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Autore: The queen of darkness    02/09/2013    0 recensioni
Quando la vita presenta ghirigori stranissimi prima di donare una felicità assoluta.
( questa storia è stata precedentemente cancellata per motivi di formattazione. Vi chiedo di portare pazienza; i capitoli verranno ricopiati e la storia procederà con lo sviluppo ideato precedentmente. scusate per il disagio.)
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Tesoro, stai ferma. Non muoverti. Se provi ad urlare ti ammazzo, hai capito?

All’improvviso, nella lugubre tenebra della stanza, una luce affiorò laddove doveva esserci una porta. Faceva poca differenza, in effetti: rimanendo sempre chiusa da un pesante catenaccio, era praticamente impossibile schiodarla, e di certo un’adolescente denutrita come non sarebbe riuscita a farlo.

Smettila di scalciare, tanto è inutile! Stupida puttanella, se non la pianti subito con queste scenate ti chiuderò qui dentro per un mese, chiaro?

Anche se era in punizione, non poteva impedirsi di cercare di liberarsi. Non riconoscendosi colpevole delle colpe a lei riconosciute, le pareva che tutta quella manfrina fosse solo una grande ingiustizia per giustificare le voglie violente e sadiche del suo aguzzino.

Adesso basta! Dirò a tua madre di gettare via la chiave!

No, no… ti prego, farò la brava bambina, te lo prometto!

Vuoi che chiuda? Eh? Vuoi che chiuda?!

No! No, ti prego, no! Faccio la brava, faccio la brava!

Bene, così va bene. Vedi che sai fare la bambina ragionevole, quando vuoi?

 

Eva si svegliò di soprassalto, madida di sudore. Si portò le mani al collo, poiché le pareva di soffocare, ma lo sentì nudo ed esposto in modo rassicurante.

Chiuse gli occhi; odore di sigaro stantio e di muffa, umide chiazze sul pavimento di cemento e una lavatrice rotta in fondo alla stanza.

Persino le palpebre tremavano. Il terrore gelido stava allungando i suoi artigli sul suo corpo ancora una volta.

“Respira” si disse. “Quell’uomo non può più farti del male”.

Cautamente, riaprì gli occhi. Davanti a lei, c’era la sagoma di un comodino e quella più imponente di un armadio a due ante, mentre la lampadina nuda del bagno, penzolante dal soffitto, brillava a scatti illuminata dalla luna.

Si voltò alla sua destra, e scoprì la fonte della luce: aveva lasciato la finestra aperta. Lentamente, i ricordi del giorno prima si fecero tiepidamente strada nel suo corpo e riprese a respirare con regolarità.

“Sono a Bergen, nel New Jersey, con la squadra per cui lavoro. Stiamo cercando di risolvere un caso di omicidio plurimo e qualche ora fa le autorità locali ci hanno messo a disposizione delle camere d’albergo”.

Appreso questo, si calmò. L’ondata sconvolgente di ricordi si era presentata sottoforma di patchwork di suoni, odori, sensazioni e situazioni. Quando quell’uomo la metteva in punizione, e le veniva regolarmente a fare visita, provava la stessa sensazione terribile che aveva sperimentato nuovamente sulla propria pelle.

Era stata un’esperienza terribile anche solo da sognare di nuovo, ma era passata. Anche solo sapere di essere finalmente lontana da lui la faceva stare meglio e, per pura precauzione, si mise a regolarizzare il respiro con una tecnica yoga che aveva visto fare in TV.

La sveglia sul comodino battè le tre e mezza spaccate. Eva sospirò, massaggiandosi il collo e sapendo che non sarebbe riuscita ad addormentarsi a breve.

Non andava bene così; era da quando si era trasferita che attacchi di panico così violenti non tornavano a spaventarla, e si era goduta la rigenerante tranquillità come se fosse stata una ventata di aria fresca. Il fatto che i suoi disturbi tornassero proprio mentre era sotto pressione per il nuovo lavoro, lasciava intendere sia una causa che un problema.

La prima era sicuramente dovuta alla carica di immagini terrificanti che aveva dovuto guardare per tutto il giorno, e il secondo derivava dall’assicurata mancanza di riposo che ne sarebbe derivata, viste le sue difficoltà a dormire persino nella sua prima nottata.

Con un sospiro, si alzò dal letto e si chiuse nel bagno. Aveva bisogno di pensare. Immerse due volte le mani nell’acqua gelida del rubinetto e se le spruzzò in faccia, poi legò i capelli in una coda alta e si rassegnò davanti al bisogno di uscire.

