Buon salve, gente! Allora, eccomi di nuovo qua, con la mia terza os sterek :) Devo dir che questa è diversa dalle altre, più lunga, molto più lunga delle altre, e... niente, significa molto per me. Spero vi piaccia, fatemi sapere <3 buona lettura (?), Afu.
ps: a voi due, perché l'arcobaleno viene sempre dopo la pioggia, e Jack è un nome bellissimo.
E dopo la pioggia c’è sempre l’arcobaleno.
***
Ed erano
lì, ed erano felici. Ed erano nel loro bosco, nel
loro posto, fra le braccia della propria persona.
Ed erano
lì, ed erano felici. Ed ora è tutto offuscato,
tutto un ricordo. Di quelli che la mente ti ripropone ogni notte, di
quelli che
il tempo non può cancellare, e gli odori continui a
sentirli; sono sempre
presenti, e le risate si trasformano in un pianto, perché
quel ricordo è così
vivido che non è giusto, no, non lo è. Non
è giusto che sia solo un ricordo,
una memoria di cose andate ormai perdute.
Ed erano
lì, ed erano felici.
Incuranti del
mondo, forse per la prima volta veramente.
Incuranti di ciò che la vita gli avrebbe riservato,
incurante della loro
natura, della loro città. Incuranti dei pianti e delle
grida, perché per una
volta volevano essere solo loro due, solo due ragazzi che si amano, due
semplici ragazzi.
Ed erano
lì, e vi giuro, vi giuro che erano felici. Felici
come può essere un bambino, come può essere
l’arcobaleno dopo la pioggia. E
loro di tempeste ne avevano passate. Erano un po’ come un
arcobaleno, sì. Con
tutti quei colori che si dipingevano sulla faccia del più
piccolo, mentre parlava
con l’altro, e guardava i suoi occhi, quegli occhi
così belli, di così tanti
colori, uno per ogni colore dell’arcobaleno.
Mancava solo il
viola, ma Stiles giurava su stesso, che una
pagliuzza in quegli occhi era di quel colore.
E a volte se li
buttavano addosso tutti quei colori. Quando
ridevano e scherzavano, e Stiles si sentiva sempre più
importante e sempre più
orgoglioso, perché quella risata era riservata solo a lui,
ed era il tesoro più
prezioso del pirata più temibile. O quando si urlavano
contro, e i colori
diventavano tristi, e l’arcobaleno se ne andava per un
po’. In quei momenti
Stiles si faceva piccolo, ancora
più di
quanto già non fosse, e urlava, urlava tutto il fiato che
aveva in gola, e in
quelle parole lo supplicava a non smettere di lottare,
perché se lo avesse
fatto, tutto sarebbe finito. Quelle urla che poi si trasformavano in
sussurri,
perché la gola faceva male, e il cuore batteva troppo forte
per respirare
regolarmente, e allora Derek dimenticava tutto; non gli importava
più il motivo
per cui stavano litigando, Stiles stava male e lui non poteva
permetterselo. E
in quel momento il suo cuore si macchiava un po’ di nero, e
sporcava quel rosso
vivo che solo Stiles era riuscito a donargli.
E si diceva che
era tutta colpa sua, che aveva
sbagliato a farlo entrare nella sua
vita. E pensava a come fare per allontanarlo, per riuscire a vivere
senza di
lui, per poter finalmente smettere quel supplizio, perché
Stiles stava male,
tremava, e lui era grande e grosso per nulla, perché le sue
braccia non
riuscivano a contenere tutte quelle emozioni.
Ma
l’arcobaleno ritornava, come sempre dopo la pioggia, e
Stiles alzava lo sguardo, e semplicemente diceva «no.»,
perché chissà come Stiles capiva sempre i
pensieri di Derek.
E allora
tornavano ad essere lì, ad essere felici. E
l’arcobaleno si ergeva alto in cielo, e tutta Beacon Hills
guardava la sua
bellezza con i nasi all’insù.
Ed è
questo che alla fine è l’amore; è una
tempesta dopo
l’altra, pioggia, tanta, tantissima pioggia che entra
ovunque, s’infiltra nelle
pareti e fa cadere palazzi pieni di muffa, che poi risorgeranno,
perché
qualcuno prenderà quell’edificio e gli
darà nuova vita, e la pioggia cesserà,
perché se inizia deve finire, e allora in quel cielo azzurro
ci saranno quei
colori, gli stessi che disegnavi quando eri piccolo e stavi attentissimo a non invertire
l’ordine,
come se, se avessi sbagliato un solo colore la magia sarebbe volata via.
Rosso,
arancione, giallo, verde, blu e viola.
