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Autore: Nat_Matryoshka    23/08/2013    3 recensioni
"Il ragazzo era ormai di spalle quando lei gli sussurrò una domanda che aveva trattenuto per tutto il pomeriggio:
“Charles… se Moira non fosse mai esistita, avresti scelto me?”
Lui non rispose. Sorrise ancora una volta, un sorriso più triste dei precedenti."
[Charles/Raven] [hints comicverse]
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Charles Xavier/Professor X, Kurt Wagner/Nightcrawler, Raven Darkholme/Mystica
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Warmer than snow

 

 

 

 

“Il mondo gira da così tanto tempo che non so più cosa è reale e cosa no.”

[Nightcrawler – X-Men: Origins]

 

 

 

 

Nel silenzio di una quasi notte d’inverno, la voce si spande per l’appartamento, unica fonte di rumore.

“Al caffè all’angolo, allora. L’appuntamento è alle dieci.”

Una piccola pausa. Le sillabe tremano, rimangono sospese nell’aria per un secondo.

“Abbi cura di te. Ci vediamo.”

Un leggero clic, il passaggio di testimone per il silenzio che si fa strada a grandi passi. Se anche avesse avuto voglia di aggiungere qualcosa, il momento è passato, e il cielo solo sa se mai ne arriverà un altro. Ma per questa volta, è felice di quanto è riuscito ad organizzare.

Sul tavolo resta ancora un secchiello per lo champagne - nonostante da qualche giorno non serva più a nulla – una ciotola che conserva il profumo della frutta che conteneva, una rivista buttata distrattamente in un angolo, segni di una serata spensierata che non gli era mai sembrata tanto lontana come in quel momento. Moira era come un soffio di vento estivo, rifletté: lieve, delicata, silenziosa eppure significativa, e altrettanto imprevedibile. E come il vento estivo, aveva lasciato posto al freddo dell’inverno, che a volte morde la pelle, altre volte inaspettatamente la accarezza con gentilezza.
Charles Xavier si spostò verso la sua stanza da letto, chiudendo il sipario sui suoi ricordi e lasciando che il buio della notte facesse loro compagnia.

 

***

 

Nausee.

La svegliavano di prima mattina, sconquassandole lo stomaco e costringendola ad un simpatico tour del bagno a mo’ di buongiorno e la accompagnavano durante tutta la giornata, ricordandole continuamente che non era più sola, che un altro essere condivideva il corpo con lei e reclamava le sue attenzioni. Come se già non gliene cedesse abbastanza, di pensieri…
Se ne stava a letto, arrotolata in una piccola palla di pelle chiara (l’aspetto che aveva scelto quel giorno), desiderando solo di assimilarsi con il letto e diventare parte del materasso e delle lenzuola. O, meglio ancora, di svegliarsi e scoprire che si trovava nella sua stanza a casa di Charles, e che tutto ciò che aveva vissuto nell’ultimo anno era stato solo un brutto sogno, un’altra puntata di un telefilm che l’aveva coinvolta fino a farle credere che si trattasse della sua vera vita.

Sognare era più semplice, e doloroso.

 

Eppure, doveva reagire: la telefonata della sera prima l’aveva riallacciata alla sua vita di un tempo, regalandole un piccolo spiraglio di felicità dopo tanti giorni grigi, e aveva tutta l’intenzione di prenderselo. Era bastato il suono di una voce a farla cambiare idea, e quella stessa voce ora la incoraggiava, sussurrandole di alzarsi, cominciare la giornata e incontrarlo, come avevano prefissato, come entrambi desideravano.
Si vestì, controllando il suo aspetto allo specchio: una ragazza bionda, dai morbidi boccoli appena spettinati le rivolse un’occhiata. Certo doveva fare qualcosa per quelle occhiaie, e magari trovare qualcosa di carino da indossare - qualcosa che non mostrasse esattamente che non aveva nessuna voglia di uscire e farsi vedere dalla gente – ma la Raven che Charles aveva conosciuto era l’unica persona della quale avrebbe assunto l’aspetto. Sarebbe partita da lì… anche se il rigonfiamento del ventre confermava che, nella Raven degli X-Men, c’era qualcosa di diverso.

