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Autore: tortuga1    03/09/2013    1 recensioni
La leggenda di una donna scomparsa e mai ritrovata che ancora terrorizza con le sue apparizioni una piccola isola del Tirreno (chi è andato alle Eolie la riconoscerà) s'intreccia con la storia di Giacomo, tornato all'isola suo malgrado, Agata, un tempo amica della donna scomparsa, Luigi e Salvatore, studenti lavoratori stagionali, e Maria, la bella proprietaria di un albergo sul mare.
I personaggi e le circostanze sono immaginari, ma la tradizione popolare racconta spesso storie di anime senza pace, che raggelano, al crepuscolo, i paesaggi e la pace olimpica di certi preziosi angoli del mediterraneo.
Ritorno ad isola è una storia di fantasmi ma contiene anche più di una storia d'amore
Genere: Sovrannaturale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Contesto generale/vago
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I.

Il sangue ha smesso di scorrere e comincia a rapprendersi. Sul pavimento di cemento rustico cosparso di fili di paglia ha formato un rivoletto scuro, si è spinto verso la scala di legno, poi ha perso energia e si è fermato. Dal battente semiaperto della finestra entra una lama di sole caldissimo e si sente ronzare un moscone. Fuori, lo scalpiccio dei passi disperati si è perso nel canto sempre uguale delle cicale. Vicinissima alla faccia di Giacomo una formica si accosta alla striscia di sangue, la tocca con le antenne, sembra assaggiarla e corre via.

Giacomo non riesce ancora a muoversi e parlare. Nascosto sotto il letto ha visto tutto, anzi, quello che è successo lo ha costretto a guardare, gli è entrato dentro anche se lui non voleva.

E ora, sotto il letto, sente i rumori familiari della casa, sente l’odore della polvere, del letto disfatto e questo odore nuovo, disgustoso e dolciastro.

Pensa a com’era la vita prima di oggi, la sabbia del mare sotto i piedi nudi, e i giochi lungo la spiaggia o in mezzo alla macchia, i primi tuffi nell’acqua salata e pulita, la voce della mamma che lo chiamava. E la voce della montagna, che lo svegliava di notte mentre i vetri tintinnavano e il letto ondeggiava. Non aveva paura, della montagna.

Di suo padre, invece, sì che aveva paura. Era grande e terribile, nero e bianco di barba e capelli, con gli occhi sporgenti arrossati e la voce più forte di quella del vulcano. Quando tornava a casa, aprendo la porta con una pedata, Giacomo si nascondeva dietro la gonna della mamma e si faceva ancora più piccino, però non riusciva mai a farla franca. C’era sempre qualcosa di sbagliato in quello che faceva o diceva, e finiva sempre col prenderle. Le mani callose del padre lo colpivano dove capitava, sulla bocca o sul naso o sul collo, non faceva caso, ma era sempre dolore e paura. Più paura che dolore, in fondo si era abituato anche agli schiaffi e ai calci, ma la cosa che lo paralizzava erano le urla, le orecchie gli fischiavano, poi, e rimaneva in un angolo a tremare.

Il padre non era mai contento, tornava a casa puzzolente di vino e copriva d’insulti chi gli capitava prima a tiro.

Giacomo si trascina fuori dal nascondiglio. Non guarda verso il corpo rattrappito in un angolo, non vuole guardare, ma poi si gira, come attratto da una calamita.

L’accetta ha aperto la fronte come una zucca, è scesa lungo l’orbita spostando l’occhio, che ora sembra ammiccare, e si è fermata contro lo zigomo. La camicia è zuppa di sangue, che ha continuato a colare mentre il respiro si faceva affannoso e poi gorgogliante.

Ora il corpo è perfettamente immobile, ma Giacomo ha ancora paura, non riesce a toccarlo e nemmeno ad avvicinarsi. Girando al largo, e cercando di evitare la striscia di sangue sul pavimento, finalmente Giacomo riesce a scivolare fuori, giù per la scala ripida, e poi nel sole e nel concerto delle cicale.