E
forse è vero.
Forse gli amori,
quelli che durano, sono quelli in cui
l’arcobaleno ha sempre gli stessi colori, sempre nel giusto
ordine.
Sono quelli in
cui si ci impegna a non sbagliarli, a
colorare bene e non fuori dai bordi.
E i loro
arcobaleni erano i più belli, i più vivaci.
Stiles si
impegnava con tutte le sue forze, così come Derek.
Ci provavano e
provavano, solo che succede che una volta
Derek sbaglia un colore, e un tuono squarcia il cielo, e gli occhi di
Stiles si
fanno immediatamente lucidi.
Era una cosa che
Derek non sopportava di Stiles; aveva la
capacità di far diventare i suoi occhi lucidi in un nano
secondo, e poi farseli
passare nell’attimo dopo. E Derek soffriva da morire in quel
breve attimo. E
allora succede che Derek posa il colore sbagliato, alza lo sguardo e
nota che
Stiles non è riuscito a fermare le lacrime, e ora stanno
inondando il disegno,
mischiando tutti i colori.
E no,
no!, urla. Stai attento! Stai
mischiando tutti i
colori! L’arcobaleno si sta rovinando, Stiles!
Solo che succede
che ormai il gioco è stato fatto, e da quel
bel disegno sgocciolavano colori e lacrime.
Ed erano
lì, ma non erano più felici, perché
quella era
stata la stagione più piovosa a Beacon Hills, e tutti erano
tristi perché il
cielo non si faceva più azzurro, e non c’era
più l’arcobaleno da vedere con il
naso all’insù.
E faceva freddo,
tanto freddo. E Stiles non sapeva più come
coprirsi; usava ogni coperta a disposizione, la sua,
quella di sua madre, ma sentiva sempre freddo. E Derek quasi
godeva del freddo, e stava sempre con la sua canottiera, e lasciava
tremare i
muscoli e ammalare il corpo, per quei pochi istanti in cui il suo corpo
poteva
ammalarsi.
È
strano come il tempo riesca a passare. È incredibile come
alla fine il cielo si stanchi, e ritorni azzurro per conto proprio.
È così
strano e ingiusto come le cose vadano avanti anche quando non
dovrebbero. Ed è
così ingiusto che le cose belle finiscano, perché
a volte non se lo meritano, e
non potrebbero durare per sempre?
E Stiles
è cambiato; è cambiato talmente tanto che suo
padre
a volte non riesce nemmeno a guardarlo negli occhi. Semplicemente lo
saluta e
passa avanti, perché quella visione gli fa male, e ormai lui
è anziano, e il
cuore fa capricci, e non vuole fargli del male più di quanto
già non abbia
sofferto. Perché Stiles è cambiato, e il suo bel
naso non è mai più stato
all’insù, e ha smesso di disegnare, sorridere.
È andato avanti solamente perché
gli anni sono passati, e il suo corpo è cambiato, e ha preso
un diploma e una
laurea, e ormai è una persona rispettata, e ha una moglie, e
un suo percorso.
E chi lo conosce
da prima non lo riconosce, e chi lo conosce
da dopo quel tuono crede che sia una normale persona. Senza capire che
lui non
lo è mai stato, e mai lo sarà. Perché
lui è Stiles, e solo il suo nome
lo riesce a descrivere.
Perché
se chiedi a Scott di descriverlo, prova a spiegarti
con le sue parole affrettate, e si gratta la testa perché diamine se è difficile spiegare Stiles,
e alla fine dice
semplicemente che Stiles è Stiles,
è un
pianeta ancora non scoperto, è una seconda luna nascosta
dalla prima, è così
tante cose che non si può spiegare o classificare: Stiles
è Stiles.
Solo
che ormai Stiles
non è più Stiles, e dentro di sé si
sente perso. Come in un labirinto senza
uscita, come in un perenne nero e lui non vede niente, e vorrebbe
semplicemente
trovare la via per scappare da lì, e gli andrebbe bene pure
affrontare la
realtà e soffrire.
Perché
da quel tuono, Stiles si è chiuso con lucchetti e
catene. Ha preso il proprio sé e se l’è
ficcato in una parte nascosta del
corpo, si è alzato da quel letto e ha iniziato a vivere
senza sé stesso.
A volte gli capitava
di sentire quel suo piccolo sé urlare, chiedergli perdono,
ammettere che era
solo colpa sua se il suo cuore ormai era viola scuro, e si scusava se
anche
quello gli ricordava i suoi occhi.
