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Autore: lulubellula    27/08/2013    6 recensioni
CalliexOwen
"La vita è fatta di contrasti continui: luce e ombra, giorno e notte, vita e morte. A volte, senza aver possibilità di scelta, ci si ritrova bloccati da una sola parte. Accade quando al buio non si sussegue la luce, quando sembra notte anche di giorno, quando ti senti morto anche se continui a respirare.
E' in quei momenti che la vita ti mette alla prova, è in quei momenti che capisce di che pasta sei fatto".
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Callie Torres, Owen Hunt
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nessuna stagione
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Lights and shadows


Camminavano ai lati della barella, non riuscivo a vederli, ma li sentivo, riuscivo a percepire il rumore dei loro passi sin troppo bene.
Camminavano con l'ordine e il raziocinio tipico di anni e anni di addestramenti, era un ritmo che avevano imparato prima e imparato ad amare poi, scorreva nelle loro vene come il sangue, la disciplina, l'amor di patria.
Lo sentivo ancora scorrere nelle mie talvolta, anche se erano passati dei mesi da quel giorno, dei mesi infernali, delle settimane interminabili, delle notti senza luna e dei giorni senza luce.
A volte mi sembrava di non essere più nemmeno in vita, nonostante il respiro lento e regolare, nonostante i battiti costanti del mio cuore, i miei occhi erano due pozzi profondi e bui, senza luce, solo ombre, senza vita.
E senza vita mi sentivo spesso e volentieri anche io.
Mi avevano congedato con tutti gli onori, ma la verità era che, così come ero a loro non servivo più, mi avevano consigliato un centro nel quale trascorrere i primi lunghi, terribili e difficili tempi da non vedente.
Il fatto era che, per la prima volta nella mia vita, avevo bisogno di tutti e mi sentivo inutile, faticavo a ritrovare il mio letto senza andare a sbattere contro il muro o il comodino, mi mancava il poter leggere un libro, nell'attesa di imparare il braille, sembrava complicato persino riuscire a farsi una doccia nei primi giorni.
Avevo una tale rabbia all'interno del mio cuore che, avrei voluto rompere gli oggetti attorno a me, scagliarli contro i vetri delle finestre, rovesciare le sedie, strappare le tende, andarmene via sbattendo la porta con ferocia.
Pensavo che non sarei mai più ritornato a vivere, che la mia vita fosse finita in Iraq, di aver perso le mille opportunità che credevo ancora di avere e che non avrei potuto fare altro che restare seduto davanti alla finestra per il resto dei miei giorni a sentire l'aria frizzante del mattino che pizzicava le mie narici e mi scompigliava i capelli.
 



 
Stavo per arrivare in ritardo a scuola.
Era il mio primo giorno di lavoro a Seattle e già rischiavo di mettere piede in classe con un manciata di minuti di ritardo.
Il marciapiede era sgombro fortunatamente, i passanti erano rari e camminavano tenendo la testa bassa e schivando le persone che venivano verso di loro, senza nemmeno alzare lo sguardo.
Avevo avuto a malapena il tempo di vestirmi in maniera decorosa e di pettinarmi i capelli, la sveglia doveva essersi rotta o probabilmente l’avevo rotta io, buttandola dal comodino per allontanare da me il rumore sgradevole che mi aveva appena strappato ad un bellissimo sogno.
Doveva essere così, non vi erano altre spiegazioni e, dopo aver bevuto un caffè espresso in tutta fretta, avevo afferrato una borsa a tracolla, lavorata a mano, e mi ero legata i capelli lungo le scale, abbozzando un sorriso alla portinaia che, per tutta risposta, aveva sbuffato con stizza, continuando a spolverare le vetrate dell’ingresso comune.
Fuori pioveva, la pioggia scrosciava con violenza lungo i vetri, scivolava sui marciapiedi sin dentro ai tombini, sulle vesti sin dentro le ossa.
E in quel momento sentivo bruciare nel mio cuore la nostalgia del sole di Miami, delle spiagge, del caldo che mi avvolgeva il corpo con il calore di un sorriso e del profumo del sentirsi a casa.
Seattle ancora non lo era: era fredda, piovosa, ventosa, congestionata dal traffico e dal un lieve velo di malumore dei suoi abitanti, come se la pioggia fosse riuscita a slavare i volti dei passanti, donando loro una sfumatura plumbea e grigia.
Ma forse era solo una mia impressione, forse era ancora troppo presto per tirare le somme.
 





