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Autore: PerseoeAndromeda    03/03/2008    5 recensioni
Un ricordo lontano, una verità non detta, un inquietante presagio...
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Andromeda Shun, Cygnus Hyoga
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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SOTTO STRATI DI GHIACCIO - FINE O INIZIO?


“Che cosa hai fatto? Per Athena, piccolo pazzo, cosa hai fatto?!”.

Il mio grido disperato si spense, mentre si accendeva il sorriso disarmante sul volto del mio compagno, sempre più in preda al languore.

Non aveva neanche la forza di sollevare una mano per rispondere al mio abbraccio il piccolo Andromeda.

Tutta la sua energia fino all’ultima, minuscola goccia, l’aveva donata a me e dentro di me la sentivo, sentivo il suo calore che già aveva dissolto lo strato di ghiaccio intorno al mio corpo; scendendo lungo le viscere ancora rigide andava a riscaldare il mio cuore, la bara di ghiaccio che mi portavo dentro da molto tempo prima che Camus mi rinchiudesse nella sua, una bara di ghiaccio che non opprimeva il corpo, ma lo spirito.

Anche quella Shun aveva sconfitto?

Non lo sentivo più il gelo dell’anima, non sentivo più quello del corpo, grazie a lui.

Eppure…

Quanto era doloroso quel calore ritrovato? Quanto doloroso piangere ancora per qualcuno?

Il mio cuore era libero, ma quanto può far male la libertà data dalla capacità di amare, la libertà di un cuore cosciente che l’oggetto del proprio amore può perdersi, smarrirsi per sempre, dopo aver donato la propria vita grazie ad un calore tanto intenso da consumare ogni respiro.

Afferrai convulsamente quel corpicino ora tanto freddo da terrorizzarmi; lui mi aveva passato il suo calore ed aveva preso, da me, ogni frammento di ghiaccio possibile. Mi concentrai, richiamai il mio cosmo, supplicai Athena di aiutarmi.

“Te lo restituirò, il calore che ho dentro è tuo, riprenditelo Shun, per favore, riprenditelo!”.

“É tardi… non c’è tempo, Hyoga… tu devi andare”.

Così flebile la sua voce, le sue labbra cineree faticavano tanto ad aprirsi, eppure trovò quella forza per spronarmi, quella forza che lo rende tanto grande e che nessuno, mai, ha realmente capito, quella forza che io scoprii quel giorno, nella Casa di Libra, in quegli istanti durante i quali mi sentii tanto piccolo, inutile, un ignobile insetto che stringeva contro il proprio petto qualcosa di grande, di speciale, di bello e prezioso.

Un essere inutile io, che stringevo a me…

Il mio amore.

Lo sentii fremere, sussultare e non ebbi subito il coraggio di abbassare il mio volto per guardare il suo.

L’ultimo debole respiro si era estinto così?

Davvero il gelo aveva preso il sopravvento su un così immenso ricettacolo di calore e bontà?

Finalmente lo guardai.

Le palpebre si erano abbassate… definitivamente?

Io volevo rivedere i suoi occhi di smeraldo, volevo ancora scorgere in essi le stelle che si specchiavano, desiderose di corteggiare la sua purezza.

“Vivi” mormoravo come un ossesso, privo di ogni ragione. “Vivi, amico mio, fratello mio, devi vivere Shun. Non puoi farmi questo, mi hai dato tutto, ma non la tua vita, non la voglio. Cosa ne sarà di me, se mi lasci anche tu?”.

Nonostante la mia disperazione non riuscivo ancora a chiamarlo con quella parolina che già allora avevo dentro, non riuscivo a chiamarlo amore.

Per un istante ancora i suoi occhi si accesero di una singola lacrima, per un istante soltanto una tristezza profonda sfiorò quel viso, che diventava sempre più cereo, per una volta ancora le sue labbra esalarono lievi parole, effimere come effimera era la sua vita che si andava spegnendo:

“Perdonami. Perdonami e salva Athena… anche per me”.

Chiedeva perdono, a tanto arrivava il suo altruismo, la sua dedizione e, cosa assolutamente triste ed ingiusta, la sua convinzione di essere sempre colpevole per qualcosa, anche quando donava tutto se stesso, la sua convinzione di non dare mai abbastanza.

Ma perché?

Forse ora posso dare una risposta.

Forse il contatto che ebbe, neonato in fasce, con l’anima di Hades aveva reso il suo animo inconsapevolmente veggente e, senza comprendere lui stesso quale fosse il motivo, si sentiva fin da allora sporco, contaminato ed indegno.

