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Autore: patronustrip    29/08/2013    6 recensioni
[Esperimenti di scrittura creativa]
Skank!Quinn e una Smith e Wesson, 44 magnum.
Genere: Angst, Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Quinn Fabray, Rachel Berry | Coppie: Quinn/Rachel
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Era da tempo che volevo scrivere qualcosa di corto. In realtà pensavo ad una double-drabble di 500 parole, ma ne è venuta fuori una shot di 2335 parole.
Oggi l'ho iniziata e finita in un'ora, forse poco più, da due idee che mi sono veute in mente questo pomeriggio.
Skank!Quinn e una pistola.



La mia ultima

Era una rivoltella Smith e Wesson, 44 magnum.
La curava come se fosse mia sorella. Forse la curava anche meglio di quanto avesse interesse per noi.
Molto probabile.
Mio padre è - o meglio, era, date le circostanze che ora mi vedono “dimenticata” dagli antri della sua memoria labile, perché a quanto pare Dio gliel’ha donata, una memoria labile – ciò che si può definire un vero Americano.
Puro sangue rosso, bianco e blu, avrebbe comprato un’aquila, ci scommetto, se mia madre non si fosse mezza di mezzo. Me lo sento.
E, al di là delle solite stronzate, un vero Americano si distingue per due cose:
la bibbia
le armi
Mio padre le aveva entrambe.
Fortunatamente a me e mia sorella ardiva colpirci solo con la prima, ogni qualvolta qualcosa che non fosse dottrinalmente congeniale uscisse dalle nostre bocche. O semplicemente si fosse svegliato con Satana di traverso.
Ma c’era una cosa, che persino la bibbia non poteva fronteggiare.
La sua rivoltella Smith e Wesson, 44 magnum. Lo ripeteva così tante volte che l’ho imparato a memoria.
Ma era un gioiellino, diceva. E lo era.
Intarsiata chissà da quale mano esperta, dorata e perlata al manico. Pesante al punto giusto, e calibrata eccelsamente. Non che io ne avessi le prove allora, ah no. Nessuno poteva maneggiare la Smith e Wesson, 44 magnum, se non mio padre.
Ogni domenica andava al poligono con i suoi colleghi, e dio sì, se se ne vantava di quella pistola come non si vantava mai di me, né di Frannie.
E tornava con quel ghigno così soddisfatto e da vero Americano, repubblicano, cattolico, con porto d’armi, che mi sono più volte posta la domanda se fosse a conoscenza di qualcosa che a noi sfuggisse. L’apocalisse forse. Era per questo che si stava preparando.
E se così fosse ho come l’impressione che adesso, da un anno a questa parte, sia chiuso in chiesa a chiedere perdono dei suoi peccati, che, in parte, probabilmente, sono tratti dall’aver procreato me, e a supplicare Dio di ridargli indietro la sua Smith e Wesson, 44 magnum.
Perché ora che la guardo così da vicino per la prima volta dopo mesi, mi rendo conto di quanto mio padre avesse fottutamente ragione. E forse varrebbe davvero la pena chinarsi a chiedere perdono a nostro Signore Gesù Cristo, e reclamare a lui una pistola così bella.
Sarà un piacere morire per mano di una tale meraviglia di Dio. Mio padre ne sarebbe fiero.
Sapere che la sua amata Smith e Wesson, 44 magnum, è servita allo scopo per lui più alto. Giustizia divina.
Forse potrebbe venire al mio funerale, e piangere per la sua eroica Smith e Wesson, 44 magnum, che ha servito il suo cuore, il suo paese e la sacra Bibbia ancora una volta.
Uccidermi. Io, la vergogna più grande che sia mai nata.
Io, Lucy Quinn Fabray, oggi fisso la canna intarsiata di questa Smith e Wesson, 44 magnum, che tra poche ore mi toglierà la vita.
La adagio nel suo velluto blu, e finisco di scrivere un breve – chiamiamole ultime volontà? – memo per chi troverà il mio corpo adagiato senza vita su questa scrivania deforme e putrida, di questo appartamento il cui solo odore mi ha fatto venire pensiero di farla finita prima del necessario.
Ok, ho fatto. Il mio ultimo addio, parole vuote a chi non mi conosce neanche. Chissà se mia madre le leggerà.
Io ti odio mamma. Come odio Frannie.
Come odio mio padre.
Ed è con tutto questo odio che oggi io me ne andrò, perché neanche il 44 magnum di una rivoltella Smith e Wesson potrà bruciare più dell’odio che mi mangia le viscere.
E io mi odio.
Io che sono feccia lascerò dietro di me solo shock temporanei, un paio di articoli di giornale, magari una comparsata sul Tg nazionale.
Ma nessuno penserà a me come altro se non un peccato, che ora è tornato da Dio per poter essere rispedito dove è il suo posto. L’Inferno.
Rido. Oh Dio, sarai anche l’Onnipotente – così dicono – ma lascia che ti insegni una cosa: questo mondo che hai creato è meno preferibile, e lo sarà per sempre, di qualunque Inferno.
Chiudo la busta, la indirizzo ad un “anonimo dei suicidi”. Per sicurezza, giusto che nessuno rovini i miei piani, nascondo di nuovo la Smith e Wesson, 44 magnum sotto la trave di legno in cui è rimasta per un anno, da quando, nel mio trasloco forzato da casa dei miei, decisi di rubarla a mio padre.
