Warmer
than snow
“Il
mondo gira da così
tanto tempo che non so più cosa è reale e cosa
no.”
[Nightcrawler
– X-Men:
Origins]
“Al
caffè all’angolo, allora. L’appuntamento
è alle dieci.”
Una
piccola pausa. Le sillabe tremano, rimangono sospese
nell’aria
per un secondo.
“Abbi
cura di te. Ci vediamo.”
Un
leggero clic, il passaggio di testimone per il silenzio che si
fa strada a grandi passi. Se anche avesse avuto voglia di aggiungere
qualcosa,
il momento è passato, e il cielo solo sa se mai ne
arriverà un altro. Ma per
questa volta, è felice di quanto è riuscito ad
organizzare.
Sul
tavolo resta ancora un secchiello per lo champagne -
nonostante da qualche giorno non serva più a nulla
– una ciotola che conserva
il profumo della frutta che conteneva, una rivista buttata
distrattamente in un
angolo, segni di una serata spensierata che non gli era mai sembrata
tanto
lontana come in quel momento. Moira era come un soffio di vento estivo,
rifletté: lieve, delicata, silenziosa eppure significativa,
e altrettanto
imprevedibile. E come il vento estivo, aveva lasciato posto al freddo
dell’inverno, che a volte morde la pelle, altre volte
inaspettatamente la
accarezza con gentilezza.
Charles Xavier si spostò verso la sua stanza da letto,
chiudendo
il sipario sui suoi ricordi e lasciando che il buio della notte facesse
loro
compagnia.
Nausee.
La
svegliavano di prima mattina, sconquassandole lo stomaco e
costringendola ad un simpatico tour del bagno a mo’ di
buongiorno e la
accompagnavano durante tutta la giornata, ricordandole continuamente
che non
era più sola, che un altro essere condivideva il corpo con
lei e reclamava le
sue attenzioni. Come se già non gliene cedesse abbastanza,
di pensieri…
Se ne stava a letto, arrotolata in una piccola palla di pelle
chiara (l’aspetto che aveva scelto
quel
giorno), desiderando solo di assimilarsi con il letto e
diventare parte del
materasso e delle lenzuola. O, meglio ancora, di svegliarsi e scoprire
che si
trovava nella sua stanza a casa di Charles, e che tutto ciò
che aveva vissuto
nell’ultimo anno era stato solo un brutto sogno,
un’altra puntata di un
telefilm che l’aveva coinvolta fino a farle credere che si
trattasse della sua
vera vita.
Eppure,
doveva reagire: la telefonata della sera prima l’aveva
riallacciata alla sua vita di un tempo, regalandole un piccolo
spiraglio di
felicità dopo tanti giorni grigi, e aveva tutta
l’intenzione di prenderselo. Era
bastato il suono di una voce a farla cambiare idea, e quella stessa
voce ora la
incoraggiava, sussurrandole di alzarsi, cominciare la giornata e
incontrarlo,
come avevano prefissato, come entrambi desideravano.
Si vestì, controllando il suo aspetto allo specchio: una
ragazza
bionda, dai morbidi boccoli appena spettinati le rivolse
un’occhiata. Certo
doveva fare qualcosa per quelle occhiaie, e magari trovare qualcosa di
carino
da indossare - qualcosa che non mostrasse esattamente che non aveva
nessuna voglia
di uscire e farsi vedere dalla gente – ma
Un
maglione lungo, un paio di fuseaux, una sciarpa e un cappello. Niente
per colazione, se non una tazzina di caffè e un solo
biscotto con le gocce di
cioccolato, unica concessione che i capricci del suo stomaco sembravano
farle.
Guardarsi intorno mentre prendeva la borsa e usciva era un gesto quasi
spontaneo, anche se inutile, lo sapeva fin troppo bene… il
padre di suo figlio
non si curava di lei, così come Erik, Emma e chiunque altro
frequentasse
l’Hellfire. Era sola con se stessa per gran parte della
giornata, ma la cosa
non le dispiaceva più di tanto: era già
abbastanza complicato gestire ciò che
le passava per la mente senza che un’ondata di ulteriori
pensieri e
preoccupazioni la sommergesse, minando ulteriormente
l’equilibrio precario che
aveva tentato di costruire con tanta fatica.
E
poi, lo aveva davvero raggiunto, quell’equilibrio?
New
York la accoglieva come una madre dalle mille facce, con i
suoi alberi quasi del tutto privi di foglie, i viali pieni di gente
indaffarata, le luminarie natalizie ormai onnipresenti e
l’odore di fumo e aria
pura e fredda che contraddistingueva il suo aspetto invernale. Come
avvolta da
una sciarpa di sensazioni, la ragazza si lasciò trascinare
dalla sua frenesia,
contenta di trovarla sempre uguale, sempre bella.
