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Autore: Macy McKee    27/08/2013    2 recensioni
Ambientata fra "The Angels take Manhattan" e "The Snowmen".
Il Dottore è smarrito fra i sensi di colpa e la solitudine, e sente che sta perdendo se stesso. Ma River è lì per lui, pronta ad aggiustarlo.
Era tornato al suo TARDIS, e aveva parlato un po’ con la sua vecchia amica che lo aveva rubato sul suo pianeta natale. Ma anche la sua compagnia di sventure sapeva di tempi passati che facevano troppo male, e nel luccichio delle sue pareti il Dottore vedeva lampi di avventure che non sarebbero tornate, riflessi spezzati di visi che non gli avrebbero più sorriso.
A quel punto aveva smesso di parlare. Si era seduto a terra, nello stesso punto in cui era in quel momento, ed era rimasto lì.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Doctor - 11, River Song
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note: Mi sono resa conto che è passata un’eternità dall’ultima volta che ho scritto su Doctor Who, e ho sentito il bisogno di rimediare. Sono sempre affezionata a questo fandom, e ne sentivo la mancanza.
Mi sono anche accorta di non aver mai scritto niente su River&Eleven, dato che considerando quanto mi hanno spezzato il cuore in “The Name of the Doctor” credo di essermi affezionata anche a loro a livelli che non possono essere salutari per il mio povero cuoricino. Inoltre, ho ancora un po’ di feelings residui da “The Angels take Manhattan”, che probabilmente non spariranno mai, e avevo bisogno di portarli fuori a fare una passeggiata per evitare di impazzire. Volevo anche mettere River in azione, perché ho avuto l’impressione che fosse un po’ “passiva” subito dopo gli avvenimenti di “The Angels take Manhattan”: volevo farle mettere in pratica una delle sue soluzioni da terapia d’urto che all’inizio sembrano un fallimento ma che alla fine si rivelano efficaci quanto i piano folli del Dottore.
Per queste ragioni, ecco questa storia. Vi avviso, contiene angst a palate e un leggero sadismo Moffattiano nel rimuginare sulle disgrazie che accadono ai nostri nuovi protagonisti.
Il titolo è tratto dalla canzone "My last breath" degli Evanescence.
 

 Safe inside myself are all my thoughts of you

We are all stories in the end. Just make it a good one, eh?
The Doctor, The Big Bang

Sedeva con la schiena appoggiata alla console, le gambe che penzolavano giù dai gradini. Era spettinato, con la giacca troppo grande che pendeva dalle sue spalle come uno scialle di un’anziana signora avvolto attorno alla schiena di un bambino, e il suo sguardo era distante milioni di miglia.
Aveva gli occhi lucidi di un bambino smarrito che non trova più la strada di casa, le guance arrossate di un ragazzino che aspetta che la madre venga a prenderlo a scuola ma che rimane sul cancello fino al tramonto e all’improvviso si rende conto che nessuno passerà a prenderlo. Gli occhiali tondi erano scivolati sulla punta del suo naso, e lì riposavano da ore, senza che l’uomo si rendesse conto che erano caduti fuori dal loro posto. Si sentiva fuori posto anche lui, dopotutto, solo in una cabina troppo grande per un vecchio uomo con l’anima appesantita dalle anime che aveva visto passare. Anche la cabina sembrava fremere, troppo vuota e troppo pesante per le vite che erano passare di lì e avevano lasciato il loro segno indelebile sui suoi pavimenti e nel cuore del suo proprietario, ma che si erano dissolti. Lasciati indietro, tornati a casa, scomparsi nell’oscurità. Qualcuno se ne era andato sulle sue gambe, qualcuno era stato strappato via dalla vita che aveva scelto di condurre fra le stelle. Ma se ne erano andati tutti, uno dopo l’altro, e nessuno era rimasto a fargli compagnia.
‹‹Siamo rimasti solo tu ed io, vecchia amica›› sussurrò il Dottore, dando una pacca affettuosa al pavimento del TARDIS. Gli sembrò che la cabina fremesse sotto il suo tocco, come un gatto che tenta di trattenersi dal fare le fusa per non far compiacere troppo il suo umano, ma quel giorno nemmeno le lusinghe della sua eterna compagnia di viaggio erano sufficienti a riempire il vuoto che sentiva.