Rido ancora.
Se non avrebbe pianto per me, avrebbe almeno pianto per la sua pistola.
E francamente non so perché lo faccio, adesso. Perché sto andando a scuola un’ultima volta.
Sembra come se qualcosa mi spinga a farlo. Un tarlo insistente nel mio pensiero.
Va’ a scuola.
Non so come mai. E non potrei spiegare com’è liberatorio potersi permettere di non sapere come mai, quando sai che non avrà poi molta importanza da lì a poche ore.
È un senso di … leggerezza.
Ma sono a scuola, e fumo le mie sigarette, e rido delle matricole, e evito i “vecchi amici”. E bevo birra con i nuovi.
E tutto va come un giorno normale, solo che è l’ultimo giorno normale.
Ed è strano guardare le facce di tutti, di chiunque, è come se adesso lasciassero una scia. Della serie il cervello che urla chissenefrega?! perché, cazzo, tra poche ore mi bucherai con un proiettile, cosa può fottermene a me, di ricordare la faccia di qualche stronzo?
Non fa una piega.
Ma devo ammetterlo.
Ogni sigaretta è una goduria, e ogni birra è un angelo in gola.
Ogni brezza d’aria è un respiro e ogni risata è più leggera.
Le mie ultime ore.
Tanto vale farmene un’altra, allora.
Ed è lì, tra il bruciare, dell’appena accesa dalla mano esperta di Ronnie, della mia sigaretta, che il mio nome, pronunciato dalla sua voce, echeggia sotto le gradinate.
Ah già, dimenticavo. Che fra tutte le persone che puoi evitare Rachel Berry non è fra quelle.
E la fisso un po’ stranita e una delle ragazze fa una strana battuta, mentre sta lì, minuta come al solito e completamente terrorizzata, e parla.
Dio, Rachel non fa altro. Parlare.
Qualcosa però non quadra.
Rachel ha qualcosa di diverso oggi.
Parla e parla, e ogni sua sillaba mi entra nelle orecchie, e non sembra esserci nulla di diverso dal solito, ma c’è.
Parla di tornare al Glee, dell’essere amiche, della mia voce, e-
«Mi manca non vederti più nella sala del coro.»
La guardo. E mi sento come se i miei piedi fossero ancorati al terreno, di nuovo.
E poi va via.
Fisso il punto dov’è scomparsa e non capisco.
C’è qualcosa di diverso improvvisamente, e io non capisco.
Dovrà suonare l’ultima campanella, la mia ultima campanella, e dovrò muovermi fra la folla, e fissare facce inesistenti che i miei occhi osservano come macchie sfocate dalla candeggina, per rendermi conto che
c’è un volto, un solo volto che vaneggia nella mia memoria
Che cazzo è? Che diavolo significa?
Mi guardo intorno come se qualcuno potesse prendere il mio cervello e leggerlo come un libro.
Sono solo stronzate.
Torno a casa come al solito a piedi, la mia ultima camminata, non me la godo, non mi importa.
ciao ciao mondo.
Rido, ma le mie mani tremano e sapevo che sarebbe accaduto. Mio padre me lo diceva sempre, che sono una vigliacca.
Tiro fuori la Smith e Wesson, 44 magnum dal suo nascondiglio.
Forse avrei dovuto mettere un bel vestito, pettinare i capelli? Lucidare delle scarpe? Ma mi ricordo perché sono qui.
Perché non ho niente.
Ma la mano mi trema. Cazzo.
No. Quello stronzo di mio padre non avrà ragione anche stavolta.
Carico il tamburo e impreco più e più volte quando le mie mani non riescono a centrare il buco con il proiettile.
Al mio sesto vaffanculo è dentro, preciso e liscio, e il click del percussore mi fa sudare freddo.
E la guardo. Perché voglio godere della vista del mio carnefice, così bello e complesso.
è l’orgoglio di mio padre.
e l’orgoglio di mio padre mi ucciderà.
Tiro indietro il percussore, il suo rumore è un eco come un sasso in un cimitero.
Deglutisco ed è strano pensare che sarà l’ultima volta che faccio anche questo.
ogni respiro che traggo e un numero. 25, 27, 28, 29
chissà a quale numero finirà.
La canna è fredda, ghiacciata e preme contro il mio palato. Il sapore del metallo mi invade la gola e le narici.
Cazzo. Cazzo.
io non sono una vigliacca.
Così prendo l’ultimo – 34 - respiro. E chiudo gli occhi.
lo trattengo.
lo trattengo.
lo sto trattenendo e-
Ma cazzo!
Il trentacinquesimo respiro esce dai miei polmoni e mi costringe a sputare la pistola.
Ruggisco, perché quell’immagine nella testa non ha ceduto nei miei occhi chiusi neanche un secondo in apnea.
ok.
vaffanculo.
Di nuovo.
Il 38° respiro è quello buono.
ok.
Chiudo gli occhi.
«VAFFANCULO!»
Mi alzo e scalcio, il tavolo salta con un rumore pesante, e io tremo. È rabbia, per forza è rabbia.
non sono vigliacca.
ma cazzo, se solo quella faccia scomparisse dalla mia testa.
Ma è facile dannazione, basta questo proiettile, un buco nel cervello ed è finita. Niente più facce.
niente più di niente.
«Ok … forza.»
Stavolta la punto alla tempia. Sì, voglio distruggere il mio viso, rendere irriconoscibile l’unica qualità che di me abbia mai attirato qualcuno.
la mia bellezza.
Ok non tratterrò il fiato. Niente conti, niente occhi chiusi.
finiamola qui.