***
Da
bravo studente e amante dello studio quale era sempre stato, una
città “priva di una storia antica” come
New York lo entusiasmava ben poco.
Certo, i negozi e Central Park erano delle attrazioni notevoli, doveva
ammetterlo, ma nulla lo affascinava quanto la visita ai luoghi che
conservavano
tracce evidenti di un passato: la prima volta che aveva messo piede a
Parigi,
incalzato da sua madre che voleva fargli conoscere i parenti europei,
era
rimasto senza fiato.
Eppure,
per quanto potesse amare altre città, ogni volta che
qualcuno gli proponeva di incontrarsi, sceglieva New York.
Quel
giorno faceva freddo, rifletté mentre si stringeva al collo
l’immancabile sciarpa di lana. Gli alberi che riempivano il
viale sembravano
voler cambiare abito, almeno a giudicare da quante foglie avevano
lasciato cadere:
l’inverno si faceva vedere un po’ ovunque, sia
nella natura che sui visi dei
passanti, nei loro acquisti, sugli abiti che indossavano. Non gli
capitava
spesso di frequentare le grandi città, ma
l’umanità che vi incontrava rendeva
la visita sempre piacevole.
In
quante cose era diverso da Erik. Anche nei dettagli piccoli,
insignificanti,
come quello…
Camminava
diretto al luogo dell’appuntamento, ma la sua mente non
era lì: tante immagini dei Natali che avevano trascorso
insieme la riempivano, alcune
vividissime, come se fossero passati solo pochi giorni, altre usurate
dal tempo
e dallo scorrere di altri ricordi, ma comunque
significative… tra l’albero del
salotto ricoperto di luci, la moglie di suo padre che infornava
biscotti, le
corse per scartare i regali la mattina del 25 dicembre,
però, c’era un’immagine
ricorrente, che spiccava tra tutte, come a volersi far ricordare per
forza… lei.
In un modo o nell’altro, Raven era una costante della sua
vita e
anche se i suoi sentimenti in merito erano ancora piuttosto
contrastanti, le
mancava, e tanto. Tanto da non poterlo immaginare. Tanto da riuscire a
riempire
nuovamente la sua testa di pensieri, nonostante si fosse imposto di non
farlo,
nonostante il suo autocontrollo.
Raven aveva preso
posto al solito tavolino che occupava quando
usciva per compere e convinceva Charles ad accompagnarla, non troppo
vicino
alla porta ma neppure lontano dal bancone, alla giusta distanza da
entrambi e
dal centro della sala. Si era sfilata di dosso il cappotto e, con
grande
sollievo, aveva accolto sotto di sé la panca dal cuscino
morbido, ringraziando
con un segno del capo la cameriera che le aveva chiesto, premorosa, se
per caso
non le fosse servito un altro cuscino per stare più comoda. Deve essersi accorta che sono incinta,
sorrise tra se e se. Solitamente gli umani, con le loro stranezze e i
cambi
d’umore repentini, la infastidivano, ma quel giorno si
sentiva bendisposta e
accolse con gratitudine la gentilezza della donna. Ogni tanto ci voleva!
L’ambiente
familiare le aveva fatto quasi dimenticare il motivo
per cui si trovava lì, il tentativo di riallacciare i
rapporti con una persona
che pensava (temeva?) di aver perso
già da qualche tempo. Non vedeva Charles da molto e, a parte
qualche rara
telefonata – che comunque non durava mai tanto –
non aveva più ricevuto sue
notizie. Sapeva che stava bene, certo, ma vederlo e parlargli di
persona
sarebbe stata tutta un’altra cosa…
La
gelosia la morse coi suoi dentini acuminati, lasciandola quasi
stordita per un attimo.
Si riprese immediatamente: per quanto potesse non apprezzarlo,
Moira MacTaggart sembrava essere diventata una realtà per
Charles, avrebbe
fatto meglio ad accettarlo subito. E poi, anche lei aveva fatto una
scelta,
rifletté, mentre la mano correva istintivamente verso la
pancia… una scelta
sofferta, che la lasciava piena di interrogativi. Ma pur sempre la sua
scelta.
