse era l'unico, in tutto il mondo, ad averla vista. Chissà chi altro, prima di lui, le aveva dato il nome con cui l'aveva conosciuta, Mondenkind. Forse lo stesso Michael Ende, che le aveva poi dedicato uno tra i tanti libri magici che esistevano sulla terra. La Storia Infinita, appunto. Chissà chi, dopo di lui, le avrebbe dato un nuovo nome. Avrebbe voluto che vivesse come Mitternacht per sempre, ma sapeva che prima o poi si sarebbe di nuovo ammalata... Forse sarebbe accaduto tra cento anni, mille anni, non poteva saperlo. Chiunque l'avesse incontrata di nuovo, sarebbe stata la persona più fortunata di tutto l'universo.
Suo magrado, però, era il momento di tornare alla realtà.
Era il momento di tornare nella realtà..... qualcosa di caldo bagnò il suo piede. Gli venne da voltarsi verso la...
“Cazzo!”, gridò, vedendo l’acqua traboccare al di fuori della vasca.
Si precipitò a chiudere il rubinetto e, come un fulmine, sventrò l’armadietto degli asciugamani per frenare l’avanzata dell’acqua verso la porta del bagno.
“Georg!”, sentì esclamare, dalla camera.
Era Bill.
Non se ne erano ancora andati…
“Stai bene? E’ tutto a posto?”, gli chiese con insistenza.
Vide la luce, che filtrava nella fessura tra il pavimento e il legno della porta, rompersi a più riprese.  Sentì poi il rumore di altri passi nervosi.
“Ho solo… fatto traboccare la vasca!”, spiegò Georg, mentre con una mano si preoccupava di fermare l’acqua e con l’altra apriva l’uscio del bagno.
“Cavolo!”, esclamò Bill, precipitandosi a dargli una mano, tamponando il pavimento bagnato.
Anche Tom e Gustav andarono in suo soccorso. Non appena Tom svuotò la vasca, Gustav la riempì con gli asciugamani inzuppati. In pochi secondi, tutta l'acqua fu raccolta. Rimaneva solo quella che inzuppava i loro vestiti.
“Ma cosa avevi in testa!”, sbuffò Bill, con i pantaloni bagnati fino al ginocchio, ridendo.
La situazione, infatti, era abbastanza comica. Un tripudio di colori spuntava fuori dal bianco latteo della vasca, mentre loro cercavano di asciugarsi nella stoffa dei loro vestiti mollici. 
Ma a Georg non andava affatto di ridere, come invece facevano gli altri. Si sedette sul pavimento ed appoggiò stancamente la schiena al muro di piastrelle azzurrognole dietro di sé.
“Hey…”, gli fece Tom, sul bordo della vasca, “E’ tutto a posto?”
Lo vedevano strano, fuori dalla realtà.
Triste.
“Se volete potete andare, non vi preoccupate, sistemo da solo.”, disse Georg.
“Andiamo…”, lo esortò Gustav a parlare.
Georg sospirò, toccandosi la testa.
“E’ come chiedere al malato terminale che cosa pensa del proprio domani.”, riprese poi, “Niente può essere a posto….”
“Mi dispiace…”, disse Bill.
Non sapeva che farsene del suo dispiacere.
Avrebbe tanto voluto che ognuno di loro si potesse rendere conto di che cosa avevano combinato… e ricominciare da capo.
Era quello il suo desiderio finale. 
Se Mitternacht fosse stata tra loro, forse lo avrebbe esaudito. Ma ormai non c'era più, se n'era andata. Tornata in Fantàsia, a prendere il posto di Imperatrice, come da sempre.

“Lascia stare.”, disse Georg, prendendo l’ultimo asciugamano bagnato e gettandolo nel mucchio della vasca, “Non sempre la volontà di uno coincide con quella degli altri.”
Bill gli porse una mano e lo aiutò alzarsi.
“Allora anche questo è un addio…”, fece Georg, retoricamente.
“Perchè dici anche?”, gli domandò Gustav, sempre attento a tutte le parole.
Loro non potevano saperlo.
Non dovevano, era un segreto.
“Mi correggo. Allora questo è un addio.”, ripetè Georg.
“Diciamo… un arrivederci.”, disse Tom, alzando le spalle.
Georg lo guardò. Quel suo essere criptico nei momenti più inopportuni lo aveva sempre infastidito un po’.
“Arrivederci a quando?”, gli chiese.
“A tra un po’.”, fece Bill, incrociando le braccia, con un piccolo sorriso sulle labbra, “Cioè a quando saremo in grado di chiederci scusa.”

