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Autore: Utrem    23/08/2013    5 recensioni
Due punti di vista diversi di due ragazzi ci illustrano quanto a volte sia difficile trovare e apprezzare persone compatibili con le nostre richieste.
Partecipa al concorso "Finiamola!" di (Gaea); a lei vanno i crediti della frase finale.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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                                               NON CREDO




I - G

“Che bello è ‘sto divano?! Ahahah!“.
Che imbarazzo.
Stravaccata com’era, cominciò a giocare facendo aderire le suole delle scarpe alla superficie dei cuscini, avanti e indietro, per emettere quel rumore buffo simile a un fischio che si fa quando si scivola su alcune superfici, come i gonfiabili.
Faceva rimbalzare sul cuscino prima una guancia e poi l’altra senza sosta, come se avesse sofferto di qualche problema respiratorio. Peccato che fosse soltanto un’ebete.
Due calcetti con una gamba e scagliò un sandalo ai piedi della libreria, provocando la caduta d’un libro maturo, in bilico sul secondo ripiano.
Due calcetti con l’altra gamba e un sandalo sfrecciò sul tavolo per poi capitombolare sul parquet, portandosi dietro il centrotavola ricamato bianco.
Bene! Ora che s’era liberata anche delle scarpe, il suo lato bestiale, dopo questi primi scossoni, era in grado di sfondare le barre della gabbia e agire in completa libertà.
Sprofondò entrambi i piedi nel cuscino più vicino. Anche questo era un gioco: difatti, appena li sollevava, si dilettava a vederne l’impronta, che poi, pian piano, scompariva. Una prova d’arguzia a dir poco impressionante.
Evidentemente le piacevano i suoi piedi. Infatti, passò cinque minuti buoni a spulciarseli per verificare lo stato dello smalto, poi li affondò nuovamente nel cuscino ed infine li afferrò per mettersi seduta a gambe incrociate.
Poi?
Poi afferrò una ciotolina piena di patatine ed iniziò a papparsele, arraffandole a mucchi con ambo le mani.
“Vuoi?“ mi chiese, quando ne erano rimaste due.
“No, no, grazie.“ Fui tentata dal dirle che non m’interessava sbafarmi i batteri della pianta dei suoi piedi, ma eroicamente mi trattenni.
Pochi minuti dopo finalmente tornò lui, aprendo un varco nelle tenebre.
“Ou, Fede! Ma te le sei mangiate tutte?!“ esclamò, divertito, strappandole la ciotolina dalle mani.
Lei nemmeno rispose: in compenso iniziò a ridere con la bocca piena, sputacchiando briciole ovunque ogni volta che riprendeva fiato.
“Non dovremmo cominciare a lavorare?“ proposi io spazientita. So che quella non fu la maniera giusta di porsi: avrei dovuto prendere parte al gioco e ridere con loro, ma lei mi dava troppo sui nervi.
Nessuno si degnò di ascoltarmi e, tantomeno, di replicare.
Fradicia di vergogna, mi rintanai, con passo felpato e timoroso, nella camera di Filippo e presi a tirar fuori la roba: astuccio, quaderno, squadre e normografo per i disegni tecnici. Non osai nemmeno guardare la camera nel suo insieme, vedere com’era fatta: percepivo tutto, tutto quanto avesse a che fare con lui come estraneo ed irraggiungibile - così come lui, fisiologico - e dopo che ebbi, per sbaglio, preso un colpo nello spigolo della sua scrivania, mi scrutai il gomito quasi come se fossi appena stata contaminata da scorie nucleari.
Essere finita nello stesso gruppo di Filippo era una bella coincidenza. Peccato che non riuscissi ad approfittarne nemmeno per farci due parole.
Di solito, quando si fa una ricerca a gruppi bisogna consultarsi almeno un minimo con gli altri per dividere il lavoro, confrontare ciò che ciascuno ha fatto ed infine accorpare tutto, il che era più che sufficiente per porre le fondamenta di un rapporto anche solo superficiale con lui. Ma non stavamo lavorando, e quindi…
Ricordo d’essermi accasciata sul tappeto ai piedi del letto ad aspettare, rimuginando su tutte le possibilità d’incontro che non avevo sfruttato nei giorni precedenti.
La sveglia sul suo comodino ticchettava, ma non mi faceva compagnia. Anzi, balzava sul lobo del mio orecchio e ripeteva con voce fredda e cantilenante in direzione del mio timpano: “ Vedrai che adesso arriva. Vedrai che adesso arriva. Vedrai che adesso arriva.“ Mi ricordava tanto la voce della donna che in stazione annuncia l’arrivo del treno. Quella in verità non mi sussurrava proprio niente, ma neanche il treno è qualcosa che arriva quando lo desideri. Ora che ci penso, questo potrebbe essere un tratto in comune delle due situazioni.
Per chissà quale motivo bizzarro però, quando fu davvero sul punto d’arrivare la sveglia non lo sussurrò più.
“Ehi, Greta! Ma sei rimasta tutto il tempo lì per terra? Non ti siedi?“ si rivolse a me premuroso Filippo, sulla soglia. Gli brillavano gli occhi al sole – siano benedetti quella finestra aperta e quel raggio di sole – e sorrideva, ma senza la malizia tipica dei ragazzi.