L’arrivo
della cameriera di prima che le sorrideva porgendole un
menu staccò il filo conduttore delle sue idee, come a voler
consigliare alla
sua mente di riposarsi un po’. Sempre sorridendo –
le veniva facile esercitarsi
con dei perfetti estranei – le fece cenno di lasciarlo sul
tavolo e la guardò
allontanarsi verso la cucina, i capelli castani lunghi e leggermente
mossi che formavano
una bella curva ad ogni suo movimento, l’andatura sicura, di
chi ama il proprio
lavoro e cerca di svolgerlo nel modo migliore.
Sarebbe stato Charles a decidere la piega che avrebbe preso la sua
giornata: lei, da parte sua, poteva solo aspettarlo. Come sempre aveva
fatto.
Anche
se all’amica piaceva assumere ogni volta un aspetto diverso
a suo piacimento, c’era una cosa che non cambiava mai: lo
scintillare dei suoi
occhi quando lo vedeva. Per quanto scegliesse di nasconderlo, per
quanto la
rabbia potesse ostacolare i suoi sentimenti, in qualche modo la sua
anima
restava sempre la stessa.
La
cosa lo rendeva immensamente felice.
Dopo le iniziali chiacchiere di circostanza sul tempo e sulla
facilità – incredibile, nonostante si
avvicinassero le festività natalizie – di
movimento dentro New York, i discorsi vennero fuori con la solita
disinvoltura
che era una caratteristica della loro amicizia. La tazza di cioccolata
calda
che aveva davanti, accompagnata dai biscotti che si era fatta portare e
dalla
compagnia di Charles la stavano facendo rilassare, tanto che anche
l’appetito
le era tornato, e i suoi soliti dolori le sembravano meno forti del
previsto.
L’atmosfera si scaldava… posso
cogliere
l’occasione e dargli la lieta notizia, pensò
Raven, osservandolo con la
coda dell’occhio sorseggiare il tè che aveva
ordinato. Doveva solo trovare il
momento più adatto.
“Insomma,
ti trovi bene con la gente dell’Hellfire. Ne sono
felice… anche perché in caso contrario avrei
contattato Erik per chiedergli di sistemare
la questione, e non so quanto ne sarebbero stati felici gli
altri.” Un sorriso,
la tazza posata sul suo piattino. Raven ricambiò il sorriso.
Anche
se non lo saranno mai quanto te.
“Se
lo dici tu mi fido… meno male, vuol dire che una mia
ipotetica
visita natalizia verrà in pace. Anche Moira non ha tanta
voglia di discutere…”
Aveva
buttato la frase nel discorso così per caso, e un attimo
dopo si pentì di averlo fatto: gli occhi di Raven si erano
stretti
all’improvviso, l’espressione simile a quella di un
predatore che vede il suo
territorio violato da un estraneo.
Charles
esitò. Aveva letto nella mente di Raven, e ci aveva
trovato esattamente quello che temeva
di trovarci, sentimenti che in altri contesti sarebbero stati una bella
scoperta, ma in quello erano difficili, oh se lo erano. Difficili e
forse
sbagliati. Aveva creduto – si era illuso – che le
cose sarebbero cambiate, che
la nuova Raven avrebbe trovato una strada diversa nella nuova vita che
le si
prospettava, forse anche con Erik al suo fianco… ma
c’erano cose che non
cambiavano facilmente, rifletté. E un amore, per quanto
infantile possa essere,
era sicuramente tra quelle.
Decise di dire la verità.
“Si,
sai in che rapporti eravamo… gli stessi di ora. Sono
impegnato con la scuola, e lei mi sta dando una mano a reclutare gli
studenti.”
Raven giocherellava nervosamente con un tovagliolo, evitando di
guardarlo negli occhi.
“Beh,
non era difficile capire come foste fatti l’uno per
l’altra…
immagino che sia piacevole, lavorare a contatto con un esemplare di Homo Sapiens Sapiens. Un po’ di
varietà,
dopo tanti mutanti… no?”
Qualcosa nel tono di Raven lo infastidiva profondamente: era
sarcastica, mirava a ferire con le sue parole, proprio come Erik. Colse
l’attimo in cui il suo viso si sollevava per bloccarla con
un’unica frase,
sperando di distruggere quella corazza di superiorità dietro
la quale si
nascondeva.
Una
stilettata precisa, scientifica, dritta ai suoi sentimenti.
Era una frase normale, in un contesto completamente normale.
Perché la
sconvolgeva tanto?
Come se fosse un corpo staccato dal suo a parlare e a muoversi,
Raven si tese in avanti, le labbra scoperte in un sorriso cattivo, gli
occhi
spalancati, quasi vitrei. Lo fissò, ma non vedeva realmente
le iridi celesti di
Charles: le restituivano un riflesso sbiadito di quella che, fino a
poco prima,
era stata una bella ragazza bionda in procinto di trascorrere una
giornata
piacevole.
