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Autore: DanzaNelFuoco    31/08/2013    6 recensioni
In principio fu la pioggia. (...)
Poi venne il vento (...)
Ci furono anche i fulmini
Dopo i fulmini, la terra tremò (...)
Infine venne la malattia.

Questa storia ha partecipato al contest "Crea la tua apocalisse - Apocalypse's time" indetto da Jayu sul forum di efp e si è classificata prima!
Genere: Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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In principio fu la pioggia.
Quella pioggia che devasta e schiaccia e rompe e incrina.
Fu la pioggia dei lampi e dei tuoni, a qualsiasi ora del giorno e della notte. Quella che non smette mai, che non dà tregua.
Fu la pioggia che ferisce e che per quanto ti stringa nel tuo impermeabile riuscirai a ritrovarti bagnato come un pulcino. E altrettanto inerme e indifeso.
Fu la pioggia che fece saltare il satellite, poi la luce. Quella per cui ci trovammo in salotto, con le finestre sigillate e le porte chiuse, stretti attorno ad una candela.
Fu la pioggia con la sua umidità che filtra nelle ossa e il caldo che non dà tregua.
Fu la pioggia delle maniche corte ad ottobre e dei ventagli che non davano sollievo.
Fu la pioggia per la quale uscire di casa era diventato quasi impossibile.
Mia sorella un giorno mi chiese: “Finiremo come Noè? Possiamo ancora costruire un’arca?”
Le sorrisi e le diedi un buffetto sulla guancia. “Nah, niente Noè.”
Ma non ne ero così sicuro.
Poi venne il vento, così forte che non si riusciva a stare in piedi.
Fu il vento che strappava i vestiti di dosso, che impediva di camminare.
Fu il vento che buttava a terra e trascinava via.
Era come essere dei palloncini d’elio, sballottati. Se perdevi il tuo piombino, non sapevi cosa sarebbe successo. Io non l’ho mai scoperto.
Mia madre uscì un giorno a fare la spesa e non tornò più. Il vento ci restituì la sua sciarpa.
Intanto il cibo scarseggiava. Non ci tagliarono l’acqua, che continuò a scorrere in sottilissimi rivoli ogni volta che aprivamo il rubinetto, ma io decisi che le piogge acide in quel momento non mi sarebbero importate e bevvi l’acqua piovana. Col senno di poi, forse non fu una buona idea.
Ci furono anche i fulmini.
Quelli furono terribili, bruciarono qualunque cosa.  Poco importava che piovesse, le fiamme parevano fuoco greco, nulla le avrebbe potute spegnere.
Il mondo bruciava e gli dei piangevano, ma nessuno sembrava disposto a salvarci.
La nostra casa non prese fuoco, non so come e non so perché, ma il nostro quartiere si salvò.
Dopo i fulmini, la terra tremò.
Lunghe scosse che ci costrinsero a scendere le scale nel bel mezzo della notte, al lume di una candela mai spenta dopo la prima scossa, e a rifugiarci sotto l’architrave portante della casa.
La prima volta ne fummo stupiti, niente luce, niente tv, niente radio, nemmeno la polizia o la protezione civile a dirci che andava tutto bene, a rassicurarci che si sarebbe messo a posto tutto.
Le scosse mi svegliarono, mi cadde un libro in testa e andai alla ricerca dell’interruttore. Dopo averlo premuto un paio di volte nel dormiveglia mi resi conto che non avrebbe funzionato. Mi prese il panico e inciampai fino alla camera dove mia sorella dormiva ignara. Mio padre ci raggiunse con una torcia, dentro aveva le nostre ultime pile. Non avevamo più corso il rischio di andare a fare la spesa dopo che mamma… 
Cominciammo a dormire in salotto, una candela sempre accesa.
Il piano superiore crollò su sé stesso alla quarta scossa e mia sorella rimase ferita da un calcinaccio. Il braccio si infettò e le venne la febbre. Il paracetamolo non serviva e noi non potevamo uscire di casa, tanto meno portarla in ospedale.
Nessuno seppe mai dirci quanto forti fossero quelle scosse, ma furono tante e mi meraviglio ancora che il piano di sotto non sia crollato.
Ogni tanto io e mio padre a turno facevamo delle sortite al piano di sopra, per recuperare oggetti utili, come i vestiti, da cui ricavammo bende per mia sorella.
Per salvarla fu necessario amputarle il braccio. Le svuotammo in gola tutto il contenuto dell’armadietto dei liquori, poi con un coltello da cucina mio padre lo fece. Vomitai
e anche lui. Tenemmo la ferita pulita e disinfettata. Non so come, ma riuscimmo a salvarla.
A conti fatti non so il perché e il come di molte cose.
Se alzo lo sguardo, posso ancora vedere la macchia di sangue che rimase sulla moquette da quel giorno.
Infine venne la malattia.
