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Autore: Mon    30/08/2013    2 recensioni
Decise di controllare nella stanza di Sherlock e lì lo trovò, con la testa appoggiata sul cuscino, addormentato profondamente. Rimase a guardare i suoi riccioli scuri cadergli sul viso per qualche istante, poi si avvicinò, chinandosi fino ad avere il suo viso vicino a quello del suo compagno.
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Salve!!
Eccomi qui, di nuovo. Ci riprovo, cioè, questa è la seconda storia che pubblico qui, sul fandom di Sherlock. È una one-shot uscita dalla mia mente malata intorno a mezzanotte, non volevo aspettare a scriverla e quindi ieri ho cominciato a buttarla giù. Sono andata a letto intorno all'1 e mezza e oggi, appena ho avuto tempo, l'ho riletta ed eccola qui. 
Spero che vi piaccia, è tutto frutto della mia testolina bacata, che cerca di tenere il tempo occupato in attesa della terza stagione. Ditemi cosa ne pensate, probabilmente è la cosa più banale che io abbia scritto. 
Grazie a tutti quelli che avranno voglia di arrivare fino in fondo.
Alla prossima (perché ci sarà, sicuramente!).
Mon.


 

I Take Care Of You

 

John aprì la porta del 221B di Baker Street, aguzzò l’udito, ma non sentì nessun tipo di rumore provenire dal piano di sopra: nessun violino suonato, nessuno scoppiettio di qualcosa che ha appena preso fuoco dopo un esperimento mal riuscito, nulla. Si preoccupò, temeva fosse successo qualcosa, ma bigliettini attaccati alla porta che avvisassero dello svolgimento di un reato al piano superiore non ce n’erano. Andò dalla signora Hudson, la padrona di casa stava bene ed era impegnata a prepararsi la cena. 
«Sherlock è in casa?» chiese John
«Oggi ancora non l’ho visto. Forse è uscito e io non me ne sono accorta.»
Il dottore la ringraziò e le augurò buon appetito, ormai era ora di mettere qualcosa sotto i denti. John aveva fatto tardi al lavoro, quel giorno un numero elevato di pazienti si era recato allo studio medico, quasi tutti presentavano gli stessi sintomi. Era inverno e nell’aria giravano i germi dell’influenza stagionale. 
Salì le scale ed entrò nell’appartamento che condivideva con Sherlock Holmes da ormai tantissimi anni; lo chiamò, ma non ottenne risposta. Si guardò attorno; il violino era appoggiato sulla poltrona dove il detective era solito sedere, il tavolo di cucina era ricoperto di provette, in frigorifero c’era un barattolo della marmellata preferita di John, ma all’interno non c’era traccia di polpa di lamponi amalgamata con lo zucchero, bensì un pezzo di lingua. John ormai era abituato a quel genere di sorprese, non era certo la prima volta che trovava pezzi di corpo umano nel suo frigorifero. Uscì dalla cucina e si accorse che l’impermeabile nero di Sherlock era appoggiato all’attaccapanni, il detective doveva essere per forza in casa; lo chiamò nuovamente, anche quella volta non rispose.
Decise di controllare nella stanza di Sherlock e lì lo trovò, con la testa appoggiata sul cuscino, addormentato profondamente. Rimase a guardare i suoi riccioli scuri cadergli sul viso per qualche istante, poi si avvicinò, chinandosi fino ad avere il suo viso vicino a quello del suo compagno. Non era normale che Sherlock dormisse a quell’ora, anzi, non era proprio normale vedere Sherlock dormire, lui che suonava il violino alle ore più assurde della notte, lui che stava seduto al tavolo a fare esperimenti fino a che il sole non cominciava a schiarire il cielo sopra Baker Street. John spostò delicatamente il ricciolo che era caduto sul viso di Sherlock e poggiò la mano sulla fronte: scottava. Probabilmente anche il detective aveva preso l’influenza. 