***

 

 

L’isola è rimasta identica, lo stesso profilo che aveva quella sera che lo avevano portato via. Gli sembra di guardare un film che scorre alla rovescia, prima la sagoma indistinta nella bruma, poi compare la costa alta e la vegetazione avara, e l’aliscafo costeggia il promontorio rossastro, una costa più verde con qualche villa nascosta dagli alberi, e infine il porto minuscolo, con il lungo molo e le case bianche arrampicate sulla collina. La poca gente che scende, in questo giorno grigio di marzo, non fa caso a Giacomo che è rimasto fuori, a imprimersi nella mente ogni attimo del viaggio, ogni spruzzo di spuma e ogni volo di gabbiano. Ora guarda avidamente, e capisce che molte cose sono cambiate, alberghi tirati a lucido dove c’erano solo catapecchie, una moltitudine di casette nuove, la strada acciottolata di fresco, cantieri aperti dovunque per imbiancare, stuccare, ricostruire. Eppure tutto è fatto con discrezione, l’impressione globale è di immutabilità.

Scende dall’aliscafo per ultimo, prendendo una piccola valigia di fibra sintetica e una borsa nera. Ad aspettare i pochi passeggeri ci sono le solite motoape, e ora qualche macchina elettrica. Dice il nome di un albergo, e mentre l’ape parte con i bagagli traballando e mandando una scia di fumo azzurro, si avvia a piedi. Alla fine del molo prende una stradina stretta e ripida che serpeggia in mezzo alle case, passa accanto a negozi chiusi e alberghi in ristrutturazione. La strada sale ancora, poi prosegue quasi in pianura, il mare a sinistra, a destra la costa coperta di ginestre, fichidindia e capperi. La passeggiata gli piace, si sente aprire il cuore ad ogni angolo, quando si scopre un pezzetto di paesaggio ancora nascosto, e tornano i ricordi. Pochi ricordi, per la verità. Cose davvero elementari: il sapore del pane con il pomodoro, o il buon odore di fumo che facevano i capelli della mamma. E intanto Giacomo non cambierebbe questi pochi ricordi con tutte le cose che ha fatto poi, in una vita intera.

I primi giorni a Milano, con la sorella della mamma. Aveva solo quattro anni, quando era arrivato, e non capiva quello che gli dicevano i cugini. Loro parlavano in italiano, lui solo in dialetto stretto, così solo la zia riusciva a tirargli fuori qualche parola. Chiedeva sempre della mamma, e la risposta era sempre la stessa: sta male, ma guarirà presto. Il primo Natale passato lontano dall’isola, così diverso, con le luci e i regali, ma senza la mamma. E sì che Matteo, lo zio, era tutto il contrario di papà: sempre sorridente e affettuoso, e pian piano Giacomo aveva cominciato ad amarlo.

E poi la scuola, che ti trasforma e ti insegna a nascondere quello che pensi, e non dire mai da dove vieni. E alla fine l’università e la laurea in medicina, orgoglio degli zii che se ne sono fatti un punto d’onore. Ora Giacomo ha quarant’anni, fa il chirurgo in un importante centro oncologico e ha una tranquilla vita di coppia con una collega più giovane.

Negli ultimi tempi, dopo la morte di zio Matteo, la zia è diventata irritabile e lamentosa, dice di non sopportare più Milano, eppure era stata proprio lei a fuggire via dall’isola, cinquant’anni prima, attratta dal miraggio della città.

Così, all’improvviso, ha deciso di tornare, e pretende di stare nella stessa casa che abitava allora. Ci sono state decine di penosi colloqui con Giacomo, che ha cercato in tutti i modi di dissuaderla: cosa farà mai in un’isola sperduta, affollata di turisti per due mesi e poi abbandonata per il resto dell’anno?

Ma la zia Lina è dura come un macigno. Dice: se non mi vuoi aiutare, andrò da sola. E così, invece di andare in vacanza in Egitto, Giacomo è sceso all’aeroporto di Catania, e da lì in treno ha raggiunto la porta delle isole, la bella cittadina ferita dalle frecce avvelenate del progresso.