O forse non è necessario scavare in eventi tanto complessi, forse è sufficiente pensare al suo ruolo: nato per essere guerriero, nato per combattere, lui che della guerra è innocente nemico.

Lo sentivo spegnersi tra le mie braccia, gli occhi si velarono un istante e si chiusero, le membra si abbandonarono con un languore che mi terrorizzò mentre un velo calava, inesorabile, sul suo volto: non più il candore gentile di una vita delicata, ma il cinereo vestito funebre della morte.

Non reagii: uno strato di ghiaccio calò ancora intorno a me, unicamente per andare in frantumi l’attimo dopo.

E in quell’attimo non ci volli credere.

Qualcosa di caldo scivolò lungo le mie guance, qualcosa che non riconobbi subito, perché quel liquido di emozioni confessate ed accettate non lo versavo da tanto, non potevo permettermelo; se avessi lasciato libere le lacrime, se non le avessi cancellate dal mio animo, in nessun istante della mia esistenza avrei saputo arginarle e non avrei saputo controllarle quando fosse stato opportuno. Ero terrorizzato dalle lacrime eppure, davanti a questo corpicino freddo del mio fratello adorato, in qualche modo ero felice: le sentivo amiche perché, se non avessi potuto piangerle, forse sarei impazzito o forse avrei perso definitivamente ogni briciolo di umanità. E ne ero certo, proprio perché Shun stesso aveva tentato di farmelo capire in ogni attimo che passavamo insieme: perdere l’umanità non avrebbe significato stare meglio, avrebbe segnato la mia definitiva sconfitta, la definitiva perdita di me stesso.

Per quanto io temessi me stesso improvvisamente compresi che, in qualunque modo fosse finita quella giornata terribile, ciò che restava dell’affetto che provavo per i miei fratelli non dovevo lasciarmelo scivolare via dalle dita, sia che mi sopravvivessero o meno. Era meglio piangerli che dimenticarli e cancellarli dalla mia vita.

Era meglio piangere per quell’angelo che giaceva abbandonato contro il mio corpo, meglio disperarsi per la sua perdita che fingere che non fosse mai esistito; allora sì che il mostro addormentato dentro di me si sarebbe risvegliato e avrebbe divorato ogni frammento della mia anima.

“Se solo queste lacrime brucianti che bagnano il tuo volto potessero riscaldarti abbastanza da permettere al tuo cosmo di rigenerarsi, di vivere ancora…”.

Nel momento stesso in cui formulai l'invocazione disperata e discreta al cosmo di Andromeda, compresi il motivo per cui non davo libero sfogo alla mia disperazione, per cui, nonostante le sue membra fossero abbandonate ed inermi, palesemente per chiunque prive di vita, io non lo vedevo morto: non volevo lasciarlo andare.

Fin dall’attimo in cui il suo ultimo alito vitale si era spento, io sapevo che non l’avrei lasciato andare.

Mi sollevai sulle gambe che avevano ritrovato il loro vigore, lo condussi con me, nella risalita del mio corpo deciso ad avanzare: avevo un motivo in più per avanzare.

Il suo peso era così dolce e ora avevo il coraggio di guardare il suo volto, perché ero certo che quegli occhi si sarebbero riaperti, che avrei rivisto ancora, molto presto, il suo sorriso; gli parlai, dolcemente, come mai avevo fatto prima d’allora:

“Andremo insieme dal gran sacerdote, fratellino e, come Athena, anche tu tornerai a brillare nel mondo”.

Sollevai lo sguardo, lo tenni fisso davanti a me e cominciai, un passo dopo l’altro, ad avanzare verso l’uscita del tempio; non avevo più provato a fermare le lacrime che sembravano inesauribili. Forse, dentro di me, speravo che potessero essere per lui un nutrimento, che lo tenessero legato alla terra, al mio corpo, al mio abbraccio, fino al momento del suo risveglio, che davo per scontato.

Una battaglia infuriava poco più avanti; il veleno dello scorpione aveva cominciato a colpire, impietoso, i corpi dei miei compagni impossibilitati ad affrontarlo. Sapevo cosa dovevo fare, sapevo che non io avrei accompagnato Shun alle stanze del gran sacerdote, sapevo che non tra le mie braccia si sarebbe risvegliato perché forse, quando i suoi occhi si fossero nuovamente aperti sul mondo, io a questo mondo non sarei appartenuto già più.

Di nuovo…

Me lo avrebbe perdonato?

Come spiegargli che il suo sacrificio era servito solo perché io, poco più avanti, donassi la mia vita per far proseguire lui e i ragazzi?

Avrebbe avuto fine quel maledetto circolo vizioso di morti e rinascite?