 

*****

Si buttò sul divano, esausto, a pancia in giù.
Totalmente senza forze.
Vi cadde sopra a peso morto, come senza vita.
Borbottò qualcosa contro il suo cellulare che, dentro alla tasca dei pantaloni, gli si stava incarnando nella gamba.
Era andata.
E pure bene.
Non lo avrebbe detto.
Cinque minuti prima di iniziare aveva pensato: ‘Sei sicuro di quello che stai facendo? Perché sei sempre in tempo a scappare a gambe levate.’
Eppure aveva varcato la soglia e si era buttato nel vuoto.
Davanti ad un pubblico esiguo, fatto di circa duecento persone, aveva imbracciato di nuovo il suo basso e si era esibito.
Gustav alle sue spalle.
Bill alla sua destra e Tom al di là di lui.
Come era sempre stato da quando si erano conosciuti.
Lo avevano fatto in un piccolo locale, una ‘bettola’ di periferia di legno e tende rosse che chiudevano il retro del palco. L’atmosfera era tenue, quasi spenta, illuminata da piccole luci e candele basse sui tavoli. C’era un odore di vaniglia che faceva venire fame.
Lì dentro, un locale per jazzisti e trombe del blues, avevano suonato ancora insieme.
Ma non lo avevano fatto lì perché gli stadi e le arene non li volevano più.
Quel locale era suo. Era di Georg Mortiz Hagen Listing.
Non si ricordava nemmeno di preciso come ne era diventato proprietario. Fatto stava che una sera era andato lì dentro a prendere una birra con Fabian e, quello seguente, aveva tirato i soldi fuori per comprarlo. Se ne era innamorato così tanto che un pensiero veloce gli aveva sfiorato la testa: abbandonare tutto per buttarsi in quel locale. Ma poi si era dato dello scemo. Lui senza il suo basso non era niente e nulla, nemmeno imparare a servire Bloody Mary e birra alla spina, poteva sostituirlo.
Sì, quel locale era una ‘bettola’, per come lo aveva definito Tom quando lo aveva visto la prima volta. Ma era una ‘bettola speciale’.
I musicisti che, ogni sera, riempivano il palco su cui si erano appena esibiti non erano di certo così sconosciuti. Beh, per Tom lo erano, dato che lui di musica jazz non ne capiva una mazza. Ma lui, che quella maledetta sera con Fabian ne era rimasto travolto, in poco se l’era fatta propria. Ne era diventato un estimatore e conoscitore profondo. Ed amico anche di tutti i gruppi che avevano suonato per lui.
Prima che la gente venisse a sapere che lui aveva comprato quel posto, ne era passata di acqua sotto i ponti. Sì, perché in un locale come quello tutti erano anonimi e lui non aveva mai pubblicizzato il suo acquisto. Anzi, passava come tutti gli altri il tempo ad ascoltare i ritmi sincopati della musica, bevendo un sorso di birra alla volta. Con la vendita,
mantenendo il loro posto di lavoro aveva anche acquisito la stima dei dipendenti  e l’aveva cementata con il tempo, entrando in relazione con loro. 
"Ha il cervello come una spugna, cazzo!”, avrebbe detto Ferdinand, il barista, il mago dei cocktail, “In meno di una settimana, cazzo, ha imparato a gestire questo posto… Mica cazzi!”
Non era un tipo molto fine, pensava sempre Georg, ma ci sapeva fare. Soprattutto, sapeva vendere i suoi drink.