“Sì, sì“ risposi io, velocemente perché non sentisse la mia voce imbarazzante. Stando attenta a non fare nulla di anomalo o che potesse apparire ridicolo, mi sedetti sul suo letto.
“ Puoi anche sederti su una sedia… lì ce n’è una “ mi suggerì, sempre con tono di voce apprensivo, da fratello maggiore.
“ Questa va bene “ farfugliai, sedendomi su quella più vicina. Tuttavia, mi dovetti rialzare subito per recuperare la mia roba, sparsa su un mobiletto che, compresi, era la riproduzione di un forziere contenente il tesoro dei pirati. Probabilmente lo aveva avuto in regalo da bambino.
Lui si sedette vicino a me, con una sicurezza che gli invidiai. Agguantò una mia penna per analizzarne la forma a bocca socchiusa ed iniziò a divertirsi a premere rapidamente il pulsantino che faceva fuoriuscire la punta.
Un nuovo ticchettio, con un messaggio nuovo.
Questo fu più rapido: due balzi per attraversare il condotto uditivo e sfiorava già il mio timpano, ripetendo, veloce come una mitraglia e perforante come un martello pneumatico: “Agisciagisciagisci” .
Non lo feci.
Forse parlava troppo veloce e non capivo?
Be’, fatto sta che non combinai nulla e la bertuccia (all’anagrafe faceva Federica, ma identificandola così mi sembra di inquadrarla molto di più) sopraggiunse nella stanza a passi pesanti e con le mani (come dimenticarlo?!) ancora impregnate della floreale essenza della pianta delle sue zampacce.
Manco a dirlo, era scalza!
“Filippo! Non mi aspetti?!“ protestò indignata, fingendo di sciogliere dei nodi nei capelli tinti. Poverina, non ci cascava nessuno: era chiaramente un goffo tentativo di seduzione.  
“Non abbiamo ancora fatto niente!“ replicò lui, allargando le braccia. Era vero!
Lei fece una strana smorfia - una specie di sorriso storto con le labbra tirate - e si sedette vicino a lui, sprofondando con noncuranza il culo nel cuscino della sedia.
“Greta, lo fai tu il lavoro?“ se ne uscì ad un tratto, lasciandomi sorpresa e amareggiata.
Filippo non aprì bocca. Anzi, in realtà parlò: disse "Ahi!” perché lei lo stava punzecchiando con la punta del compasso.
“Non dovremmo farlo insieme?“ obiettai io, con una deficienza di decisione nel tono inarrivabile per tutti e due.
“Sì, va be’… a te piace farlo!“ esclamò lei di rimando. Ora che ci penso non aveva molto senso ciò che aveva detto, ma sul momento mi spiazzò.
Continuava a punzecchiarlo. La punta scivolava sulla fibra della sua felpa, emettendo un suono simile a quello delle suole delle sue scarpe sul cuscino del divano prima. Lo faceva ritmicamente.
Sembrava un ticchettio.
Ed effettivamente lo era, scoprii, perché anche questo aveva da dirmi qualcosa.
Il suo tono di voce non era né cantilenante né impetuoso: solo un po’ rassegnato.
Si piazzò in una pieghetta del mio padiglione auricolare e da lì mi suggerì : “Vai via; vai via; vai via.“
Non acconsentii. Non mi reputo una persona arrendevole. Timida sì, anche se di più a quei tempi. A ogni modo, quel lavoro andava fatto, ed una cosa era certa: se me ne fossi andata, non si sarebbe certo fatto da solo, che è pari a dire: quei due insieme non avrebbero combinato una ceppa e non avremmo avuto niente da presentare l’indomani.
“Ok, facciamo così“ dissi a un certo punto, con un’insolita grinta. “Federica, tu scarichi e stampi qualche immagine da Internet su Newton“.
Non mi rispose, ma io non aspettavo mica una risposta, quindi andava bene così.
“Tu invece scrivi qualcosa sull’episodio della mela diffuso da Voltaire, riportando le teorie di chi afferma che si sia verificato sul serio“ proseguii, un po’ ansiosa. Da lui mi aspettavo un feedback, un minimo accenno, germoglio, embrione di contatto fra noi due.
“Va bene“ lo ottenni. Non che mi soddisfò molto, ma comunque. Guardai l’orologio. L’eco del consiglio ricevuto prima riprese a farsi sentire.
Era la cosa giusta da fare. Filippo non mirava ad una ragazza come me e me lo aveva fatto capire più volte, quel giorno. Non c’era più ragione per cui dovessi rimanere ancora lì a osservare quella che cercava di appropriarsene a parole o coi fatti ogni volta che poteva.
“Devo andare a casa…“ mentii. Un minuto e avevo già rimesso tutto a posto.
Filippo si voltò e mi guardò negli occhi. Era sorpreso, ma sicuramente non c’era ombra di dispiacere legata a chissà quale sentimento recondito che nutriva nei miei confronti. Ormai mi ero tolta gli occhiali della fantasia.
Dopo essermi accomiatata brevemente da tutti i presenti, notai qualcosa che lì per lì mi fece guizzare il cuore all’altezza del quadro che sovrastava la porta d’ingresso.
Filippo mi aveva seguito.
“ Greta… ti apro la porta “ spiegò, dopo aver ricevuto diverse mie occhiatine vergognose. Con mano abile mosse una leva e girò la maniglia.
I residui della mia speranza mi avevano sviato, quei bastardi! Ecco cosa comporta, voler sognare…
Un po’ mesta, gli dissi “Ciao” e uscii, lo zaino in spalla che pesava meno di quanto avevo lasciato là dentro. 
Lui non esitò un attimo e richiuse subito la porta.