Un maglione lungo, un paio di fuseaux, una sciarpa e un cappello. Niente per colazione, se non una tazzina di caffè e un solo biscotto con le gocce di cioccolato, unica concessione che i capricci del suo stomaco sembravano farle. Guardarsi intorno mentre prendeva la borsa e usciva era un gesto quasi spontaneo, anche se inutile, lo sapeva fin troppo bene… il padre di suo figlio non si curava di lei, così come Erik, Emma e chiunque altro frequentasse l’Hellfire. Era sola con se stessa per gran parte della giornata, ma la cosa non le dispiaceva più di tanto: era già abbastanza complicato gestire ciò che le passava per la mente senza che un’ondata di ulteriori pensieri e preoccupazioni la sommergesse, minando ulteriormente l’equilibrio precario che aveva tentato di costruire con tanta fatica.

 

E poi, lo aveva davvero raggiunto, quell’equilibrio?

Scosse la testa, evitando di porsi domande alle quali non avrebbe saputo rispondere. Prese la borsa, inspirò profondamente per fare ordine nei suoi pensieri e si lanciò in strada, consapevole di avere un bel cammino da percorrere prima di arrivare a destinazione, e di voler andare a piedi il più possibile, fino a quando le sue condizioni glielo avessero permesso.

New York la accoglieva come una madre dalle mille facce, con i suoi alberi quasi del tutto privi di foglie, i viali pieni di gente indaffarata, le luminarie natalizie ormai onnipresenti e l’odore di fumo e aria pura e fredda che contraddistingueva il suo aspetto invernale. Come avvolta da una sciarpa di sensazioni, la ragazza si lasciò trascinare dalla sua frenesia, contenta di trovarla sempre uguale, sempre bella.

 
***

A Charles Xavier New York non era mai piaciuta particolarmente.

Da bravo studente e amante dello studio quale era sempre stato, una città “priva di una storia antica” come New York lo entusiasmava ben poco. Certo, i negozi e Central Park erano delle attrazioni notevoli, doveva ammetterlo, ma nulla lo affascinava quanto la visita ai luoghi che conservavano tracce evidenti di un passato: la prima volta che aveva messo piede a Parigi, incalzato da sua madre che voleva fargli conoscere i parenti europei, era rimasto senza fiato. La Tour Eiffel, Notre Dame, gli Champs Elysées, la bellezza fulgida e malinconica delle luci che si accendevano e spegnevano l’avevano colpito come pochi altri paesaggi erano riusciti a fare, lasciando un piccolo vuoto nel suo cuore che ancora pulsava di una malinconia sottile.

Eppure, per quanto potesse amare altre città, ogni volta che qualcuno gli proponeva di incontrarsi, sceglieva New York.

Quel giorno faceva freddo, rifletté mentre si stringeva al collo l’immancabile sciarpa di lana. Gli alberi che riempivano il viale sembravano voler cambiare abito, almeno a giudicare da quante foglie avevano lasciato cadere: l’inverno si faceva vedere un po’ ovunque, sia nella natura che sui visi dei passanti, nei loro acquisti, sugli abiti che indossavano. Non gli capitava spesso di frequentare le grandi città, ma l’umanità che vi incontrava rendeva la visita sempre piacevole.

 

In quante cose era diverso da Erik. Anche nei dettagli piccoli, insignificanti, come quello…

Si colpì la testa con le dita: basta formulare pensieri che potevano rovinargli la giornata. Era iniziata così bene quella mattina – con la telefonata di Moira, e la promessa che si sarebbero visti da lì a qualche giorno, un’ottima colazione al suo caffè preferito e si, anche l’idea che avrebbe incontrato Raven – tanto valeva continuarla nel migliore dei modi. E poi, pensò tra sé guardandosi attorno e sorridendo alla vista delle prime decorazioni natalizie, c’era aria di Natale in giro.