A volte capitava
che Stiles prendesse in mano quel suo
piccolo sé, nei momenti in cui era solo, e la nostalgia era
troppa per lasciar
correre. Se lo metteva adagiato sulle mani, e si faceva raccontare
tutti quei
ricordi che di giorno provava a dimenticare. E lo faceva parlare,
parlare. E
quel suo piccolo sé respirava, e alla fine gli chiedeva di
ritornare in vita,
di lasciarlo libero. Ma Stiles non l’aveva mai fatto. Se lo
richiudeva dentro
quell’angolo angusto, e andava a lavoro. Camicia e cravatta.
Pantalone elegante
e un’utilitaria.
Niente jeep
azzurra. L’azzurro era nell’arcobaleno, non era
consentito.
E la vita andava
avanti, anche se no, non doveva.
Gli occhi di
Derek sono quelli che si dicono essere
cangianti. Cambiano in base al tempo, o all’umore. E non solo
perché lui è un
lupo mannaro e quando si arrabbia gli occhi gli diventano rossi.
Stiles aveva
imparato a distinguere e classificare ogni loro
sfumatura in base alle situazioni.
C’erano
gli occhi luminosi e più verdi, con del giallo
vicino alla pupilla quando Derek era felice, o rideva.
C’erano
gli occhi spenti, sul grigio e verde macchiato di un
po’ di azzurro, quando Derek era triste.
Ed era con
quegli occhi che Stiles lo aveva conosciuto, e si
era ripromesso che in quel bel viso avrebbe messo su gli occhi luminosi.
E ci era
riuscito. Solo lui. Dopo lei.
E ora i suoi
occhi sono ancora più spenti, e il verde quasi
è andato via, e quando si arrabbia gli occhi non sono
più rossi, ma azzurri,
perché ha perso ogni potere, per
ricordargli quello che ha fatto.
Ogni giorno
della sua vita, ogni volta che la sua natura la
fa’ da padrona.
Derek non sa
bene il motivo per cui non è più stato un
Alpha. Sa solo che un giorno si è svegliato, e gli occhi
erano azzurri. Di
nuovo.
E il suo potere
era dimezzato, come se non avendo più Stiles
accanto, la ragione per cui aveva bisogno di più forza non
c’era più.
Come se fosse
diventato più forte perché doveva proteggerlo,
e una volta andato via quello scopo era inutile.
E Derek si
dannava, si dannava, perché quella forza in più
non l’aveva chiesta, e non la voleva, e se quel giorno aveva
messo quel colore
sbagliato era stato proprio per colpa di quella forza in
più. Di quei muscoli
pompati, di quel sangue che non gli arrivava al cervello.
Di quella parola
di troppo, e di tutte quelle in meno.
Perché erano sempre così poche le parole che
Derek diceva. E a Stiles andava
bene, perché sapeva che quelle poche che gli venivano dette,
erano così piene
di significato.
Solo che a volte
capita di dire sciocchezze anche a chi
parla poco, e quel giorno Derek ne aveva detta una.
E i bordi si
macchiarono di un colore non giusto, e quel
tuono, quel tuono lo sveglia ogni mattina, e vorrebbe tanto piangere,
ogni
giorno, ogni mattina, vorrebbe lavarsi via quel colore, quel nero, e
urlare al
mondo che il nero non è nemmeno un colore, e non
può avergli rovinato la vita.
Non di nuovo.
Non quando si
era ripromesso di non fare più lo stesso
errore.
E quegli occhi
sono di nuovo azzurri, di un azzurro ancora
più acceso, perché di persone sulla sua coscienza
non c’è n’è solo una, ormai.
Succede che un
giorno Stiles si sveglia di soprassalto da un
sogno, e sua moglie non lo nota nemmeno.
Allora si alza,
va in bagno, e si butta addosso un po’ di
acqua fredda. E si guarda allo specchio, e nota lacrime che non aveva
sentito
scendere sulle proprie guance. E si chiede cosa stia facendo della sua
vita, e
il ricordo di quel giorno è così prepotente che
chiude a chiave la porta, e si
lascia cadere a terra.
Gli
Alpha erano stati eliminati, finalmente. Derek era tornato
l’Alpha indiscusso
di Beacon Hills, e Scott non notava la sua natura, non volendo tutto
quel
potere.
Era
una sera, e come sempre Stiles era al loft di Derek.
Stavano
insieme da un anno, ormai. L’indomani avrebbero compiuto
trecentosessantacinque
giorni – Stiles amava dirlo così,
perché un anno sembra niente, ma
trecentosessantacinque giorni sembrano un’eternità
- e non vedeva
l’ora di festeggiarlo con Derek.