Non so neanche perché sto piangendo. E perché la pistola è sul mio letto abbandonata.
Sono una vigliacca. Mio padre aveva ragione.
lo farò domani
domani lo farò
domani sarà l’ultimo giorno
devo solo togliermi questo volto e questi occhi e questa voce dalla testa.
Tutto qui.

domani.

L’aria mi trapassa i vestiti, ed è discutibile il mio gironzolare per questo quartiere.
I miei vestiti, i miei capelli, la bicicletta che sto pedalando rubata al ragazzo che distribuiva i giornali poco prima, tutto è fuori luogo.
Lo so, ho già visto la signora Philips avere quasi un infarto nel vedermi così conciata.
Lo so, in questa discarica travestita di lusso ci ho vissuto per diciassette anni.
Ma nonostante tutto rivedere casa mia mi lacera il petto.
Nella mia testa passa solo un pensiero: se avessi portato le bombolette forse avrei potuto lasciare un messaggio per papà sul suo bel Mercedes.
magari.
Ma ora non ho tempo.
Pedalo più velocemente, la discesa mi aiuta. Prendo la scatola dal portapacchi posteriore e, accidenti a me, la lancio oltre il muretto.
Atterra in quel giardino in silenzio. Neanche un saluto.
Lascio la bici correre da sola, mi volto indietro e l’ultimo pensiero non è per mio padre, o mia madre, o mia sorella.
ciao cara vecchia smith e wesson, 44 magnum.
Magari mia madre la può usare per far fuori mio padre.
Rido.