II – F

Un po’ mi vergogno, a non aver avuto mai una ragazza. Anzi, non è proprio che mi vergogno, è che mi scoccia essere deriso dagli altri per questo.
Non è colpa mia, però. Magari vedo una e mi piace, ma poi le manca qualcosa.
Mi sono interrogato molte volte su cosa possa essere e forse sono arrivato ad una conclusione, benché scarsa: io voglio poter parlare con una ragazza. Cioè sì, dev’essere anche carina, per carità. Ma spesso con le ragazze non riesco a parlare: scherzare e fare dispetti sì, ma parlare “seriamente”, quasi mai.
Ed è un problema, perché secondo me se non si riesce a parlare non ci si capisce, e se non ci si capisce non ci si può innamorare, per il semplice motivo che non si arriverà mai a conoscersi davvero.
Me ne sono reso conto ieri, con Federica. Sì, mi piace perché è bella, simpatica e mi ci trovo bene, ma proprio non riesco a cominciare un discorso serio con lei, è fuori dalle mie corde. Forse non mi capirebbe nemmeno.
Questo però mi ha fatto pensare: come posso pensare di mettermi con lei se non riesco manco a chiederle se si sente con altri ragazzi oltre a me? Ultimamente mi sono fissato con il volere una relazione seria e direi che come inizio non è molto promettente. Forse dovrei lasciar perdere…
Eppure pensavo che “fosse quella giusta”. Una delle più quotate della scuola… dove ho sbagliato?

Ieri sera, mentre se ne andava, sono rimasto lì alla finestra a guardare. Non è che spio, è che per me è una sorta d’abitudine.
Lei stava aspettando lì, dal mio portone.
Inizialmente pensavo che la venissero a prendere i genitori, ma poi vedo arrivare uno… le va incontro, la abbraccia.
Si baciano, come ci eravamo baciati noi mezz’ora prima.
Perché alla fine, a volte succede: credi fino all'ultimo di aver ragione e poi ti ritrovi così, spiazzato, ad osservare il sole che cala dietro l'orizzonte.
   
 
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