Camminava diretto al luogo dell’appuntamento, ma la sua mente non era lì: tante immagini dei Natali che avevano trascorso insieme la riempivano, alcune vividissime, come se fossero passati solo pochi giorni, altre usurate dal tempo e dallo scorrere di altri ricordi, ma comunque significative… tra l’albero del salotto ricoperto di luci, la moglie di suo padre che infornava biscotti, le corse per scartare i regali la mattina del 25 dicembre, però, c’era un’immagine ricorrente, che spiccava tra tutte, come a volersi far ricordare per forza… lei.
In un modo o nell’altro, Raven era una costante della sua vita e anche se i suoi sentimenti in merito erano ancora piuttosto contrastanti, le mancava, e tanto. Tanto da non poterlo immaginare. Tanto da riuscire a riempire nuovamente la sua testa di pensieri, nonostante si fosse imposto di non farlo, nonostante il suo autocontrollo.

 

***

Raven aveva preso posto al solito tavolino che occupava quando usciva per compere e convinceva Charles ad accompagnarla, non troppo vicino alla porta ma neppure lontano dal bancone, alla giusta distanza da entrambi e dal centro della sala. Si era sfilata di dosso il cappotto e, con grande sollievo, aveva accolto sotto di sé la panca dal cuscino morbido, ringraziando con un segno del capo la cameriera che le aveva chiesto, premorosa, se per caso non le fosse servito un altro cuscino per stare più comoda. Deve essersi accorta che sono incinta, sorrise tra se e se. Solitamente gli umani, con le loro stranezze e i cambi d’umore repentini, la infastidivano, ma quel giorno si sentiva bendisposta e accolse con gratitudine la gentilezza della donna. Ogni tanto ci voleva!

L’ambiente familiare le aveva fatto quasi dimenticare il motivo per cui si trovava lì, il tentativo di riallacciare i rapporti con una persona che pensava (temeva?) di aver perso già da qualche tempo. Non vedeva Charles da molto e, a parte qualche rara telefonata – che comunque non durava mai tanto – non aveva più ricevuto sue notizie. Sapeva che stava bene, certo, ma vederlo e parlargli di persona sarebbe stata tutta un’altra cosa…

Sempre che non fosse stato in dolce compagnia.

 

La gelosia la morse coi suoi dentini acuminati, lasciandola quasi stordita per un attimo.
Si riprese immediatamente: per quanto potesse non apprezzarlo, Moira MacTaggart sembrava essere diventata una realtà per Charles, avrebbe fatto meglio ad accettarlo subito. E poi, anche lei aveva fatto una scelta, rifletté, mentre la mano correva istintivamente verso la pancia… una scelta sofferta, che la lasciava piena di interrogativi. Ma pur sempre la sua scelta.

L’arrivo della cameriera di prima che le sorrideva porgendole un menu staccò il filo conduttore delle sue idee, come a voler consigliare alla sua mente di riposarsi un po’. Sempre sorridendo – le veniva facile esercitarsi con dei perfetti estranei – le fece cenno di lasciarlo sul tavolo e la guardò allontanarsi verso la cucina, i capelli castani lunghi e leggermente mossi che formavano una bella curva ad ogni suo movimento, l’andatura sicura, di chi ama il proprio lavoro e cerca di svolgerlo nel modo migliore.
Sarebbe stato Charles a decidere la piega che avrebbe preso la sua giornata: lei, da parte sua, poteva solo aspettarlo. Come sempre aveva fatto.

 

***

Si era quasi dimenticato di quanto brillassero gli occhi di Raven.

Anche se all’amica piaceva assumere ogni volta un aspetto diverso a suo piacimento, c’era una cosa che non cambiava mai: lo scintillare dei suoi occhi quando lo vedeva. Per quanto scegliesse di nasconderlo, per quanto la rabbia potesse ostacolare i suoi sentimenti, in qualche modo la sua anima restava sempre la stessa.