Quella sera, quand’erano arrivati all’albergo, una cameriera anziana si stava lamentando con una più giovane del fatto che le lavanderie si trovassero all’ultimo piano, attigue al tetto; forse, con un po’ di fortuna, sarebbe riuscita ad accedere alla terrazza anche solo per un breve momento.

Era rischioso e stupido, ma d’altra parte era un agente federale (in prova) e aveva una certa autorità (una volta completati i corsi), uniti anche al rispetto che si doveva dare ad una persona che lavorava per il governo (in via informale) con una carica anche di riguardo (consulenza non specializzata in crimini generici), e sicuramente le avrebbero permesso quella piccola trasgressione.

Quel pensiero era deprimente, ma cercò di ignorarlo. Agguantò il suo distintivo piuttosto spoglio, che le permetteva solo di entrare e uscire dalla struttura senza essere arrestata, e se lo ficcò nell’ampia tasca del pigiama. Poi, con passi furtivi, uscì dalla camera d’albergo assicurandosi di essere sola.

Per motivi di praticità, tutti gli agenti avevano occupato un solo piano. La sua camera era posta fra quella di JJ e Prentiss, entrambe sfinite. Non aveva dubbi circa il fatto che fossero crollate subito dopo aver toccato le lenzuola.

Il problema principale sarebbe stato Hotch poiché, come immaginava, da sotto la sua porta brillava fiocamente una luce.

“Che sia rimasto alzato fino ad adesso per studiare il caso?” si chiese. Scartò subito l’ipotesi: con il cervello già affaticato da ore e ore di veglia sarebbe stato decisamente troppo poco produttivo mettersi lavorare in quel momento. Forse si era semplicemente dimenticato di spegnere la luce, chi lo sa.

Una volta superato con successo anche l’ultimo ostacolo, attese l’ascensore (fortunatamente attivo anche a quell’ora), e premette il pulsante per il piano più alto. Aveva ragione di credere che dalla lavanderia si accedesse direttamente al tetto, anche perché era quella l’altezza massima che il cilindro metallico potesse raggiungere.

Non dovette aspettare molto per scoprirlo, comunque: arrivò a destinazione pochi secondi dopo.

Dovette ammettere che la vista sul piano deserto un po’ la intimorì, ma non si lasciò scoraggiare; aveva sinceramente bisogno di una boccata d’aria, e non si sarebbe fermata davanti ad un interruttore rotto.

Una porta molto simile a quelle delle camere per gli ospiti annunciava l’entrata alla sala asciugatrici, ma la giovane agente passò oltre. Superò un altro paio di scritte e, aggirando quello che pareva un brusio di una caldaia, spinse la porta antincendio e si ritrovò davanti ad una scaletta in cemento che si affacciava sull’aria della notte.

Si lasciò sfuggire un’esclamazione soddisfatta e, avendo cura di lasciare aperto uno spiraglio per rientare, salì i gradini e posò i piedi nudi su una piattaforma gelida.

La dolce brezza nottura le scompigliò i capelli, e lei se ne colmò i polmoni con lenti respiri. Il freddo le schiariva le idee e la riportava alla calma anche nelle situazioni più critiche, e già sentiva i pensieri farsi ordinati in lunghe file nella sua mente, lasciandole uno spazio completamente vuoto dove trovare un attimo di pace.

Si lasciò riempire dall’ambiente deserto ad occhi chiusi, gustandosi la solitudine. Le piacevano gli ambienti privi di esseri umani, perché avevano quella rara bellezza che può essere colta solo da un paio d’occhi alla volta. Non aveva senso rinchiudersi in stanze affollatissime senza neppure riuscire a respirare; non era molto meglio rifugiarsi su di un tetto abbandonato per guardare la luna?

-Eva?! C…cosa ci fai qui?!

La magia fu spezzata con uno schiocco secco. Sobbalzando, la ragazza si ritrovò in controluce la figura alta e allampanata di Reid, appoggiato alla balaustra.

-Santo cielo! – esclamò, colta con le mani nel sacco. I battiti accellerarono come un treno in corsa.

Dovette persino riprendere fiato, e si appoggiò con i palmi sulle ginocchia per cercare di elaborare la situazione in modo razionale. Cosa non facile, viste le circostanze.

-Mi…mi hai spaventato! – lo accusò.

“Dunque è questo il risultato dei miei sforzi mentali?” si chiese, sarcastica.

-Io… non volevo, è solo che… ti ho vista sbucare all’improvviso e… - il ragazzo si crucciò, -… non è stata colpa mia, sei tu che mi hai spaventato!

Capendo che rispondere a tono non avrebbe avuto alcun senso logico, la ragazza mostrò il palmo con fare conciliante.

