Le ragazze chiacchierano fitto, camminando per il cortile del college, ognuna delle due stringendo un cesto di biancheria da lavare.
Bonnie le segue, sfiorando braccia che non conosce e che di lei avvertono un lieve fruscio, inciampando su piedi cui non si preoccupa di attribuire un’identità.
Elena cammina sempre allo stesso modo: le spalle aperte, le gambe lunghe e magre che s’intrecciano appena ad ogni passo, i capelli lunghi e castani che le sbattono contro la schiena, il collo un po’ piegato verso il basso, che è la vera, grande differenza tra lei e Caroline – l’altra, accanto a lei, tiene la testa alta, il collo diritto, il petto in fuori, e ha un sorriso fiero sulle labbra, uno di quei sorrisi che lasciano vedere la dentatura bianca e perfetta, che ti fanno venir voglia di ridere di rimando.
Nella testa di Bonnie, parole e immagini di un tempo lontano rimbalzano come palline da tennis, da una parete all’altra del cranio.
Tu ci credi ai fantasmi, El?
No.
Tu, Car?
Io sì.
Ah, meno male. Anche io.
A quando risale quella conversazione?
A giudicare dai fotogrammi sfocati che le albergano la mente, Bonnie direbbe “otto, nove anni fa.”
Vede tre bambine, sedute in cerchio su un tappeto rosa – la stanza di Caroline, senza dubbio -, le gambe incrociate come delle piccole indiane. La bambina dal caschetto castano, Elena, sembra rabbrividire alla domanda dell’amica dalla pelle caffellatte. L’altra, i boccoli biondi che piovono in una cascata sulle esili spalle, al contrario pare tutta elettrizzata dall’argomento.
Sì, Caroline crede ai fantasmi. O almeno, così aveva detto quella sera.
Elena no. O almeno, così aveva detto quella sera.
E, anche se Bonnie non l’avesse fatto, avrebbe cambiato opinione, perché adesso è una di loro. Un fantasma. Un essere invisibile, appena percettibile, gelido, un soffio di vento, un getto d’aria fredda e niente più, intrappolato in una cupola di vetro che anestetizza gli altri dal suo tocco ma non la protegge dalla consapevolezza di non esistere.
Quando le raggiunge, quando sfiora il gomito di Caroline con una mano e la vede scomporsi appena, si chiede perché proprio lei, almeno lei che aveva detto di credere ai fantasmi, non si accorga della sua presenza.
E si ricorda della sua domanda.
Tu, Car?
Io sì, aveva risposto Caroline.
Ma credere, sussurra una voce nella sua testa, non è sinonimo di vedere.
 

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