La cosa lo rendeva immensamente felice.
Dopo le iniziali chiacchiere di circostanza sul tempo e sulla facilità – incredibile, nonostante si avvicinassero le festività natalizie – di movimento dentro New York, i discorsi vennero fuori con la solita disinvoltura che era una caratteristica della loro amicizia. La tazza di cioccolata calda che aveva davanti, accompagnata dai biscotti che si era fatta portare e dalla compagnia di Charles la stavano facendo rilassare, tanto che anche l’appetito le era tornato, e i suoi soliti dolori le sembravano meno forti del previsto. L’atmosfera si scaldava… posso cogliere l’occasione e dargli la lieta notizia, pensò Raven, osservandolo con la coda dell’occhio sorseggiare il tè che aveva ordinato. Doveva solo trovare il momento più adatto.

 

“Insomma, ti trovi bene con la gente dell’Hellfire. Ne sono felice… anche perché in caso contrario avrei contattato Erik per chiedergli di sistemare la questione, e non so quanto ne sarebbero stati felici gli altri.” Un sorriso, la tazza posata sul suo piattino. Raven ricambiò il sorriso.

“Non ce ne bisogno, puoi stare tranquillo. A Emma non vado tanto a genio, ma per fortuna ci parliamo ben poco… è molto impegnata col suo… lavoro, sai.” Non poté trattenere una risata, vedendo Charles roteare gli occhi e riprendere la tazza per bere un altro sorso. “Per cui si, posso dire che siano dei buoni padroni di casa, tutti loro.”
Anche se non lo saranno mai quanto te.

“Se lo dici tu mi fido… meno male, vuol dire che una mia ipotetica visita natalizia verrà in pace. Anche Moira non ha tanta voglia di discutere…”

Aveva buttato la frase nel discorso così per caso, e un attimo dopo si pentì di averlo fatto: gli occhi di Raven si erano stretti all’improvviso, l’espressione simile a quella di un predatore che vede il suo territorio violato da un estraneo.

“Quindi, tu e Moira vi vedete ancora?”

 

Charles esitò. Aveva letto nella mente di Raven, e ci aveva trovato esattamente quello che temeva di trovarci, sentimenti che in altri contesti sarebbero stati una bella scoperta, ma in quello erano difficili, oh se lo erano. Difficili e forse sbagliati. Aveva creduto – si era illuso – che le cose sarebbero cambiate, che la nuova Raven avrebbe trovato una strada diversa nella nuova vita che le si prospettava, forse anche con Erik al suo fianco… ma c’erano cose che non cambiavano facilmente, rifletté. E un amore, per quanto infantile possa essere, era sicuramente tra quelle.
Decise di dire la verità.

 

“Si, sai in che rapporti eravamo… gli stessi di ora. Sono impegnato con la scuola, e lei mi sta dando una mano a reclutare gli studenti.”
Raven giocherellava nervosamente con un tovagliolo, evitando di guardarlo negli occhi.

“Beh, non era difficile capire come foste fatti l’uno per l’altra… immagino che sia piacevole, lavorare a contatto con un esemplare di Homo Sapiens Sapiens. Un po’ di varietà, dopo tanti mutanti… no?”
Qualcosa nel tono di Raven lo infastidiva profondamente: era sarcastica, mirava a ferire con le sue parole, proprio come Erik. Colse l’attimo in cui il suo viso si sollevava per bloccarla con un’unica frase, sperando di distruggere quella corazza di superiorità dietro la quale si nascondeva.

“Ho fatto una scelta, Raven. E tu lo sai. La stessa che hai fatto anche tu.”

 

Una stilettata precisa, scientifica, dritta ai suoi sentimenti. Era una frase normale, in un contesto completamente normale. Perché la sconvolgeva tanto?
Come se fosse un corpo staccato dal suo a parlare e a muoversi, Raven si tese in avanti, le labbra scoperte in un sorriso cattivo, gli occhi spalancati, quasi vitrei. Lo fissò, ma non vedeva realmente le iridi celesti di Charles: le restituivano un riflesso sbiadito di quella che, fino a poco prima, era stata una bella ragazza bionda in procinto di trascorrere una giornata piacevole.