Sapeva
che non avrebbero fatto chissà cosa; sapeva che non
l’avrebbe portato fuori a
cena, che non gli avrebbe regalato niente, e che sicuramente non
l’avrebbe
nemmeno ricordato.
Ma
alla fine non gli importava granché. Certo, un po’
gli dava fastidio, però
aveva accettato Derek in ogni cosa, e quindi non poteva ora ribellarsi,
o
rimanerci troppo male.
Derek
era fatto di pochi gesti, e per niente eclatanti. E loro erano fatti di
«stai
attento.» e «Per favore non morire
stasera.». Erano un continuo aspettare con
il cuore in gola, continue urla perché degli artigli si
conficcavano con troppa
forza nella pelle. Erano fatti di corse per salvare l’altro,
in quello strano
gioco che era stato loro sin dall’inizio. Quel salvarsi senza
spiegarsi il motivo,
semplicemente perché una vita senza l’altro non
riuscivano ad immaginarla. E
poi tutto quello si era trasformato in amore, e avevano finalmente
capito un
bel po’ di cose.
E
certo, era difficile amare Derek. Era un continuo scappare lontano,
perché ti
fa male e lui non vuole. Un continuo avere lune storte, soli e palle
girate, sbuffi
e ringhi.
Ma
era anche abbracci di notte, per fortuna. Era anche lacrime quando
trovava
Stiles vivo, intero, e dopo avergli urlato tutte le più
brutte parole, perché
quante volte gli aveva detto di non cacciarsi nei guai?, lo teneva
stretto a sé
e nessuno si poteva avvicinare.
Era
anche sussurri dolci, e mani esperte.
Era
tutto quello che a Stiles andava bene.
E
quel giorno, quel trecento sessantacinquesimo giorno era arrivato, e
Stiles
aveva addosso la sua felpa rossa. Capelli più lunghi, stessi
nei e stessi occhi
da cerbiatto.
E
Derek con la sua stessa canottiera verde, gli stessi jeans e lo stesso
sguardo
ferito di sempre.
E appena arrivato in quel
loft, Stiles aveva
capito che qualcosa non andava.
«Che
succede? Qualche altro Alpha? Vampiro? Cacciatore? Kanima? Che
cos’altro ci
aspetta?»
«Mi
aspetta, Stiles. A me spetta, a te non spetta niente.» il suo
tono era grave,
di quelli che non vogliono repliche.
«Non
ricominciare, e dimmi cos’è stavolta.»
Stiles faceva di tutto per rimanere
serio e non urlargli addosso che voleva solo essere felice, solo quel
giorno.
«Vedi?
Stavolta. Ci sarà sempre un’altra cosa, e dopo
un’altra ancora. Sempre. E tu
quanto potrai resistere?»
«Sono
forte, e lo sai! Sono sopravvissuto alla qualunque!» Stiles
si stava adirando.
Non si era ricordato che giorno era. E per di più stava
facendo uno dei suoi
soliti discorsi.
«APPUNTO!
Sei sopravvissuto! Stiles, sopravvissuto! Tu non devi sopravvivere, tu
devi
vivere!» i muscoli di Derek fremevano e le urla facevano
spaventare gli
uccelli.
«E
allora fammi VIVERE! Fammi vivere! Ma non spetta a te scegliere come io
debba
vivere! A me questa vita va bene, cazzo! Derek! Perché devi
rovinare sempre
tutto?!»
«Perché
io non ti faccio vivere, io ti faccio sopravvivere, a stento. Ti faccio
annegare per poi prendere aria, ti faccio correre fino a che i tuoi
muscoli non
diventino doloranti e
allora ti prendo
in braccio. Ti porto allo stremo e poi ti calmo. Ti porto al largo per
poi
andare alla deriva.»
«E
a me va bene, Derek. Ti prego, a me va bene…» il
suo era un sussurro.
«Ma
a me no. Non più. Ho sbagliato.» glielo disse ad
occhi bassi, a braccia
conserte.
E
poteva giurarlo, aveva sentito il cuore del più piccolo
rompersi.
Ci
fu un silenzio glaciale, poi Stiles sbuffò e si
avvicinò a Derek.
«Non
ti prego più. Quante volte abbiamo avuto questa discussione?
Quante volte ho
pianto? Quante volte tu hai distrutto un muro? È sempre la
stessa storia, da un
anno a questa parte. Anzi, proprio oggi facciamo un anno.
Trecentosessantacinque giorni di queste urla, e a me andava bene. Ero
felice.