 
“Hunt. Maggiore Hunt?”.
Mi appoggiai allo schienale della sedia e poi mi alzai di malavoglia.
“E’ pronto per la sua seduta settimanale?” mi chiese il mio psicologo.
Entrai nel suo studio, toccando lo stipite della porta con il piede, urtandolo con estremo disappunto.
“La mia tortura settimanale, vorrà dire” bisbigliai, nel maldestro tentativo di non farmi sentire da lui, nell’inconscio tentativo di farmi udire da più persone possibili.
“Maggiore Hunt, Owen, prima o poi dovrà farsene una ragione. Non può continuare così per sempre” mi ammonì il Dottor Awton.
“Perché no?” ribattei io con un’aria di sfida, cercando di voltare lo sguardo in direzione dell’uomo, tendendo l’udito verso la direzione di provenienza delle sue parole.
“Perché ora è la rabbia che la fa parlare, il senso di umiliazione che prova, il disgusto verso se stesso, ma non le proverà per sempre, forse per molto, ma non per tutta la vita”.
“E perché mai?”.
“Perché ad un certo punto dovrà scegliere, dovrà piegarsi di fronte a un bivio e fare una scelta. Non si sentirà così in eterno, il nodo che percepisce all’altezza del suo petto ad un certo punto inizierà a sciogliersi, comincerà a farle meno male, a sembrarle meno ingombrante e meno soffocante. Si alzerà dal letto senza inciampare contro il comodino, arriverà in bagno, trovando la maniglia della porta senza esitazione, riuscirà a radersi e a lavarsi i denti con naturalezza e prenderà tra le sue mani un libro e inizierà a leggere. Tutto questo accadrà prima che lei se ne renda conto, deve solo avere …”.
“Devo solo avere pazienza!” conclusi la frase con la voce rotta dalla rabbia e dall’angoscia.
“Lei mi sta dicendo, mi sta dicendo che nella migliore delle prospettive io riuscirò a vivere una vita a metà, che sarò in grado di badare alla mia igiene personale e godrò di tante piccole cose come …
Dannazione! Come il cinguettio dei pettirossi o il rumore del mare? Crede che mi basti? Che mi basti essere un nessuno compatito per la strada, una vittima facile da raggirare? Un uomo che non riuscirà mai più a percepire nulla che non siano ombre e compatimenti da parte del primo che passa? Non lo accetto! Non lo accetto! Non è questa la vita che voglio!”.
Iniziai a girare per la stanza senza badare agli oggetti che mi erano d’ostacolo, portaombrelli, sedie, altri che non riuscii a riconoscere tramite il semplice senso del tatto o il rumore che facevano cadendo rovinosamente a terra.
“Sono un uomo morto! Sono un uomo morto! Finito, non riesco a trovare nessun motivo per andare avanti, nemmeno uno”.
Inciampai in qualcosa che non riconobbi, ma sentii le gambe perdere equilibrio e finii per terra.
Evitai di ferirmi al volto spostando istintivamente le mani a terra, ma sentii il rumore delle mie ginocchia che cadevano sul pavimento.
Faceva un male cane, non meno male del solito.
“Posso darle una mano?” disse l’uomo, stringendo la sua mano nella mia, per farmi sentire la sua presenza.
“Ecco, che cosa le stavo dicendo? Una vita che non mi sono scelto, una vita alle dipendenze degli altri!” risposi tendendogli la mia mano e accettando controvoglia il suo (indispensabile) aiuto.
“C’è un modo in cui lei potrebbe aiutare gli altri, in realtà, potrebbe imparare a leggere il braille, potrebbe trovarsi un lavoro alla biblioteca dei non vedenti di Seattle, c’è una sezione apposita nella Biblioteca cittadina”.
“Non è la vita che mi sono scelto” ribattei con forza, rimettendomi in piedi.
“E’ la vita che hai ora e hai solo questa. Scegli: o vivi o ti lasci vivere, non ci sono altre prospettive”.
“Penso di non avere altra scelta” risposi chiudendo la porta dietro di me.
 



 
 
“Come è andata la tua prima giornata di lavoro?” mi domandò una donna sulla quarantina, dall’aria simpatica e severa al tempo stesso.
“Bene, direi, ho una trentina di bambini di sei anni che non aspettano altro che imparare a leggere e a scrivere, chissà se rimarranno della stessa idea il mese prossimo” le risposi sorridendo.
Mi porse la mano e si presentò con un sorriso: “Sono la maestra di scienze naturali, Miranda Bailey, proprio quella che ti consegnerà i tuoi alunni sovraeccitati dopo aver spiegato loro che i fenicotteri possono mangiare solo quando sono a testa in giù oppure che quando un piccolo di giraffa nasce, cade da due metri di altezza e non si ferisce nemmeno un po’”.
Io risi a quella battuta, non del tutto convinta che si trattasse di una freddura e basta.

“Calliope Torres, Callie, insegno lettura, ortografia e inglese, le basi della nostra lingua in tutte le sue sfaccettature. Sono al mio secondo incarico importante, prima di insegnare mi sono dedicata al volontariato, ho viaggiato, conosciuto persone, fatto cose e poi ho deciso di ritornare al mondo reale e di spiccare il volo, andandomene di casa e insegnando in una scuola pubblica”.
“I tuoi genitori disapprovano?” mi domandò la mia nuova collega.
Io annuii per tutta risposta.
“I miei disapprovano il novanta percento delle mia scelte. Ma sono adulta e ho una laurea in pedagogia infantile, non intendo lasciarla ammuffire senza fare ciò che amo. Perciò ho fatto la valigia e ho messo un bel po’ di miglia tra me e loro, lasciando amici, casa, gran parte delle mie certezze, non ultimo quelle economiche”.
“Sei senza un soldo bucato?” mi domandò mentre si serviva l’insalata in mensa.
“Sono senza un soldo bucato” le risposi con un sorriso.
“Benvenuta nel club!” mi disse invitandomi a sedermi con lei.
 





 
“Questa è la sala di lettura, qui vengono anche tenute le lezioni di braille e dei volontari un paio di volte alla settimana vengono a leggere a voce alta testi di vostra scelta, qualunque libro vogliate sentir leggere, qui lo abbiamo” mi disse la bibliotecaria con voce lenta ed accondiscendente, come se la cecità mi avesse portato via un po’ di udito e di senno.
Annuii e fui accompagnato ad una sedia, attendendo l’inizio della lezione, con paura, ansia, trepidazione, come se fossi tornato bambino e avessi dovuto imparare a leggere di nuovo.
 

   
 
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