“Hai ragione Charles, ognuno ha diritto alle proprie scelte. Ho seguito il tuo consiglio… anche io avevo bisogno di fare le mie.”

Con lentezza misurata si alzò piano, spostando verso l’alto l’orlo del maglione e mettendogli davanti agli occhi il ventre tondo, ancora piccolo ma ben visibile, continuando a fissarlo con gli occhi che, nel frattempo, erano diventati gialli.
Con suo immenso piacere, Charles era impallidito. Non riuscì a proferire parola, se non un sommesso “Chi…?” a mo’ di domanda, qualche minuto dopo.

“Non importa chi sia il padre. Lui non si cura di me, e a me non importa di lui… siamo in due, ce la faremo. Ho imparato cosa fosse la solitudine quando ero piccola, Charles.”

Silenzio. Un silenzio insopportabile, che nessuno dei due riusciva a rompere.

Cosa avrebbe potuto dirle per risollevarla? Che l’avrebbe aiutata, che si sarebbe preso cura di lei e del bambino che portava in grembo, perché glielo doveva, in quanto suo fratello adottivo, in quanto uomo che lei avrebbe desiderato al suo fianco? E soprattutto, ne aveva veramente bisogno lei, di quel conforto?

Per la prima volta dopo anni che la conosceva, Charles Xavier si coprì il viso con le mani, sconfitto. Tutto ciò che riuscì a far uscire dalle labbra, dopo una manciata di minuti che parve durare anni, fu “mi dispiace, Raven.”
“Per cosa?”
“Per averti lasciata andare.”

 

Raven Darkholme infranse la sua promessa di restare distaccata fino alla fine.

Quando erano bambini, un giorno Charles le aveva detto che somigliava ad un temporale estivo: passava dall’irruenza dei giochi alla calma quando la mamma leggeva loro una storia, si offendeva per uno scherzo e metteva il broncio, ma pochi minuti dopo era di nuovo pronta a ridere e scherzare… le era sempre piaciuto quel paragone, lo trovava calzante e molto sensibile, poetico, come lo era Charles. Guardandosi dentro in quel momento, sentì che le cose non erano poi cambiate molto: non riusciva ad essere arrabbiata con l’unica persona che l’avesse mai fatta sentire speciale, neanche se si sforzava a farlo.
Le nuvole che le oscuravano il viso si dissiparono appena. Non c’era bisogno di parlare: l’arcobaleno sarebbe arrivato, lentamente, timidamente, assieme alla mano che gli tendeva.

 

***

L’aria era fredda, ma piacevole. Perfetta per passeggiare per le strade di New York con calma.

Le due figure infilate nei cappotti procedevano piano, prendendosi il tempo di osservare la strada e le vetrine che li circondavano, aspettando il momento buono per scambiarsi qualche parola senza rovinare il silenzio che si era creato. Raven procedeva strofinandosi le mani per cercare di riscaldarle un po’, mentre Charles sperava di trovare un modo per esprimere quello che sentiva senza risultare patetico e banale. Eppure, per quanto potesse pensarci e ripensarci, non gli veniva in mente nessuna frase che potesse toglierlo dall’impaccio. Nemmeno una.

Fu Raven a venirgli in aiuto.

“Devo arrivare fino alla metropolitana, da lì in poi posso procedere da sola, non devi accompagnarmi per forza. Erik mi ha detto che posso rincasare all’ora che preferisco, dalle sei in poi lui o Emma sono all’Hellfire, li raggiungo lì.”
Il tono era normale, sbrigativo, di chi sta portando avanti una conversazione senza starci troppo a pensare. Charles si sentì in dovere di insistere.