Avevo trovato il mio posto nel mondo, ma non posso più
continuare così. È come
combattere uno zombie cercando di ucciderlo. È come parlare
ad un sordo o
provare a farti capire che non m’importa andare al largo, che
non m’importa
avere tutto il corpo che mi fa male, o annegare, proprio
perché so che arrivi
tu e mi salvi. Ma non l’hai capito, e mai lo farai. E io sono
solo un
ragazzino, e grazie. Grazie per aver rovinato questo momento. Grazie
per questi
trecentosessantacinque giorni, grazie per avermi dato il permesso di
entrare
nella tua vita. Ma se non capisci la reale importanza di tutto questo,
Derek,
ti dico che ti amo, e che non mi vedrai più.»
Derek
non riusciva a parlare. Il suo cuore aveva fatto un rumore assordante,
ed ora
dentro di lui c’era solo silenzio. Come in quel loft, come
nel mondo intero,
come se tutti fossero rimasti in silenzio ad ascoltare le parole del
piccolo
uomo. C’era il rumore della pioggia, e niente più.
«No,
Stiles… no.» farfugliava Derek, non sapendo cosa
dire, cosa fare.
Aveva
rovinato tutto. Lui lo voleva solo proteggere! Voleva solo il meglio
per lui!
Possibile
che fosse davvero al proprio fianco, il meglio?
«Sì,
Derek. Addio.» Stiles si sporse verso di lui, e gli diede un
bacio sulla guancia.
L’ultimo. Non capiva dove avesse trovato il coraggio, e la
forza, e dopo gli
diede le spalle ed uscì da quel loft, in silenzio.
Così
come Peter trovò suo nipote, con gli occhi ancora sgranati,
ancora a braccia
aperte, mentre guardava la porta sperando che Stiles entrasse, e gli
portasse
uno di quei peluche imbarazzanti che si comprano in quelle occasioni.
Così
come quello che aveva comprato lui, per Stiles.
Stiles si
ritrovò ad avere un attacco di panico.
Erano anni che
non ne aveva uno.
La stanza
ruotava a tremila, il cuore pompava troppo sangue
e il respiro era assente.
E doveva
calmarsi, doveva farlo o sarebbe stata la fine.
Allora pensava a
Scott, a quando era piccolo, a sua madre.
Ma niente, non si calmava, e il tempo scorreva, e non era mai andato
così
veloce.
E poi si
ricordò il discorso che uno Scott adolescente gli
aveva fatto, in camera sua. Qualcosa sull’àncora,
sul fatto che questa riusciva
a mantenerlo umano durante la luna piena.
E allora
pensò alla sua àncora, pensò a Derek,
ai loro
giorni felici, e se era stato proprio il ricordo del loro addio a
procurargli
quell’attacco di panico, solo il viso duro del lupo
riuscì a calmarlo, facendo
passare l’attacco.
E nel frattempo
nessuno, in quella casa, si era accorto di
niente.
E Stiles doveva
andarsene da
lì.
Prese la sua
utilitaria, e guidò all’impazzata verso Beacon
Hills, e una volta arrivato lì non si fermò a
casa di suo padre, né da Scott.
Continuò dritto, e prese la stradina che lo avrebbe condotto
al bosco.
Si ricordava
come fosse facile, con la sua Jeep,
attraversare quel percorso. Cosa che, con la sua utilitaria, non gli
riusciva
di niente.
La
parcheggiò in malo modo, mandandola al diavolo, e
continuando la strada a piedi.
E si
ritrovò lì. Davanti quella casa fatiscente,
memore di
così tanti ricordi, così contrastanti tra di loro.
Ricordò
la prima volta che vide Derek, e gli scappò da
ridere.
Il suo piccolo
sé stesso urlava, e gli chiedeva di uscire
fuori, perché quel bosco gli mancava come l’aria,
e quegli odori non poteva
trovarli da nessuna parte. E così fece, lo
liberò, ed entrambi finirono seduti
sulla terra, a gambe incrociate, a guardare assorti quella casa,
cercando
chissà quale verità, e provando a riavvolgere
indietro il tempo, come un nastro
rotto in cui si deve trovare il punto di rottura.
E Stiles se lo
chiese davvero, che cosa in tutto quello
fosse andato storto.
E sì,
si ricordava perfettamente il perché lui lo avesse
lasciato. E sì, si ricordava perfettamente ogni istante,
ogni rumore di cuori
rotti.
Si chiedeva
semplicemente il perché, il perché di tutto
quello. Il perché la loro storia non era riuscita a superare
quell’ostacolo,
dopo tutti i mostri che avevano distrutto.
E forse, forse
era proprio quello. Sfogavano ogni loro
problema su quelle minacce, e poi vivevano quei pochi attimi di calma
senza
nemmeno parlarsi, perché non volevano rovinarli per niente
al mondo.