Era passato un anno da quella conferenza stampa.
In dodici mesi erano cambiate molte cose.
Molte priorità.
E loro quattro avevano imparato una bella lezione.
Durante quella conferenza non avevano detto che si sarebbero sciolti, ma solo che avrebbero preso il loro tempo.
Tempo per pensare.
Tempo per cambiare.
Avevano fatto dei grossi sbagli ed era il momento di fermarsi per comprendere come risolverli.
Si erano detti arrivederci, alla prossima.
E la prossima era venuta.
Ognuno aveva abbassato la testa, si era morso la lingua, aveva inghiottito l’orgoglio ed chiesto scusa all’altro.
Ma ci erano voluti ben trecentosessantacinque giorni, o giù di lì, perché ciò accadesse.
Durante quell’arco di tempo si erano calmati, fatti ragione della crisi che li aveva investiti e detti: ‘Perché non torniamo fuori a spaccare qualche culo?’
Ed avevano davvero spaccato qualche culo.
Prima di tutto, dovevano tagliare completamente con la loro vecchia immagine.
Questo non aveva voluto dire trovarsi davanti Bill senza trucco o Tom senza i rasta. Ovvio che chiedere loro questo sarebbe stato come chiedere a Dio di inventare un altro tipo di donna.
Era il momento di abbandonare tutte le cazzate da adolescenti.
Prima di tutto, erano saltate le teste dei merchandiser, che avevano venduto le loro facce anche ai produttori di detergenti intimi.
Poi, visto che ne avevano abbastanza di esperienza per vivere in quel mondo, avevano preso in mano il loro destino.
Via tutti quelle cazzate come interviste a raffica, televisioni e radio, servizi fotografici e promozioni varie, che li assillavano senza dare loro tregua. Sarebbero stati loro a decidere quando e come rilasciare interviste. Sempre affiancati da David e dall’usuale staff manageriale, pretendevano più indipendenza, più coscienza di sé.
Suonavano la loro musica, non la musica che piaceva alla casa discografica. Quindi si erano creati una loro etichetta ed avrebbero prodotto autonomamente i loro dischi senza pressioni di sorta. Avevano abbastanza soldi per poterselo permettere.
Ma soprattutto, avevano voglia di farlo.
E a chi aveva detto loro: Ma così taglierete tutti i ponti con i vostri fans, passerete per degli sbruffoni, perderete di immagine!, loro avevano risposto: E allora?
Avrebbero corso il rischio di passare per dei grossi stronzi, senza un briciolo di lealtà verso i loro fans, né di modestia. Insomma, dei bastardi targati Tokio Hotel.
Però, la lezione che avevano dovuto imparare era stata chiara.
Mangia la vita prima che sia lei a mangiarti.
Loro erano stati appena vomitati dalla vita, che li aveva inghiottiti in un sol boccone, e le erano andati un pochino indigesti, dopo le ultime brusche virate… Se non volevano essere presi di nuovo a calci, dovevano essere loro a dettare le regole… e a calciare.
Così, anche dopo la manifestata scetticità di David, avevano deciso di fare a modo loro: vendere i duecento posti del locale di Georg per presentare in unplugged l’album che avevano preparato.
Fu una botta mediatica.
Erano corse voci su un possibile loro nuovo album, soprattutto dopo l’annuncio della separazione dalla Universal per fondare una casa discografica a parte. Ma poi si erano spente, perse nell’assenza di comunicati stampa e voci fondate in campo.
Erano stati furbi. Erano usciti quando il mondo sembrava si fosse dimenticato di loro. Quasi un anno dopo l’esibizione unplugged in televisione, dove erano stati pesantemente fischiati dal pubblico, ne avevano proposto un’altra.
Di tutt’altro stile e categoria.
Il loro nuovo album non aveva niente in comune con quelli precedenti. Tranne il nome del gruppo e dei suoi componenti. Essenzialmente rock, con una venatura heavy metal e molto punk. Alternativo, melodie poco orecchiabili, testi graffianti.
Ci si erano impegnati abbastanza per ottenerlo. A modo loro.
Per prepararsi a quella esibizione,avevano anche riarrangiato i vecchi pezzi, per renderli più sulla scia del loro nuovo stile.
Basta con i vecchi Tokio Hotel, basta con le ragazzine piangenti.
Adesso volevano conquistare un pubblico più grande, adulto, totalmente diverso. Non sapevano se ce l’avrebbero fatta, ma tanto valeva riprovare.
Non avevano nulla da perdere, tranne l’essere definiti ancora una boyband.
Avevano optato per l’unplugged per mandare un preciso messaggio.
Un’esibizione del genere, aveva segnato la loro fine. Che questa nuova occasione fosse il nuovo inizio?
Beh, la risposta poteva venire solo nei prossimi tempi.
E poi Georg non voleva pensarci più di tanto, era esausto.
Sbuffò, voltandosi supino e scacciando con un soffio i capelli che gli erano entrati in bocca.
Era stanco, ma aveva ancora la forza per fare una cosa.
Si alzò e, stropicciandosi gli occhi, andò verso camera sua.
Barcollando, aprì il cassetto del suo comodino.
Prese il libro che stava al suo interno e sfogliò le pagine.
Ritrovò con estrema felicità Piornakzac, un Mordipietra, un gigante altissimo fatto di sasso, che viaggiava sulla sua bicicletta di pietra verso la Torre D’Avorio.
Gustav…
E come si era potuto dimenticare di Wuswusul, l’Incubino? Era un tipetto alto e secco come un chiodo, con una capigliatura folta e vaporosa che, a cavallo del suo pipistrello assonnato, si trovava anch’egli sulla strada della Torre D’Avorio.
Bill…
E ultimo ma non meno importante, il Minuscolino Ukuk, in sella alla sua lumaca da corsa, si teneva stretto il suo cappello colorato in testa, per paura che volasse via lungo il lungo e veloce tragitto.
Tom…
Rileggeva con gusto la descrizione fisica di Atreiu. Aveva la pelle ‘di un verde scuro che dava un po' sul marrone, come le olive’, per citare direttamente le parole di Ende. Capelli neri, bluastri, cavalcava le onde del Mare Erboso in cerca del Bufalo Purpureo, con cui sfamare la sua gente.
Falsamente modesto, Georg sorrise con soddisfazione.
Se stesso…
Scorse rapidamente le pagine.
Aveva l'aspetto di una bimba di dieci anni, con una veste di seta bianca.
Del medesimo colore anche i suoi capelli, lisci lungo tutta la schiena
Gli occhi coloro dell'oro.
Anche le sue vesti di seta erano bianche.
Eein unbeschreiblich schönes kleines Mädchen.
Una bambina di indescrivibile bellezza.
Se la ricordava molto bene. Forse non era riuscito a memorizzare un volto tanto quanto il suo. Se avesse saputo disegnare, lo avrebbe fatto con tale precisione che ne sarebbe uscita fuori una fotografia. Ed infatti era quello che aveva fatto. Il suo ritratto, disegnato da un artista di strada con un carboncino, stava appeso in casa sua.
Alla domanda: chi è quella ragazza?, lui aveva sempre risposto: Una che è venuta a trovarmi in sogno…
Lei era il mistero più impenetrabile del mondo di Fantàsia e che chi lo capiva del tutto avrebbe spento con ciò la propria esistenza, per parafrasare le parole del libro.
Ed infatti, lui non aveva capito tante cose.
Ma non avrebbe avuto senso comprenderle, erano un mistero e così doveva rimanere per sempre.
Sarebbe stato geloso per tutta la vita di questo segreto che avevano in comune.
L’aveva conosciuta in quella libreria così piccola e vecchia. 
Forse era per quello che si era innamorato della ‘bettola speciale’.
E quando l'aveva comprata, le aveva dato il suo nome.
Mitternacht.