Erano passati giorni da quando Amy e Rory erano usciti dalle loro vite, ma il Dottore ancora saltava in piedi ogni volta che un alito di vento faceva tremare la porta della cabina o che l’ombra di un ramo si allungava per un istante fino a somigliare alla sagoma di un essere umano.
Aveva provato a scappare. Aveva parcheggiato il TARDIS in una radura su un pianeta lontano dalla terra, dove le foglie violacee delle piante tipiche si erano allungate per accarezzarlo, ma era ripartito dopo pochi minuti: cosa stava facendo?, si era chiesto. Lui non era tipo da rilassarsi. Voleva l’azione, voleva l’avventura, voleva guardare con entusiasmo l’universo attorno a lui e fare una lunga chiacchierata con un alieno che gli avrebbe raccontato storie straordinarie davanti a un piatto caldo. Allora si era fermato in una taverna appollaiata su un asteroide sperduto, la sua preferita, e aveva aspettato che la cameriera con tre occhi gli portasse qualcosa di buono. Ma si era sentito fuori posto un’altra volta, e si era reso conto che questa volta nessuno si sarebbe seduto con lui per parlare: la tristezza che appesantiva i suoi occhi era troppa per un uomo solo, troppa perché qualcuno se ne prendesse carico e accettasse di condividerla. I clienti della taverna avevano paura di lui e della sua tristezza, perché aveva l’odore di quel genere di tristezza che può far impazzire un uomo.
Allora era tornato al suo TARDIS, e aveva parlato un po’ con la sua vecchia amica che lo aveva rubato sul suo pianeta natale. Ma anche la sua compagnia di sventure sapeva di tempi passati che facevano troppo male, e nel luccichio delle sue pareti il Dottore vedeva lampi di avventure che non sarebbero tornate, riflessi spezzati di visi che non gli avrebbero più sorriso.
A quel punto aveva smesso di parlare. Si era seduto a terra, lì dove era in quel momento, ed era rimasto lì. Con gli occhi spaventati di un bambino solo e lo sguardo inconsolabile di un vecchio che ha perso tutto, aveva aspettato che qualcuno venisse a salvarlo da se stesso, che qualcuno lo strappasse dalla sua solitudine. E, alla fine, qualcuno era arrivato.
La porta di TARDIS tremò sotto una spinta energica, catturando lo sguardo del Dottore. Tremò di nuovo, poi rimase immobile. Un istante dopo, si spalancò.
‹‹Che modi sono questi? Chiudere la propria moglie fuori di casa non è un comportamento da gentiluomo›› lo rimproverò River, facendosi strada all’interno del TARDIS. Il bagliore bluastro dell’universo alle sue spalle contornava la sua sagoma, facendola risplendere. Sembrava una fata delle fiabe venuta a salvare il bambino triste che doveva proteggere, con quella cascata di riccioli dorati che ondeggiavano sulle sue spalle mentre percorreva la sala comandi a passo spedito.
‹‹Come se le porte potessero fermarti›› replicò il Dottore, rivolgendole un sorriso stanco.
‹‹Sistemati quel farfallino ridicolo, marito. Ti porto fuori›› gli intimò River, aggirandolo per avvicinarsi alla console.
Il Dottore aggrottò la fronte, seguendola con lo sguardo. ‹‹River, questo non è…››
‹‹Chiudi il becco e fai come ti dico. Ti fidi di me?››
‹‹Beh, credo che a parte quella volta in cui hai cercato di uccidermi tu abbia…››
River lo fulminò con lo sguardo, un lampo minaccioso che si accendeva nei suoi occhi.
‹‹Mi fido di te.››
River annuì. ‹‹Allora stai fermo e guarda come si pilota correttamente questa cabina, per una volta.››
Il Dottore si aggrappò istintivamente ad un lato della console, stringendosi forte con le dita. River arricciò le labbra in un sorrisetto di scherno, mentre azionava la cabina.
‹‹Uomo di poca fede›› lo rimproverò, dando una pacca decisa al quadro comandi. Le spie si accesero una dopo l’altra in una sfilata ordinata di luci, mentre il TARDIS si accendeva con un mugolio soddisfatto. Una sequenza di cifre cominciò a correre sullo schermo, troppo rapida per essere letta, e il Dottore si rese conto con stupore che il TARDIS stava viaggiando. Non uno scossone, non un tremito. E all’improvviso, rapido come si era acceso, lo schermo si spense con un gemito elegante.
‹‹Sono o non sono la migliore?›› domandò River, accarezzando la console.