-D’accordo, diciamo che abbiamo entrambi preso un colpo. Ho solo bisogno di una boccata d’aria, poi torno dentro.

Reid annuì, brevemente, stringendosi le braccia attorno al petto e chiudendo le mani sotto le ascelle. Vedendolo in ombra, sembrava quasi la sagoma di uno spaventapasseri.

La ragazza si avvicinò al punto di osservazione di lui e capì il motivo di tale scelta: da quel lato c’era meno luce artificiale ed era possibile guardare con maggiore attenzione la volta stellata sopra di sé.

Anche Eva si protesse con le braccia, ma non disse nulla. Non aveva voglia di fare conversazione, era troppo stanca; nonostante gli apparenti sviluppi, infatti, quella giornata si era rivelata piuttosto infruttuosa, e non era emerso nulla di grande interesse nemmeno dall’interrogatorio di Smith. Avevano letteralmente le ore contate, visto che il giorno dopo l’uomo sarebbe stato trasferito al penitenziario per affrontare, in seguito, un processo, e non potevano perdere tempo con quello che sarebbe stato il suo avvocato d’ufficio.

-Nottata difficile, eh? – commentò Spencer, all’improvviso.

Lei annuì mestamente. –Già.

-Sei ancora convinta a trasferirti? – domandò, sommessamente.

Eva fece un mezzo sorriso. –Allora è questo che ti preoccupa?

Il ragazzo sospirò. –Rispondendo ad una domanda con un’altra domanda, in genere, si vuole assentire.

-Non analizzare il mio comportamento, ti prego – lo pregò la ragazza, scuotendo il capo. - Sono stata sotto esame per tutto il giorno, e non mi piace l’idea di essere sezionata anche da te.

-Scusami, io… non era mia intenzione. Mi dispiace – farfugliò.

Eva alzò le spalle, come per fargli capire che era tutto a posto.

-Ne hai già parlato con Hotch?

-No. oggi era molto stressato…la Strauss continuava a chiamarlo per chiedergli di me. Sai, avrei scatenato un secondo S.I. se gliene avessi parlato.

Spencer fece uno sbuffo divertito. Si misero entrambi a pensare al numero dei killer nella città, visto che ormai era noto a tutti i membri della squadra che si trattava di due persone distinte.

Evitarono quasi di comune accordo l’argomento, però, visto che ne avevano entrambi abbastanza del lavoro e, entro tre o quattro ore, avrebbero dovuto ricominciare daccapo.

-Mi mancherai, comunque – continuò il ragazzo. –È bello lavorare con te.

Lei sorrise. –Anche a me piace molto.

-E allora… - lui deglutì, - … e allora cosa ti spinge ad andartene?

Eva ci pensò un po’ su, fissando la luna intensamente quasi come se potesse arrivare a toccarla. Era perfettamente tonda, bianchissima e pareva pulsare; era uno spettacolo decisamente bellissimo, anche se spaventoso.

-Vedi, Spence, ti ricordi che dovevo essere affidata ad una famiglia di Atlanta? – chiese, a voce bassa.

Lui annuì, confuso.

-Ecco, era la famiglia sbagliata – fece una risata priva di gioia. Lui si sentì gelare.

-Il padre era un pervertito, e la madre così sottomessa da non muovere mai un dito. Dopo la morte del loro unico figlio, prima che arrivassi io, le cose erano peggiorate terribilmente. Non so come fecero ad ingannarre gli assistenti sociali, davvero non riesco a capirlo.

Assunse un’aria malinconica e assente. –Però ci sono riusciti.

Reid si sentì come se ogni singola goccia di sangue nel proprio corpo fosse diventata un cristallo di ghiaccio. Nelle sue vene si ammassavano strati su strati di neve condensata, come se lui fosse un pupazzo esposto in un giardino e non un comune essere umano.

Nel suo lavoro doveva trattare casi simili ogni giorno. Uomini squilibrati che tenevano in pugno la propria famiglia e costringevano ogni suo componente ad essere un osservatore passivo dei propri misfatti erano casi molto più comuni di chiunque pensava.

Tuttavia adesso, trovandosi di fronte a questa possibilità orribile, gli pareva che tutto il mondo fosse solo un immenso abominio, un inferno di corpi contorti e perversi, continuamente aggrovigliati in un’oscena danza di disonore e falsità. Com’era possibile che una persona dovesse vivere così tanti dispiaceri, in una vita sola?

Il suo altissimo Q.I. non lo aiutava in situazioni del genere, così come la razionalità l’aveva del tutto abbandonato. Si sentiva solo, e sconvolto. Era la sensazione più brutta del mondo.