Perchè la Storia Infinita sta dentro la Storia Infinita

FINE

 



Non ci posso credere... sono arrivata alla fine!!!! Oh mio Dio... e pensare che quando sono partita mi facevo più lavori di masturbazione mentale che pensavo di diventare cieca. Anzi, a vedere dagli occhiali sul naso e la prossima visita oculistica già lo sono... ma se la mia miopia peggiorerà sarà tutta colpa di questa storia!
Ingarbugliata all'infinito, so che qualcuna di voi non ci ha capito niente e me ne dispiace abbastanza, pensavo di aver fatto un buon lavoro, cercando di spezzare il capello in quattro, ma si vede che non ci sono riuscita molto bene. Sarebbe stato più facile se tutte voi aveste almeno visto il film, ma non posso di certo pretendere una cosa del genere! Figuriamoci!
Spero che il finale non abbia deluso nessuna di voi, avrei quasi voluto non farli tornare insieme, ma purtroppo sono buona e non volevo portare sfiga al gruppo!

Mi sono dimenticata che sia per il capitolo precedente che per questo, al sottotitolo, ho utilizzato strofe della canzone 'Never-Ending Story' di Limhal, cioè della celeberrima soundtrack del film. No per scopo di lucro.


Per quanto riguarda i ringraziamenti finali, faccio un riassunto generale di tutti i baci e abbracci che mando a tutte voi che avete letto, recensito e messo la storia nei preferiti, anche a quelle che mi seguono di nascosto! Non so più cosa scrivervi, ogni volta mi avete sommerso di complimenti e di elogi, non saprò mai ringraziarvi abbastanza! Non ho più parole, tranne una sola:

GRAZIE!!!

anna9223
Arumi_chan
Bell_Lua
Cirbiricoccola
CowgirlSara
dark_irina
drusilla87
Kit2007
Kheth_el
Kltz
LaTuM
Lidiuz93
natalia
picchia
Pikkola Tokietta
revege
sole a mezzanotte
sososisu
starfi
SweetPissy
_Princess_

Che vi devo dire, se non una richiesta -per favore- continuerete a leggermi anche se non scriverò proprio sui Tokio? Ehehe, sto preparando una fic su un gruppo, alcune di voi lo conosceranno, altre non ne avranno mai sentito parlare e, per quello che ne so, sarei la prima a presentare una fanfiction su di loro! Comunque, tanto per farvi capire chi sono, si chiamano McFly e questo è il loro sito http://www.mcflyofficial.com/home/
Tranquille, ho già in preparazione altre storie sui TH, ma per il momento le ho accantonate, torneranno in cantiere prossimamente!
Vi saluto, un abbraccio e un bacio!

-RubyChubb-
   
 
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