Il Dottore si morse un labbro. ‹‹Esibizionista›› bofonchiò, lasciando andare il quadro comandi.
River gli rivolse un sorriso trionfante, facendogli l’occhiolino. Poi gli mise una mano sulla spalla e lo guidò verso la porta, spingendolo delicatamente.
‹‹Non mi dirai dove mi stai portando, vero?›› domandò il Dottore, curioso come un bambino che stringe fra le mani un regalo incartato con la consapevolezza di dover aspettare fino a Natale per aprirlo.
Il sorriso di River si fece misterioso, mentre la donna si portava un dito alle labbra. ‹‹Spoiler›› sussurrò semplicemente, schioccando le dita verso l’alto. La porta del TARDIS si aprì con un cigolio, lasciando entrare una brezza leggera. Oltre la soglia, foglie scurite dalla luce solare si univano a prati infiniti, formando le linee morbide di un paesaggio che il Dottore non ricordava di avere mai visto prima.
Il Gallifreyano si accigliò, lanciando un’occhiata interrogativa a River. La donna si limitò a sorridergli, facendogli cenno di uscire.
E il Dottore uscì, mettendo fuori la testa e facendo scorrere i suoi occhi curiosi sulle curve armoniose del panorama, riempiendosi i polmoni della brezza fresca e sporgendo istintivamente la punta della lingua dalle labbra per assaporare l’aria nuova. River scosse la testa vedendo i suoi occhi illuminarsi mentre l’uomo si rendeva conto che era un mondo nuovo, un mondo su cui i suoi piedi non avevano mai poggiato. Un nuovo suolo da calpestare, nuove voci da ascoltare, nuove forme da vedere. Si sentiva ancora solo, quel vecchio uomo folle, ma era ancora capace di lasciarsi stregare dal fascino dell’ignoto. River scuoteva la testa, ma lo faceva sorridendo: la rincuorava vedere che il Dottore non aveva perso il suo entusiasmo. Era di quell’entusiasmo un po’ pazzo e della sua fame di scoprire l’universo che lei si era innamorata, e aveva tanto temuto di dover aspettare a lungo prima di poterli rivedere.
In silenzio, River seguì il Dottore sull’erba umida del pianeta, sentendo le goccioline solleticarle i piedi attraverso i sandali alti. Si era vestita elegante quella sera, perché il luogo in cui stavano andando era il più solenne che River potesse immaginare. Quella sera, River non era la professoressa Song, era River Song, moglie del Dottore, ed era Melody Pond, figlia di una madre e un padre perduti nel tempo.
‹‹Da questa parte›› sussurrò River, guidandolo nella direzione giusta. Il Dottore fremeva, guardandosi intorno come uno scoiattolo curioso, e River si sentì in colpa: sembrava così giovane in quel momento. Così innocente, così piccolo rispetto al dolore che era stato rovesciato su di lui. sembrava così indifeso, e lei avrebbe voluto alleviare la sua sofferenza, ma non poteva fare nulla senza la sua collaborazione. Se lui non voleva lasciare che il suo cuore guarisse, il suo cuore non sarebbe guarito.
‹‹Siamo arrivati?›› domandò alla fine il Dottore, incapace di trattenersi. River gli rivolse un sorriso paziente, un sorriso da madre, e gli fece cenno di proseguire. Stavano percorrendo un sentiero ordinato e pulito che sembrava nascere direttamente dal terreno e che si gettava in una foresta altrettanto ordinata davanti ai loro occhi, perdendosi nelle ombre degli alberi.
River condusse il Dottore fino al limitare della foresta, e in quel momento il Dottore si rese conto di poter scorgere in lontananza delle sagome fra gli alberi della foresta.
C’erano delle persone che camminavano fra gli alberi, fermandosi di tanto in tanto a osservare un tronco o un altro. Alcuni di loro stringevano fra la mani qualcosa di colorato, qualcosa che all’improvviso appoggiavano delicatamente sul terreno prima di svanire nella penombra della foresta.
Il Dottore alzò gli occhi verso River, senza capire.
‹‹Là›› sussurrò semplicemente River, indicando un punto fra gli alberi. E mentre seguiva la sua mano con lo sguardo, il Dottore si guardò e vide. I nodi degli alberi non erano nodi, erano occhi. Le fessure nella corteccia non erano fessure, ma bocche. C’erano dei volti scolpiti nel tronco di ogni albero, e ogni volto sorrideva. Il Dottore guardò di nuovo verso River, che gli toccò gentilmente la spalla con la punta delle dita.