La ragazza deglutì, senza guardarlo. Sembrava non averne la forza, e continuava a fissare la luna. E poi riprese, lentamente, con il suo racconto, con il tono di voce di un’anima che si confessa senza avere troppa speranza nel potersi sentire meglio una volta finito.

-Lui le chiamava “punizioni”. Si inventava un pretesto qualsiasi durante la settimana e mi rinchiudeva in cantina, legandomi con un catenaccio al muro. Mi veniva a trovare spesso, e stava con me per delle mezz’ore. Spesso anche due volte in un giorno. Quand’era frustrato, tre. Era sempre terribile, come puoi immaginare.

-È questo, il motivo – aggiunse poi, anche se era una spiegazione superflua.

La totale mancanza di emozioni nella sua voce sconvolse Reid molto più a fondo di quanto avrebbe immaginato. Tante volte, nella sua vita, si era chiesto cosa ne fosse stato della sua amica, della sua unica confidente, ma la sua immaginazione mai sarebbe arrivata a quel punto.

Si era illuso per tanto tempo che Eva avesse finalmente trovato una brava famiglia, un caldo ambiente in cui crescere serenamente e che il suo potenziale sarebbe stato finalmente sfruttato nel modo giusto, ma in fondo al cuore aveva quasi immaginato che non sarebbe andata così.

In quel momento, comunque, gli pareva quasi che il cuore gli si stringesse in una morsa e che si stesse liquefacendo sul pavimento. Indietreggiò di un passo per una sorta di istinto condizionato, con gli occhi sbarrati.

-Eva… m…ma… - cominciò, tuttavia lei lo interruppe con un gesto della mano.

-Lascia stare, ti prego. Non voglio che tu mi compatisca, e non è assolutamente colpa tua. Toglitelo dalla testa; dal momento che tu sei molto importante per me, ho capito che prima o poi avrei dovuto dirtelo e… basta, semplicemente questo.

-Ne hai mai parlato con qualcuno? – lui si schiarì la voce. Aveva bisogno di pensare razionalmente, di lasciare che la cortina di nebbia nella sua testa si diradasse.

Lei fece un sorriso triste, guardandolo da sotto in su per la prima volta.

-Ne sto parlando con te.

Con un trauma così violento, per altro perpetrato da colui che avrebbe dovuto garantirle un futuro stabile, era difficile continuare la propria vita senza ferite sanguinanti. La frase che la ragazza aveva appena pronunciato lasciava capire che, nonostante tutto quello che aveva passato, non si era mai rivolta a nessun esperto qualificato o qualcuno che potesse darle un sostegno.

Spencer era a pezzi. La piccola, dolce Eva, la prima persona che avesse mai amato in vita sua, aveva dovuto subire tutto quello solo per una crudeltà del destino. La vita era così tremendamente… ingiusta.

Di slancio, senza pensarci troppo sopra, Reid l’abbracciò.

Non aveva mai preso spontaneamente il contatto con qualcuno, in vita sua, come per timore di essere respinto. Ma, quando le braccia magre di Eva circondarono le sue scapole tese, si pentì di non averlo mai fatto. Era una sensazione davvero bellissima: il corpo di lei sembrava davvero minuscolo in confronto al proprio che, nonostante l’altezza, era comunque molto magro.

Il respiro della ragazza si incrinò quasi subito, ma il sollievo nel cuore del ragazzo, tormentato dalla pena, non scomparve comunque: gli pareva finalmente di aver scovato un modo per poter avere l’anima della ragazza messa direttamente in contatto con la propria.

E poi, anche se Eva stava piangendo calde lacrime di vergogna e umiliazione insieme, riuscì a trarre un lieve conforto dalla presa sempre meno esitante del giovane uomo. Nonostante gli anni passati, riuscì a capire che lui non le avrebbe mai e poi mai fatto del male.

Reid avrebbe voluto sussurrarle all’orecchio che l’amava, e che così era sempre stato, ma non ne ebbe il coraggio. Rimase così, in piedi, a stringerla e a cercare di far fluire la propria vita in quella di lei, ma l’unica cosa di veramente sincera che riuscì a dirle fu “mi dispiace”.

Gli dispiaceva, gli dispiaceva eccome. Non trovava altri modi per dirlo, e sapeva che lei avrebbe capito. Lei capiva sempre tutto.

Essendo lui troppo goffo nei rapporti con le ragazze e lei troppo stanca per reagire, rimasero fermi in quella posizione per molto più tempo del necessario. Eva smise di piangere e Reid riprese a pensare lucidamente.

Quando l’alba cominciò a rosseggiare all’orizzonte, convennero nel doversi ritirare. Ma qualcosa era cambiato, fra loro, anche se non avrebbero saputo dire che cosa.

  
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