Ieri non era l’ultimo giorno.
Oggi non è l’ultimo giorno.
Domani non ne ho idea.
C’è sempre la possibilità che mi prenda in pieno un autobus.
Chiamasi karma.
L’aspetto nel corridoio, non mi andava di andare a lezione, così non ci sono andata. E sono rimasta qui ad attendere tutto il tempo.
Ho scoperto nuove cose sul mio cervello, tipo il fatto che non dimenticare il suo viso insieme a quello degli altri non era l’unico scherzetto che mi ha fatto.
So gli orari delle sue lezioni a memoria. Non chiedetemi come.
O tipo la targa della sua auto. O l’indirizzo di casa sua.
O il suo numero di cellulare, che avrò usato tipo … mai.
Gioco con una sigaretta spenta e forse questa sarà la mia ultima. Ma per un altro motivo. Spero.
Sorrido.
cazzo, io sorrido.
La campanella suona, e mi fracassa i timpani. Aspettare proprio sotto? Pessima idea.
Adocchio ogni viso uscire dall’aula, e non sono più sgorbi rovinati dalla candeggina. Hanno occhi, nasi, orecchie, alcuni persino capelli.
Ma ecco lo scherzo preferito del mio cervello, l’immagine che si ripete ciclica infinita nella mia mente, compare. Appare. Viene a me.
Sistema i libri fra le braccia e chiacchiera distrattamente con qualcuno alle sue spalle, che io non vedo, oltre la porta. Porta quelle odiose calze bianche alle ginocchia, quella orrida gonna a pois, e quel terrificante pullover giallo.
non è mai stata così fantastica.
Mi avvicino, sorpasso gli studenti, la folla, e sorrido.
cazzo, io sorrido.
A due passi e mezzo i suoi occhi si alzano, si spalancano.
E La Bacio.
E mi allontano.
Ci sono chiacchiericci, risatine dietro di me,
Ma mi importa solo del suo viso immobile, che prende colore tutt’a un tratto. Dio, non ho mai una visto una tale sfumatura di rosso.
Non dice neanche una parola.
I suoi occhi sono enormi. Davvero, non sono mai stati così grandi.
«Ma che cazzo fai?!» Finn mi urla contro e mi spinge, ma i miei occhi sono incollati a Rachel.
«Ci vediamo al Glee.»
Finn urla ancora, sembra uno scimmione. Lo spingo di rimando dicendogli di togliersi dai piedi.
Sorrido, mentre porto alle labbra la sigaretta e esco dalla porta antincendio.
Il mondo attorno a me è caotico e lo so che sono appena diventata l’ultimo divertimento dell’intera scuola. Mi fissano tutti, mentre salgono sull’autobus o si infilano in macchina.
Non vedono l’ora di raccontarlo ai loro amici, ai loro genitori.
E quando prendo un altro tiro, lo assaporo, me lo godo. E poi lo espiro. Apro gli occhi e ne trovo due, castani, fissarmi da lontano.
Immobile, i libri ancora in mano.
Lecco le labbra e guardo la mia sigaretta. Rachel mi viene incontro.
E appena i suoi piedi avvolti in un paio di scarpette perfettamente lucidate arrivano alla mia vista, piantandosi davanti a me, assurdamente, la prima cosa che sembra avere da dirmi è «Sapevi di sigaretta.»
Ok. Non mi crogiolo troppo delle sue guance ancora deliziosamente rosse e del tremore agitato della sua voce. Perché è un rimprovero, apparentemente.
Sorrido e annuisco. «È la mia ultima.» La guardo «Te lo giuro.»




Forse un po' dark, ma anche questa era una parte di me che non avevo mai svelato in questo fandom.
Spero vi sia piaciuta.

Alla prossima :)

  
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