“Non ci metto nulla ad accompagnarti, lo sai. E poi mi farebbe piacere…”
“Forse e meglio di no.” Deglutì. “Moira ti starà aspettando. Ci vediamo, Charles.”
Prima che potesse voltarsi e andarsene, lui l’aveva afferrata per il polso. Non poteva lasciarla andare così, come se niente fosse: se anche non fosse riuscito a farla tornare con lui, almeno doveva provare a scuoterla, riprendersi la piccola Raven che tanto gli mancava.

“Raven… mi farai sapere qualcosa di te? Promettimelo.”
Lei sorrise. Senza accorgersene aveva preso la mano di Charles e la stringeva tra le sue.
“Ci tengo a conoscere il tuo bambino, quando nascerà. In fondo sono pur sempre una specie di zio per lui, no? Voglio che ti trattino bene. Altrimenti ne dovranno rispondere a me, Erik in primis…”

 
La ragazza non riuscì a trattenersi: lo abbracciò, tuffando la testa bionda nell’incavo della sua spalla e restando lì, sperando che il tempo si fermasse e si congelasse per qualche strano miracolo, lasciandoli in eterno immersi in quel pomeriggio d’inverno. Ma quando riaprì gli occhi erano sempre lì al centro di New York, e lo sguardo triste di Charles le faceva capire che ciascuno di loro sarebbe dovuto tornare alla sua solita vita. Lui le sfiorò la pancia con una carezza impercettibile.

 
“Ciao, Raven. Abbi cura di te.”
Il ragazzo era ormai di spalle quando lei gli sussurrò una domanda che aveva trattenuto per tutto il pomeriggio:
“Charles… se Moira non fosse mai esistita, avresti scelto me?”
Lui non rispose. Sorrise ancora una volta, un sorriso più triste dei precedenti.

 

**** 

Nevischiava appena. La sera scendeva su New York e sulla ragazza bionda che si avviava alla fermata della metropolitana, le dita che sfregavano l’una contro l’altra nel tentativo inutile di scaldarsi un altro po’.
Le emozioni positive (se anche ne aveva mai provate) di quella giornata la stavano abbandonando progressivamente: il colloquio con Charles non aveva portato a nulla, a parte un senso di rassegnazione totale. Lui aveva Moira e una vita da costruirsi con lei, cosa poteva farci se la sua sorellina aveva deciso di buttarsi via, concedendosi al primo uomo che le aveva fatto un sorriso e una proposta che poteva avvicinarsi ad un interessamento?
Nulla. La vita era sua, era stata lei a scegliersela seguendo Erik. Che senso aveva lamentarsi, ora?

 

Continuò a scendere le scale meccanicamente. La folla dell’ora di punta la spingeva da tutte le parti, ma non sembrava infastidirla: la aiutava a non pensare. Aspettare il primo vagone libero e sedersi in un posto all’angolo furono le prime due azioni sensate che la sua testa le imponeva di compiere, in attesa di riallacciare la mente su quanto avrebbe dovuto fare in seguito.
Appoggiava la testa contro una delle sbarre che sostenevano i sedili e si limitava ad osservare l’andirivieni dei passeggeri. Chissà se quella donna con la borsetta rossa aveva una casa dove tornare. E la signora anziana che aveva appena posato il cappellino sulle gambe, aveva dei nipoti? Magari erano i due bambini che una ragazza aveva appena rimproverato perché non volevano saperne di stare seduti. Ovunque guardasse, vedeva famiglie sorridenti e bambini accompagnati dai genitori, e se anche qualche ragazza girava per la città, erano tutte in compagnia di amici o fidanzati.

Solo lei era sola.