E quando tutte
le minacce erano state sconfitte, non aveva
più modo di sfogare i propri problemi, e parlavano ancora in
due modi così
differenti.
Forse,
Stiles si incolpava, non ho lottato
abbastanza.
Forse
sarebbe potuto andare tutto diversamente, o forse la fine sarebbe
arrivata lo
stesso.
E il suo piccolo
sé stesso lo guardava, comprensivo, e gli
spiegava che non era stata colpa sua, almeno non tutta.
Perché la colpa sta nel
mezzo, ed ognuno di loro aveva le proprie colpe.
Perché
Stiles magari poteva combattere un po’ di più, e
Derek amarsi quel tanto che bastava.
Ma ormai non
c’era più niente da fare. Era passato
così
tanto tempo, e la vita era così diversa.
Stiles portava
una fede. Aveva giurato amore eterno per una
donna.
Come poteva
correre dal lupo?
E la tristezza
riprese il posto a lei dedicato, e fece
alzare Stiles da terra, salutare quel suo piccolo sé stesso,
e avanzare verso
la sua macchina.
Che, poi, gli
faceva pure un po’ schifo.
Così
si allontanò da quel bosco, da quei ricordi e da quel
sé stesso.
L’aveva
lasciato andare, libero di riprendere in mano quella vita che a Stiles
era
sfuggita.
E quando un
grande lupo attraversò quei boschi, quasi
svenne. Il suo odore era
così
presente, pregnante, intossicante.
Gli
entrò dentro il cuore, nelle narici, nel cervello. Ci
fece quasi muffa, là dentro, per quanto prepotente
quell’odore potesse essere.
E se ne
beò, oh, se lo fece. Rimase lì, a guardare quella
vecchia catapecchia, nella stessa posizione in cui era stato Stiles
qualche ora
prima, perché anche se la vita ormai era diversa, anche se a
dividerli erano
gli anni e chilometri, riuscivano ad essere legati come a quei tempi.
E sospirarono,
nello stesso istante, uno lontano dall’altro,
come se fossero stati maledetti da chissà quale stregone,
costretti a stare
lontani. Ad andare nello stesso posto in orari diversi, un
po’ come il treno
che ritarda sempre. A vivere una vita che non volevano vivere, ad amare
qualcuno che non si
voleva amare e
direttamente non amare nessuno, perché chi si sarebbe
più permesso di avere a
che fare con Derek? Non potevano certo competere con il ricordo di
Stiles, di
quel ragazzino, tutto occhi e felpa rossa, ricordando così
tanto cappuccetto
rosso, e anche in quel caso lui si ritrovava a ricoprire il ruolo del
lupo
cattivo.
E allora, in
quei casi, pensava che magari aveva pure fatto
bene a farlo allontanare da lui. Che quello che era successo, fosse
stata una
buona cosa, per Stiles.
Che avesse fatto
la scelta giusta.
Come se, poi, ce
ne fosse realmente una, di scelta giusta.
Rimase
lì tutta la notte, per niente stanco, continuando a
fissare quella casa ormai in rovina, chiedendosi come sarebbe stato se
gli
avesse dato nuova vita, e se, trovando la casa così
accogliente, Stiles sarebbe
entrato per bere una cioccolata.
E
così
fece.
Ristrutturò
la casa, sin dalle fondamenta. Dava ordini a
destra e a manca, e Peter a volte andava a far visita al nipote per
vedere come
stessero andando i lavori.
Era da un
po’ che a Beacon Hills era tornata la pioggia,
fitta e costante. Un po’ come quella terribile stagione che
l’afflisse anni
prima. Per questo i lavori andavano a rilento, ma a Derek non
importava.
L’importante è che fosse nuova, stabile, e pronta
ad ospitare qualcuno.
Che non ci fosse
nessun qualcuno,
poco importava.
Derek lo doveva
a sé stesso, ai suoi ricordi, alla sua
famiglia, e a lui.
Perché
alla fine, tutto, nella sua vita, si riconduceva a
lui.
Lui che lo aveva
salvato, lui che lo aveva reso un bambino,
un adulto e un adolescente nello stesso tempo. Lui che aveva fatto
ricominciare
a far battere quel suo cuore bruciato. Lui che ci aveva sperato, ci
aveva
sperato con tutte le sue fragili ossa, in quell’amore.
E lui, che
stremato lo lascia andare, perché Derek gli stava
togliendo ogni fibra del proprio essere.
Ma mi
sono un po’ stancata di raccontare come i loro cuori fossero
distrutti, e le
loro vite così vuote. Posso decidere cosa raccontarvi, cosa
farvi vedere e cosa
no.