Il dottore tornò in cucina, aprì la borsa che era solito portarsi al lavoro e ne estrasse una busta di medicinali; prese quello che gli serviva, poi decise di preparare un brodo caldo per il suo compagno. Una volta completate tutte le operazioni, andò nella stanza con il piatto fumante, lo appoggiò sul comodino insieme al bicchiere d’acqua e alla pillola che Sherlock avrebbe dovuto ingerire, poi, dolcemente, lo svegliò. Il moro aprì prima un occhio per constatare chi fosse il disturbatore del suo sonno, poi entrambi. «Ah John, sei tu...» disse, biascicando. Il tono di voce era ancora più profondo e rauco del solito. 
«Ci siamo presi l’influenza vero?»
«Perché fai domande inutili, quando sai già la risposta?»
John fu lieto di constatare che nonostante la febbre Sherlock era rimasto lo stesso. Il detective si spostò leggermente, girandosi con la pancia verso il soffitto, il dottore si sedette sul letto, allungò una mano per prendere il piatto con il brodo caldo e lo porse a Sherlock. «Ti ho preparato qualcosa da mangiare.» John notò lo sguardo di disapprovazione che il detective stava lanciando alla minestra fumante nel piatto e quindi continuò: «Devi mangiarla, devi prendere le medicine per far abbassare la febbre e non puoi prenderle a stomaco vuoto!»
«Non mi va!»
«Sherlock, non fare il bambino!»
Di malavoglia, il detective si mise a sedere, prese il piatto e il cucchiaio dalle mani di John e cominciò a mangiare. 
«Ti dispiace se mi siedo vicino a te?»
«Qui?» chiese Sherlock con la bocca ancora piena, indicando con la testa il posto vuoto al fianco di quello dove sedeva lui.
«E dove se no?»
Sherlock si limitò ad annuire. John scavalcò le gambe del detective e si andò ad accomodare vicino a lui. Si avvicinò e annusò l’odore buono di brodo caldo che veniva dal piatto che Sherlock teneva tra le mani. 
«Sono un bravo cuoco, vero?»
John spostò leggermente la testa e incontrò il viso e gli occhi di Sherlock, lui si fermò con il cucchiaio a mezz’aria e ricambiò quello sguardo intenso, poi John si allontanò, andando ad appoggiare le sue labbra sulla guancia calda del suo compagno. 
«John, no. Non voglio che ti ammali anche tu.»
Il dottore passò delicatamente una mano tra i capelli ricci di Sherlock, mentre guardava i suoi lineamenti marcati dalla luce della piccola lampada sul comodino. 
«Correrò questo rischio...» continuò, baciando poi nuovamente la calda guancia del compagno. Si accoccolò vicino a lui e aspettò che Sherlock finisse la minestra. 
«Adesso le medicine.» sentenziò John, quando il detective appoggiò il piatto vuoto sul comodino
«Devo proprio?»
«Avanti, prendile. Da domani comincerai a stare meglio, in due o tre giorni potrai tornare per le strade di Londra a dare la caccia ai criminali.»
Il moro guardò il dottore con gli occhi spalancati. «Due o tre giorni? Io cosa faccio tutto questo tempo a casa?»
«Sono sicuro che troverai qualche passatempo...» rispose John, alzandosi dal letto, prendendo il piatto e portandolo in cucina. Lo mise nel lavello, con l’intenzione di lavare tutto il mattino seguente, prima di andare al lavoro. Prese un’arancia e tornò nella stanza di Sherlock, accomodandosi nuovamente sul letto insieme a lui. 
Rimasero accoccolati tutta la sera, fino a che non fu l’ora di andare a dormire. John si alzò e si avvicinò alla porta, si girò per dare la buonanotte al moro, ma lui lo sorprese con una frase che non pensava avrebbe mai sentito uscire dalla bocca del suo detective. 
«Resti qui con me?»
John sorrise. «Devi avere la febbre molto alta Sherlock...»
Il moro abbassò lo sguardo, era evidente che non aveva apprezzato nella maniera giusta la sua battuta. John si affrettò a correggere ciò che aveva detto: «Scusami. Resto, certo che resto, non me lo faccio ripetere due volte.»
«Anche perché non lo avrei fatto!»
John andò a sedersi nello stesso posto che aveva occupato poco prima, si accoccolò vicino a Sherlock e lì, entrambi, si addormentarono.