“Hai
ragione Charles, ognuno ha diritto alle proprie scelte. Ho
seguito il tuo consiglio… anche io avevo bisogno di fare le
mie.”
Con
lentezza misurata si alzò piano, spostando verso
l’alto l’orlo
del maglione e mettendogli davanti agli occhi il ventre tondo, ancora
piccolo
ma ben visibile, continuando a fissarlo con gli occhi che, nel
frattempo, erano
diventati gialli.
Con suo immenso piacere, Charles era impallidito. Non riuscì
a
proferire parola, se non un sommesso
“Chi…?” a mo’ di domanda,
qualche minuto
dopo.
Per
la prima volta dopo anni che la conosceva, Charles Xavier si
coprì il viso con le mani, sconfitto. Tutto ciò
che riuscì a far uscire dalle
labbra, dopo una manciata di minuti che parve durare anni, fu
“mi dispiace,
Raven.”
“Per cosa?”
“Per averti lasciata andare.”
Raven
Darkholme infranse la sua promessa di restare distaccata
fino alla fine.
Quando
erano bambini, un giorno Charles le aveva detto che
somigliava ad un temporale estivo: passava dall’irruenza dei
giochi alla calma
quando la mamma leggeva loro una storia, si offendeva per uno scherzo e
metteva
il broncio, ma pochi minuti dopo era di nuovo pronta a ridere e
scherzare… le
era sempre piaciuto quel paragone, lo trovava calzante e molto
sensibile,
poetico, come lo era Charles. Guardandosi dentro in quel momento,
sentì che le cose
non erano poi cambiate molto: non riusciva ad essere arrabbiata con
l’unica
persona che l’avesse mai fatta sentire speciale, neanche se
si sforzava a
farlo.
Le nuvole che le oscuravano il viso si dissiparono appena. Non
c’era bisogno di parlare: l’arcobaleno sarebbe
arrivato, lentamente,
timidamente, assieme alla mano che gli tendeva.
***
Il tono era normale, sbrigativo, di chi sta portando avanti una
conversazione senza starci troppo a pensare. Charles si
sentì in dovere di
insistere.
“Non
ci metto nulla ad accompagnarti, lo sai. E poi mi farebbe
piacere…”
“Forse e meglio di no.” Deglutì.
“Moira ti starà aspettando. Ci
vediamo, Charles.”
Prima che potesse voltarsi e andarsene, lui l’aveva afferrata
per
il polso. Non poteva lasciarla andare così, come se niente
fosse: se anche non
fosse riuscito a farla tornare con lui, almeno doveva provare a
scuoterla, riprendersi
la piccola Raven che tanto gli mancava.
Lei sorrise. Senza accorgersene aveva preso la mano di Charles e
la stringeva tra le sue.
“Ci tengo a conoscere il tuo bambino, quando
nascerà. In fondo
sono pur sempre una specie di zio per lui, no? Voglio che ti trattino
bene.
Altrimenti ne dovranno rispondere a me, Erik in
primis…”
La ragazza non riuscì a trattenersi: lo
abbracciò, tuffando la
testa bionda nell’incavo della sua spalla e restando
lì, sperando che il tempo
si fermasse e si congelasse per qualche strano miracolo, lasciandoli in
eterno
immersi in quel pomeriggio d’inverno. Ma quando
riaprì gli occhi erano sempre
lì al centro di New York, e lo sguardo triste di Charles le
faceva capire che
ciascuno di loro sarebbe dovuto tornare alla sua solita vita. Lui le
sfiorò la
pancia con una carezza impercettibile.
Il ragazzo era ormai di spalle quando lei gli sussurrò una
domanda
che aveva trattenuto per tutto il pomeriggio:
“Charles… se Moira non fosse mai esistita, avresti
scelto me?”
Lui non rispose. Sorrise ancora una volta, un sorriso più
triste
dei precedenti.
****
Le emozioni positive (se anche ne aveva mai provate) di quella
giornata la stavano abbandonando progressivamente: il colloquio con
Charles non
aveva portato a nulla, a parte un senso di rassegnazione totale. Lui
aveva
Moira e una vita da costruirsi con lei, cosa poteva farci se la sua sorellina aveva deciso di buttarsi via,
concedendosi al primo uomo che le aveva fatto un sorriso e una proposta
che
poteva avvicinarsi ad un interessamento?
Nulla. La vita era sua, era stata lei a scegliersela seguendo
Erik. Che senso aveva lamentarsi, ora?