Bussò la vicina. Ci chiese se avevamo medicine, ma le avevamo usate tutte per curare mia sorella. Ci gridò contro e pianse. Mio padre le chiese cosa fosse successo e lei ci disse che il marito stava morendo. Chiazze nere si stagliavano sulle sue guancie, come lividi. Non diedi peso a quest’informazione, sapevo che il marito la picchiava e mi chiesi come potesse non essere felice che almeno una disgrazia della sua vita avesse fine.
Quando si ammalò anche mio padre, fu tutto più chiaro.
Era la malattia a causare quei lividi, sangue che usciva da arterie, vene e capillari e inondava la pelle. Emorragie interne che nessuno era in grado di fermare o anche solo localizzare.
Dopo tre giorni mio padre morì. Il suo corpo era stato cotto, come un tizzone spento. Giaceva rinsecchito e annerito come carbone ed era altrettanto duro. I suoi organi interni si erano sciolti come neve al sole e si erano mischiati al sangue infetto che aveva eroso i tessuti dall’interno. Non vi rivelerò il disgustoso modo in cui scoprimmo come agiva internamente la malattia, né , se ci penso anche ora, so come sia possibile che il corpo diventi una corazza dura invece che sciogliersi come il buonsenso vorrebbe. Vi basti sapere che dopo l’incidente con il corpo di papà, pulimmo per un giorno intero.
Smise di piovere due giorni dopo. Erano passate appena due settimane. Il sole uscì allo scoperto e implacabile fece evaporare l’acqua. Mi affrettai a portarne il più possibile in casa. Poi uscii con mia sorella, volevamo andare a vedere come stavano gli altri. In fondo avevo sempre sperato che mia madre sarebbe tornata sorridente dicendo di essersi rifugiata da qualche parte. Avevo sperato che fosse successo solo a noi. Avevo sperato che una volta usciti di casa saremmo potuti andare in ospedale.
Avevo sperato che mi sarei svegliato nel mio letto nella mia camera al secondo piano e che mia madre mi avrebbe portato del caffè caldo augurandomi il buongiorno. Avevo sperato che fuori ci sarebbe stato un sole gentile e novembrino, docile e calmo, e che mio padre sarebbe stato giù in poltrona a guardare la partita mentre mia sorella avrebbe telefonato alle amiche.
Invece mi resi conto all’improvviso che dalla cucina non si sarebbe mai più alzato l’odore del caffè preparato da mia madre perché mia madre non sarebbe mai tornata. Al più mi sarei dovuto accontentare del puzzo marcescente che si levava dal congelatore ormai in disuso da due settimane. E mio padre non avrebbe mai più guardato una partita.
Fu mentre queste considerazioni mi piombavano addosso, sotto un sole deciso e caldo che di autunnale non aveva niente che mi resi conto del livido sul collo di mia sorella.
“Come te lo sei fatta?” le chiesi impaziente e preoccupato.
“Avrò… avrò sbattuto contro la porta uscendo.” Cercò di rassicurarmi lei, ma forse era più rivolta a sé stessa.
Non aveva sbattuto contro la porta. La malattia la prese, esattamente come aveva preso papà e dopo tre giorni di lei non restava che un corpo carbonizzato pieno di liquami mefitici.
Uscii di casa per cercare aiuto, sapevo che la vicina era morta, ma bussai alla sua porta per disperazione. Non mi rispose nessuno, così come nelle altre case del vicinato.
Feci per uscire dalla strada e andare a chiedere ad altri, ma un crepaccio si apriva all’inizio della via. Era talmente profondo che si perdeva nell’oscurità, mentre era troppo largo da saltare.
Sono intrappolato in questo quartiere morto.
Non è passato nemmeno un elicottero e io so che in fondo sono tutti morti.
Penso che sia stata colpa dell’acqua piovana se sono sopravvissuto. Nessuno con un po’ di cervello l’avrebbe bevuta, ma io l’ho fatto. E adesso loro sono morti e io no.
Dopo la morte di mia sorella ho aspettato due settimane.
Sono entrato nelle case altrui e ho trovato tutti morti. Sempre che le case ovviamente non fossero già state distrutte dagli incendi o dalle scosse di terremoto.
Non ho fame, sono riuscito a prendere abbastanza cibo secco da fare tre pasti completi per almeno altre tre settimane. Poi se ce ne fosse bisogno potrei entrare in altre case, ma per cosa?
Perché dovrei vivere, quando tutta la mia famiglia è morta? Quando tutto il genere umano è probabilmente passato a miglio vita? Cosa mi spinge a vivere in salotto circondato dal cadavere di mia sorella e da quello che rimane di mio padre? La risposta è “niente”.
Se state leggendo, sfortunati esseri umani sopravvissuti o alieni tanto pazzi da atterrare su questo pianeta di miserie, sappiate che il mio corpo giace in quel burrone che il terremoto ha creato.
Adesso sono pronto ad andare. Voi, se mai ci sarete e questo foglio scribacchiato in fretta non rimarrà preda del vento e del tempo, sappiate cosa ci è successo.
Addio. 
  
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