In quel momento, mentre riscoprivo le mie lacrime e le versavo per il mio fratellino generoso, per Ikki che non era più con noi, per gli altri nostri fratelli che stavano soffrendo, per tutti i miei ricordi che ricominciavano a fare un male lancinante dopo essere rimasti tanto a lungo congelati, per me stesso, perché forse i miei fratelli ed io non avremmo mai più camminato tutti insieme su questa terra…

In quel momento, io ero felice e non mi ero mai sentito così risoluto e forte, così convinto che i miei passi mi avrebbero condotto verso la giustizia e verso nuove, atroci sofferenze che, forse, finalmente, sarei stato in grado di affrontare…

Grazie all’angelo addormentato tra le mie braccia.


 

***

“Hyoga-kun, piangi?”.

I miei occhi sono chiusi e posso solo percepire il tocco leggero che mi sfiora una guancia, lieve come una piuma cullata dal vento.

Li apro e sussulto, colto alla sprovvista, mentre una figura leggiadra, davanti a me, fa un balzo indietro, evidentemente intimidita.

Non ho bisogno di mettere bene a fuoco il mio sguardo per riconoscere la persona che, nonostante abbia interrotto bruscamente il contatto, è ancora china su di me.

“Stai bene?” mi chiede Shun, senza che i suoi occhi verdi neanche provino a celare l’ansia che lo coglie, se vede qualcuno soffrire. “Stavi dormendo? Non volevo svegliarti, è che…”.

Argino immediatamente la valanga di scuse che stanno per cadermi sul capo, rido e lo apostrofo con ironia:

“Se dormivo adesso non dormo più, grazie a te!”.

Mette il broncio e io rido con più energia, mi alzo, lo afferrò con un braccio intorno al collo e, dopo aver attirato il suo capo contro il mio petto, gli scompiglio i capelli.

“Sto scherzando, Shun-chan!”.

Quando lo lascio andare il suo volto è basso, le guance arrossate, ma sorride teneramente; quel rossore non è una novità e io sono uno scemo, perché i miei sentimenti per lui, scoperti quel giorno nella casa di Libra, sono cresciuti dentro di me, sono diventati quasi insopportabili…

E, nonostante tutto, lui non lo sa, continua a non saperlo.

Siamo vivi, tutti, nonostante le mie paure, i presagi negativi di quel giorno lontano.

Altri giorni, altre guerre altrettanto e più terribili abbiamo dovuto affrontare, abbiamo incontrato la morte e l’abbiamo superata, eppure siamo ancora tutti qui…

E ancora non gli ho detto nulla.

Lui non oserebbe mai perché, a differenza sua, io sono impenetrabile e non lascio trapelare nulla; è vero che lo tratto come se fosse un privilegiato nel mio cuore, ma niente lascerebbe pensare che, per me, Shun sia qualcosa di più che un fratellino prediletto.

So di essere un perfetto idiota, ma non è per orgoglio, né per vergogna che non riesco a scoprirmi, non solo…

Il solo pensiero di pronunciare, anche mentalmente, quella parolina che implicherebbe tanto, mi terrorizza.

A… mo… re…

Già, io temo l’amore, perché ho paura di perderlo: è questa la risposta?

Lo guardo, mentre raccoglie tra le proprie braccia il gattone grigio che poltriva pigro su una sedia. Nasconde il viso nel pelo folto, lo fa per celare la timidezza, l’imbarazzo.

Dammi ancora un po' di tempo Shun, lascia che faccia completamente luce in me stesso; ce la farò, prima o poi.

Come se avesse ascoltato i miei pensieri, mi guarda un poco, poi i suoi occhi si spostano su un punto alle mie spalle; istintivamente mi volto, a guardare nella loro stessa direzione. Una nube nera sta pian piano coprendo il sole, fino a pochi istanti prima splendente e scevro da ogni minaccia.

Sento la mia fronte corrugarsi, un peso opprimente mi scende sul cuore; che Shun abbia davvero voluto lanciarmi un messaggio?

Colto da un terrore improvviso mi volto ancora, desideroso di incontrare i suoi occhi.

Ma lui non c’è più.

Non l’ho neanche sentito allontanarsi, come se non fosse mai stato qui, come se avessi assistito a null’altro che ad un’apparizione.

Mi porto una mano agli occhi e le lacrime ricominciano ad uscire, mentre una voce stridula, beffarda e disperata a un tempo urla, isterica, dentro di me:

Non c’è tempo! Non ci sarà più tempo!”.

E improvvisamente lo so: dovremo combattere ancora e per noi due potrebbe essere troppo tardi.

A meno che non lo sia già.

 

   
 
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