Continuò
a scendere le scale meccanicamente. La folla dell’ora di
punta la spingeva da tutte le parti, ma non sembrava infastidirla: la
aiutava a
non pensare. Aspettare il primo vagone libero e sedersi in un posto
all’angolo
furono le prime due azioni sensate che la sua testa le imponeva di
compiere, in
attesa di riallacciare la mente su quanto avrebbe dovuto fare in
seguito.
Appoggiava la testa contro una delle sbarre che sostenevano i
sedili e si limitava ad osservare l’andirivieni dei
passeggeri. Chissà se
quella donna con la borsetta rossa aveva una casa dove tornare. E la
signora
anziana che aveva appena posato il cappellino sulle gambe, aveva dei
nipoti?
Magari erano i due bambini che una ragazza aveva appena rimproverato
perché non
volevano saperne di stare seduti. Ovunque guardasse, vedeva famiglie
sorridenti
e bambini accompagnati dai genitori, e se anche qualche ragazza girava
per la
città, erano tutte in compagnia di amici o fidanzati.
Solo
lei era sola.
Il
contatto della guancia con il metallo freddo le faceva bene,
almeno le impediva di piangere: Raven Darkholme odiava piangere, anche
quando
stava male o qualcosa la faceva soffrire.
Al di là delle palpebre appena socchiuse vedeva il padre di
suo
figlio – qualcosa le diceva che sarebbe stato un maschio
– salutarla con un
cenno del capo come faceva ogni giorno, senza curarsi più di
tanto se fosse
stata in salute o meno. Le uniche conversazioni che aveva avuto con lui
riguardavano l’inizio del loro “accordo”
e il suo stato di salute mano a mano
che le visite mediche procedevano ma non prevedevano tenerezze di alcun
tipo, o
semplicemente un rapporto tra due futuri genitori. Per quel che poteva
importarle della tenerezza e dell’affetto, poi…
Si
chiese per quale motivo non avesse parlato a Charles di quanto
si sentiva smarrita e sola. Ma la risposta le arrivò da sola
dopo pochi secondi:
lui non avrebbe comunque potuto (voluto?) fare niente per lei, se non
offrirle
la sua compassione. Ed era proprio quella che non desiderava,
soprattutto da
lui che era sempre stato un punto fisso per lei, una spalla e un
modello fino a
che le loro scelte non li avevano cambiati.
A
volte
sarebbe bello non dover scegliere. Accettare passivamente tutto,
lasciare le
cose così come stanno e non ribellarsi a quello che
verrà dopo,
rifletté. Ed era proprio quella rassegnazione che
l’aveva spinta ad accettare Azazel
nella sua vita.
Il rumore delle portiere e la voce di un passeggero accanto a lei
la avvertirono che la sua fermata era arrivata. Si alzò e
spazzolò il cappotto
automaticamente togliendone le ultime tracce di neve, per poi scendere
e
confondersi nuovamente tra la folla, una ragazza bionda tra tante che
cercava
di guadagnarsi un suo posto nel tragitto verso quella che considerava
casa sua.
Casa, o qualcosa del genere.
Sulle
dita le rimase qualche goccia d’acqua, segno della neve che
aveva appena tolto. Le sfregò di nuovo tra loro, ma questa
volta non voleva più
scaldarle: la sensazione di tepore che le avevano lasciato quelle di
Charles le
rimaneva ancora addosso, testarda come il desiderio di rivederlo e
sentirlo un’altra
volta dire che assomigliava ad un temporale estivo.
Angoletto
dell’autrice
Per costruire la storia ho attinto sia dal comicverse che dal
movieverse: il bambino di cui si parla è Nightcrawler e suo
padre appunto è
Azazel, che in X-Men First Class Mystica incontra una volta unitasi al
Club
Infernale. Anche se di Kurt si parla soltanto nella prima trilogia ho
immaginato la sua nascita in un ipotetico movieverse, insomma ho fatto
il
solito frullato fumetto+film che spero non sia d’impiccio
alla lettura della
storia!
Tra l’altro Azazel e Mystica come coppia non mi dispiacciono
affatto, anche se nel fumetto non condividono una vera e propria
relazione e
Nightcrawler nasce all’interno di un
“progetto” di lui che doveva servire a far
nascere mutanti dotati di particolari abilità...
è la storia che ha preso la
piega che voleva, praticamente. *sob*
Grazie come sempre alla mia beta ufficiale, TsunadeShirahime: i
miei deliri da fan non sarebbero gli stessi senza la tua pazienza nel
leggere e
commentare tutto <3
Nat