Il contatto della guancia con il metallo freddo le faceva bene, almeno le impediva di piangere: Raven Darkholme odiava piangere, anche quando stava male o qualcosa la faceva soffrire.
Al di là delle palpebre appena socchiuse vedeva il padre di suo figlio – qualcosa le diceva che sarebbe stato un maschio – salutarla con un cenno del capo come faceva ogni giorno, senza curarsi più di tanto se fosse stata in salute o meno. Le uniche conversazioni che aveva avuto con lui riguardavano l’inizio del loro “accordo” e il suo stato di salute mano a mano che le visite mediche procedevano ma non prevedevano tenerezze di alcun tipo, o semplicemente un rapporto tra due futuri genitori. Per quel che poteva importarle della tenerezza e dell’affetto, poi…

 

Si chiese per quale motivo non avesse parlato a Charles di quanto si sentiva smarrita e sola. Ma la risposta le arrivò da sola dopo pochi secondi: lui non avrebbe comunque potuto (voluto?) fare niente per lei, se non offrirle la sua compassione. Ed era proprio quella che non desiderava, soprattutto da lui che era sempre stato un punto fisso per lei, una spalla e un modello fino a che le loro scelte non li avevano cambiati.
A volte sarebbe bello non dover scegliere. Accettare passivamente tutto, lasciare le cose così come stanno e non ribellarsi a quello che verrà dopo, rifletté. Ed era proprio quella rassegnazione che l’aveva spinta ad accettare Azazel nella sua vita.

Senza volerlo, la mano era scesa ad accarezzarsi la pancia, ancora piccola ma capace di ricordarle che non era poi completamente sola al mondo. Raven sorrise appena e si appoggiò contro lo schienale del sedile, continuando a sfiorare il ventre in piccoli movimenti circolari, quasi a cullare il suo bambino per rassicurarlo. Un paio di piccoli fiocchi di neve le caddero in grembo, scossi dal movimento: li guardò brillare sul cappotto e poi sparire, sciolti dal calore che emanava il suo corpo, tanto che sarebbe stato difficile credere che avesse davvero nevicato.
Il rumore delle portiere e la voce di un passeggero accanto a lei la avvertirono che la sua fermata era arrivata. Si alzò e spazzolò il cappotto automaticamente togliendone le ultime tracce di neve, per poi scendere e confondersi nuovamente tra la folla, una ragazza bionda tra tante che cercava di guadagnarsi un suo posto nel tragitto verso quella che considerava casa sua. Casa, o qualcosa del genere.

Sulle dita le rimase qualche goccia d’acqua, segno della neve che aveva appena tolto. Le sfregò di nuovo tra loro, ma questa volta non voleva più scaldarle: la sensazione di tepore che le avevano lasciato quelle di Charles le rimaneva ancora addosso, testarda come il desiderio di rivederlo e sentirlo un’altra volta dire che assomigliava ad un temporale estivo.

 

 

 

 

 

 

Angoletto dell’autrice

Mystica è uno dei personaggi su cui amo di più scrivere e anche quello che maltratto di più, probabilmente. Il suo rapporto col Professor X (che conosco solo tramite il film, non ho ancora letto numeri del fumetto in cui si rapportano direttamente) mi ha sempre intrigato e anche in passato ho scritto su di loro, ma era da parecchio che volevo scrivere una shot che riguardasse il loro rapporto post X-Men First Class… da tanti ripensamenti e correzioni alla fine è uscita questa fic!
Per costruire la storia ho attinto sia dal comicverse che dal movieverse: il bambino di cui si parla è Nightcrawler e suo padre appunto è Azazel, che in X-Men First Class Mystica incontra una volta unitasi al Club Infernale. Anche se di Kurt si parla soltanto nella prima trilogia ho immaginato la sua nascita in un ipotetico movieverse, insomma ho fatto il solito frullato fumetto+film che spero non sia d’impiccio alla lettura della storia!
Tra l’altro Azazel e Mystica come coppia non mi dispiacciono affatto, anche se nel fumetto non condividono una vera e propria relazione e Nightcrawler nasce all’interno di un “progetto” di lui che doveva servire a far nascere mutanti dotati di particolari abilità... è la storia che ha preso la piega che voleva, praticamente. *sob*
Grazie come sempre alla mia beta ufficiale, TsunadeShirahime: i miei deliri da fan non sarebbero gli stessi senza la tua pazienza nel leggere e commentare tutto <3

Come sempre, i commenti e le critiche sono benaccettissimi!
Nat

   
 
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