E
allora vi porto direttamente al momento in cui quella casa fu finita,
con un
grande salto a piedi uniti.
Tenetevi
stretti, potreste cadere.
Era davvero
bella. Così imponente, Derek era riuscito a
donargli la gloria di un tempo, e il suo tocco aveva dato quel qualcosa
in più.
Aveva arredato
ogni singola stanza, come se ci fosse ancora
la sua popolosa famiglia a viverla. Ogni stanza aveva un letto, ognuno
diverso,
così come ricordava fossero i loro gusti.
Magari era da
sciocchi, tutta quell’attenzione per delle
stanze che non avrebbe utilizzato. Magari sarebbe stato meglio renderle
tutte
una grande palestra, ma aveva il bosco, Derek, e cosa poteva chiedere
di più?
A Stiles casa
propria non piaceva; era anonima.
In un quartiere
niente male, su un edificio né antico né
moderno. Pitturato di colori neutri, con divani classici e una normale
cucina
nemmeno tanto grande.
In effetti era
da un bel po’ che Stiles non cucinava; non ne
aveva più voglia, semplicemente.
Come se questo
fosse un fatto normale, poi. Come se la sua
rinuncia a tutto ciò che gli faceva del bene fosse una cosa
regolare, una cosa
che sarebbe successa lo stesso, con il tempo che passa.
Sua moglie, quel
pomeriggio, non era a casa. E lui era
ritornato appena dal lavoro, e non entrò nemmeno a casa.
Fece inversione e
prese la strada per Beacon Hills.
Come la volta
precedente – troppo lontana, in realtà, per
poterlo dire – non andò a casa di suo padre,
né tantomeno da Scott.
Guidò
dritto verso il bosco. Parcheggiò la macchina fuori
dalla stradina e iniziò la camminata.
Stare
là lo calmava, in una maniera strana. Era come se il
suo corpo la smettesse di combattere all’infinito, come se la
maschera che
aveva addosso semplicemente scivolava e permetteva alla pelle di avere
un po’
di pace.
Era come se quel
posto fosse suo in ogni fibra del suo
essere, e il suo corpo lo riconosceva all’istante.
Come quando ti
senti al sicuro solo nella tua stanza, e per
quanto sai che è una cosa sciocca, appena chiudi la porta ti
scappa un sospiro
di sollievo.
E Stiles stava
sospirando, libero.
E camminando non
si accorse di ciò che aveva di fronte. E
quasi si chiese se avesse sbagliato strada, anche se la risposta era
ovvia.
Poteva camminare per quel bosco anche bendato e con una molletta a
tappare il
naso; sarebbe sempre arrivato lì.
Ma qualcosa non
quadrava. Quella che
aveva davanti non era più la vecchia
solita catapecchia.
O almeno, era la
solita vecchia catapecchia, solo più bella e sistemata.
Nessun legno bruciato,
nessun buco nel tetto.
Era, ma
era come se non lo fosse più.
Stiles si
sentì strano. Come se solo in quel momento si
fosse accorto realmente di quanto tempo fosse passato.
Perché
se un qualcosa del tuo passato rimane così
com’era,
tu ti aggrappi ad essa, pensando che in fondo non tutto è
cambiato, se quella è
ancora così com’era prima che tutto finisse.
Ma se anche
quell’ultima cosa del tuo passato cambia, muta
forma, tu vieni sbattuto di forza contro la verità.
E la
verità era che era passato troppo tempo.
Troppi anni,
troppe cose diverse.
Troppe, troppe
che il suo cuore non le regge più, così come
le gambe, e gli sta per venire un altro attacco di panico, Stiles lo
sa, e si
rivede un piccolo diciasettenne contro il mondo, ad urlare e
combattere. E si chiede
dove sia finito, respirando male, toccandosi dappertutto
perché no, non lo
trova, e si sente perso. E vorrebbe non aver liberato quel suo piccolo
sé
stesso, perché ora è solo come non aveva ancora
capito di essere, e quest’attacco
non accenna a placarsi, e tutto gira troppo velocemente, tanto che
quella nuova
bella catapecchia ritorna ad essere fatiscente come un tempo, e lui si
ritrova
addosso una felpa rossa come quelle che non compra più da
tempo, perché sua
moglie le trova ridicole, e lui ormai è un uomo adulto.
Solo che a volte
la vorrebbe mettere di nuovo. Vorrebbe
tirare su il cappuccio, e sperare che nessuno lo noti,
perché quei graffi fanno
male.
Vorrebbe
solamente avere con sé quella felpa, e la sua jeep,
e sentirsi ancora invincibile in quei vestiti che non cozzavano per
niente.