‹‹È un museo. Il museo più grande dell’universo. Ogni albero rappresenta una persona che ha segnato la storia dell’universo. Il che significa… chiunque. Dal primo all’ultimo individuo che abbia camminato sul pianeta più sperduto ai confini dell’universo›› bisbigliò River, e fu in quel momento che il Dottore si rese conto che stava bisbigliando. River non bisbigliava mai. River urlava, River faceva allusioni, River si faceva sentire. Non bisbigliava mai.
In silenzio, il Dottore percorse la distanza che lo separava dal punto che la donna gli aveva indicato. Camminava piano, perché sapeva che se avesse permesso alle sue gambe di accelerare avrebbe cominciato a correre. Sapeva cosa avrebbe trovato, lo sapeva come sapeva di esistere, ma aveva bisogno di vedere.
E quando vide, rimase senza fiato.
Gli alberi si estendevano a perdita d’occhio davanti a lui, file ordinate di volti famigliari che lo guardavano. C’era Susan, sua nipote Susan, che lui aveva lasciato indietro perché potesse avere una vita serena. C’era Sarah Jane Smith, c’era il Brigadiere. E c’era Rose, amata e indimenticabile Rose, e accanto a lei Martha Jones, la donna che aveva attraversato la Terra e che aveva avuto il coraggio di partire. C’era Donna, c’era Jack Harkness. E poi, a pochi metri da lui, i volti sorridenti di Rory e di Amy.
Gli occhi del Dottore si riempivano di lacrime mentre si voltava verso River, senza fiato.
‹‹Perché?›› mormorò, con le parole che lottavano per uscire. Perché l’aveva portato in quel grottesco mausoleo, perché aveva deciso di mostrargli una cosa del genere? Il senso di colpa per le vite spezzate, il peso delle esistenze che aveva distrutto, la consapevolezza di aver perso tutti coloro che in quel momento erano davanti ai suoi occhi erano troppo da sopportare.
‹‹Guarda meglio›› lo incoraggiò River, facendo un cenno verso il terreno.
Sulle radici di ogni albero riposava un mantello di fiori, così colorato da fare male agli occhi. Erano fiori di tutti i pianeti, fiori fra i più bizzarri che si fossero mai visti nell’universo, e ogni fiore era un’anima che era passata da quelle parti e che aveva donato un pezzetto della sua storia a chi aveva donato la sua intera vita a tenere l’universo al sicuro. Ce n’erano migliaia, decine di migliaia, troppi per essere contati. Luccicavano sotto la luce brillante dei due Soli che non erano ancora scomparsi oltre l’orizzonte, e riflettevano la luce delle lune che cominciavano a stagliarsi nel cielo aranciato.
‹‹Individui da tutto l’universo lasciano dei fiori per ricordare le persone che hanno fatto la storia. Lo so, è un po’ grottesco all’inizio, ma non è un cimitero: è un monumento che incoraggia alla speranza. Questo pianeta è qui per ricordarci che tutti facciamo la differenza, e che tutti veniamo ricordati. Che siamo tutti storie, e le storie non smettono mai di essere tramandate. Ci ricorda che non dobbiamo essere tristi per quello che perdiamo, ma dobbiamo ricordarlo con gioia. Io preferisco un approccio più diretto, ma sono pur sempre un’archeologa: non fingerò di non conoscere il valore della storia.››
Il Dottore rimase in silenzio, osservando il numero di fiori brillanti che dormivano ai piedi degli alberi di Amy e Rory. Erano tantissimi, più di quanti la sua mente potesse concepire. Era stupefacente, ma non era affatto una sorpresa.
‹‹Hai migliorato le loro vite. Hai dato loro l’universo, e loro hanno fatto così tanto per questo universo che non saranno mai dimenticati. Fino ai confini dell’infinito si parlerà di coloro che hanno salvato l’universo, per il resto dell’eternità›› sussurrò River, appoggiando la mano sulla sua spalla.
‹‹E se non vuoi dare ascolto a ciò che vedi, dai ascolto a tua moglie che ti dice di non rimanere da solo perché credi di rovinare le vite di chi ti sta accanto, perché non è così. Non hai rovinato le loro vite, hai mostrato loro una strada migliore. Sono i miei genitori, e sono così orgogliosa di loro.››
   
 
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