***

John era seduto alla scrivania del suo studio medico; la testa gli faceva male, gli occhi gli bruciavano, tutto quello aveva solo un significato, anche lui si era preso l’influenza, un rischio che sapeva di correre vivendo e stando a contatto tutto il giorno con Sherlock malato.  
Qualcuno bussò alla porta dello studio, era Sarah; John le disse di accomodarsi, lei lo guardò con aria preoccupata.
«Cosa succede John?» chiese.
«Non sto bene, probabilmente ho preso l’influenza.»
«Allora vai a casa a riposarti, copro io il tuo turno, mi occupo io dei tuoi pazienti.»
John la guardò, sorridendole e ringraziandola. Si infilò la giacca, uscì, prese il primo taxi disponibile e si diresse verso casa. Quando aprì la porta dei 221B di Baker Street, le note del violino di Sherlock risuonavano lungo la rampa di scale. Appena John chiuse la porta queste cessarono; il dottore percorse i 17 gradini che portavano al piano superiore e, davanti alla rampa di scale, trovò il detective ad aspettarlo, le mani dietro la schiena. Lo guardò attentamente e un sorrisetto comparve sul suo viso. John lo fulminò con lo sguardo.
«Come mai sei a casa a quest’ora?»
«Perché me lo chiedi quando hai già capito benissimo cosa mi è successo?»
«Anche i dottori si ammalano allora.»
John non rispose, si tolse la giacca, andò in cucina e tirò fuori il bricco per prepararsi un thè caldo.
«Cosa fai?» chiese Sherlock, entrando in cucina e avvicinandosi a John.
«Mi preparo qualcosa di caldo, poi vado a letto.»
Il detective prese dalle mani di John il bricco del thè, lasciando il dottore perplesso. Sherlock lo guardò, lanciandogli un sorriso. «Vai a letto, te lo preparo io il thè.»
Il biondo alzò un sopracciglio. «L’ultima volta che mi hai preparato qualcosa, mi hai drogato!»
«Stavolta ti prometto che non lo faccio.»
«Non so se mi fido...»
Sherlock abbassò lo sguardo. «Dai John, tu ti sei preso cura di me, adesso voglio farlo io. È la prima volta da quando...» si fermò un istante, per poi continuare: «Si, insomma, hai capito...»
Il dottore sorrise, provava sempre un moto di tenerezza verso Sherlock che diventava improvvisamente timido quando si trattava di parlare di sentimenti. 
«Da quando? Dai, avanti, dillo! Sai che non è mai morto nessuno per una cosa così? È facile.»
«John...» sussurrò il detective.
Il dottore capì. «Va bene, scusami. Vado nella mia stanza, attendo il thè, sperando di non trovarci sorprese.»
«Se continui lo avveleno!» rispose Sherlock, mentre John era già voltato di spalle, nascondendo un sorriso.
Il biondo si infilò sotto le coperte e poco dopo Sherlock entrò con una tazza fumante di thè. Si mise a sedere sul letto e la porse a John, che la prese, bevendone subito un sorso. Il detective rimase in attesa di un riscontro positivo da parte del compagno e, quando questo arrivò, sorrise leggermente. 
«Grazie Sherlock...»
Il detective annuì e poi fece un leggero cenno con la testa, indicando il posto libero al fianco di John. «Posso?» chiese timidamente. 
«Certo che puoi.»
Il moro si accomodò vicino a John, il dottore approfittò immediatamente di quella situazione per avvicinarsi a Sherlock e appoggiare la testa sul suo petto. Il detective rimase per qualche istante con una mano sospesa a mezz’aria, poi decise di appoggiarla sulla spalla di John e tirarlo più vicino a sé. 
«Sherlock, io potrei addormentarmi, se tu hai altro da fare, non stare a perdere tempo con me, vai.» sussurrò John. 
«No, tu mi hai fatto compagnia, ti sei preso cura di me, adesso voglio farlo io. È così che funziona, giusto?»
«Non è obbligatorio.»
«Io però voglio farlo...»
John alzò leggermente la testa e guardò Sherlock che aveva abbassato la sua. «Stai ancora prendendo gli antibiotici, vero?» chiese il dottore.
Sherlock annuì. «Allora se mi dai un bacio non succede niente...» 
Il detective scosse la testa. John si sporse leggermente verso di lui, il moro si avvicinò; le loro labbra si sfiorarono delicatamente, in un tenero bacio. Il biondo sorrise, tornò ad appoggiare la testa sul petto di Sherlock e chiuse gli occhi. Il detective rimase a fissare i lineamenti del viso di John fino a che non si accorse che il suo respiro si era fatto regolare: si era addormentato. Delicatamente e cercando di non svegliare John si allungò sul comodino, prese il libro che si trovava sopra e cominciò a leggere. 

  
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