Vorrebbe
ritrovarsi più piccolo, guardarsi allo specchio,
chiedendosi se fosse mai possibile amare Derek Hale.
E vorrebbe
ritrovarsi, per rispondersi che sì, era possibile
amare Derek Hale, e lui lo avrebbe fatto con tutto il suo cuore, con
ogni pezzo
di sé, fino a frantumarsi.
Ed era
così che si sentiva, in quel momento, Stiles.
Frantumato.
Fatto a mille pezzi dal tempo che scorre, e
cazzo no!, non dovrebbe scorrere.
Dovrebbe tornare
indietro, come quella bella canzone dei
Coldplay, e permettergli di aprire quella porta, con fare teatrale, e
dire a
Derek che quella era davvero l’ultima volta, e aspettare che
quest’ultimo gli
andasse vicino e si scusasse. Perché in fondo, a Stiles
erano sempre piaciute
le scuse di Derek.
E si sarebbe
fatto dare quel peluche che non ha mai
ricevuto, e avrebbe pianto di gioia, perché Derek se
n’era ricordato, ed era
una continua sorpresa, con lui, e Stiles si sarebbe ripromesso di
parlargli più
spesso, e di abbracciarlo di più, perché se lo
meritava.
Invece niente
era andato così, e nel frattempo Stiles ha un
attacco di panico che non riesce a calmare, e non
c’è nessuno in quel bosco
pronto a soccorrerlo. E vorrebbe urlare, o ululare, o qualunque cosa lo
faccia
sentire ad altre persone.
Ma basta il suo
cuore, che batte all’impazzata. Perché Derek
ha il super udito, e quel cuore lo riconoscerebbe tra milioni.
Allora corre,
corre. Corre per tutto il bosco, utilizzando
tutta la velocità che ha in corpo. E per una volta si
ritrova stanco, e guarda
Stiles seduto a terra, con le mani sul viso, cercare di regolarizzare
quel
battito che non ne vuole sapere di calmarsi.
E Derek deve
fare qualcosa, deve. E sta piovendo, piovendo
di brutto. I vestiti di entrambi sono fradici, e domani Stiles
avrà un bel
raffreddore, ma per il momento ci sono solo loro due, come da tempo non
succedeva.
Quindi Derek si
siede, accanto a lui, e gli prende la mano.
E vorrebbe piangere nel vederla così grande e robusta.
E gli sussurra
che va tutto bene, che è con lui, che non se
ne va.
E funziona,
perché il battito di Stiles si regolarizza, e le
ossa smettono di tremare. E fanno un male cane.
E sì,
Stiles domani avrà un bel raffreddore.
E si guardano,
negli occhi, e Stiles rimane sorpreso di
sapere che quella pagliuzza viola c’è ancora, e
quasi ride.
«La
casa…» sussurra, ancora con il fiatone.
«L’ho
ristrutturata.» risponde Derek, guardando le loro mani
unite.
«È
bella.»
«È
per te.»
E ogni parola
che ci potesse essere, muore in gola a Stiles.
Perché quella casa era per lui, proprio come avevano detto
tanto di quel tempo
prima che sembra fosse passato un decennio.
E forse era
davvero così.
«Ti
ricordi ancora?» gli chiede, non riuscendo a muoversi.
Al diavolo il raffreddore, al diavolo la febbre o la polmonite. Davanti a sé ha
Derek. Derek Hale.
Il suo Derek Hale.
«Non
potrei mai dimenticare, Stiles.» e il suo nome
sussurrato da quella voce fa l’effetto desiderato, e Stiles
si ritrova a
piangere fra sue braccia.
E non sa
più se quelle che sente sopra di sé sono gocce di
pioggia o lacrime.
«Entriamo.»
gli dice Derek. Alzandosi, prendendolo per mano,
e camminando lentamente.
Una volta
entrati dentro casa, la pioggia cessa.
E tutta Beacon
Hills si ritrova con il naso all’insù,
perché
un arcobaleno come non c’era da tempo è ritornato
a colorare il cielo, e Scott
sorride felice.
Il
suo
migliore amico è tornato, finalmente.
E non importa quanto
dovrà essere difficile ritornare lì,
licenziarsi dal lavoro e separarsi dalla moglie. Non gli importa,
nemmeno un
po’. Perché ora si guarda allo specchio, e si
riconosce. E quando chiede a
Derek il motivo per cui lo avesse aspettato per tutto quel tempo, senza
andare
avanti, lui gli risponde «Perché tu sei tu,
Stiles, e nessuno può essere come
te.»