Strano, in tanti anni non aveva mai pensato di andarci in vacanza, meglio la Grecia o la Slovenia o l’Africa, complici i tour operators e la pubblicità. Mentre aspettava l’arrivo dell’aliscafo, si era congratulato con sé stesso per non averlo fatto: la cittadina imbruttita dalla raffineria, avvelenata dalla centrale termica e congestionata dal traffico, il molo sgangherato e arrugginito, anche la gente gli sembrava grassa e sgraziata, con lo sguardo torvo. Ma poi, quando l’imbarcazione rombante si era staccata dalla riva, qualcosa lo aveva preso al centro del petto, come una mano che stringeva senza far male, e lui era uscito sulla piattaforma piena di spruzzi, si era aggrappato ad un montante e ci era rimasto, incantato, a guardare la magica cittadina con il castello in alto, e poi il cimitero bianco e il capo lussureggiante di pini e macchia. E il mare, anche in un giorno senza sole, limpido e profumato. E quando l’isola era comparsa all’orizzonte…

Dopo la chiesa, un alberghetto dall’aria dimessa, con vista sul mare. Naturalmente è vuoto, ma almeno, sentendo il cognome della zia, hanno accettato di accoglierlo, mentre gli altri sono stati irremovibili. Chiuso per ferie, apertura solo a Pasqua. Giacomo varca la semplice porta d’ingresso, e si ritrova in una stanza in penombra, da un lato il bar con il bancone in muratura, ingombro di bottiglie polverose, dall’altro una fila di poltrone scompagnate. In fondo, una grande portafinestra con le tende semiaccostate, e all’esterno mimose fiorite e il mare.

– C’è qualcuno?

– Arrivo, arrivo! – la voce viene da dietro una tenda a fiori, che si scosta e lascia passare una donna oltre i cinquanta grassa e bruna, vestita di nero. – Desidera?

– Salve, io sono Minniti, il nipote della signora Salvo…

– Ah, sì! Benvenuto! Ha fatto buon viaggio? – il viso severo della donna si illumina in un sorriso ancora fresco.

– Sì, certo… mi è piaciuta la traversata in aliscafo, sono rimasto fuori a guardare.

– Con questo freddo! Si vede che è un turista!

Freddo? E questo lei lo chiama freddo? Scommetto che se uscisse il sole si potrebbe fare il bagno.

– Contenti voi… io il bagno lo faccio solo nel mese di luglio, poi c’è troppa confusione, e poi ricomincia il freddo.

– Nessuno è contento di quello che ha. Devo ringraziarla, signora, per la sua gentilezza. Temevo di non trovare da dormire, in questa stagione.

– Noi abitiamo qui tutto l’anno, non ci costa niente tenere in ordine una stanza. Forse sentirà freddo, ma c’è una stufa elettrica.

– Mi arrangerò. Mi ha preparato una camera panoramica?

– Sono tutte panoramiche. Venga con me, su per questa scala. Le sue valigie sono già in camera, le ha portate Marcellino. L’ho pagato io.

– Grazie. È questa?

– No, quella accanto, è un po’ più grande. Sa, questa era una casa privata ed è stata adattata. Tutte le stanze sono diverse. Ecco, guardi.

– Mi sembra molto accogliente.

– Sarà ancora meglio quando ci sarà il sole. Le previsioni per domani sono buone. Guardi, c’è una veranda sul mare. Se c’è troppo sole, può abbassare la tenda.

– Accidenti, è bellissimo! Ci sono anche le sedie a sdraio…

–Attento a non prendere freddo, specialmente di sera. Lo sa perché le isole si chiamano Eolie, vero?

– Certo che lo so.

– Bene, ora la lascio solo. Ci vediamo più tardi.

– Grazie, signora. Mi preparerà lei qualcosa da mangiare?

– Se vuole. Cosa le piacerebbe?

– Faccia lei. Qualcosa di locale, caratteristico.

– Va bene. Arrivederci.

La camera è grande e ariosa, le pareti dipinte di bianco e quadretti con paesaggi mediterranei ad acquarello. Pochi mobili essenziali, un letto in ferro battuto blu, un tavolo, due sedie e un grande armadio a muro. Il televisore con la spina staccata e il frigobar desolatamene vuoto. Il bagno grande, piastrellato con ceramiche a colori vivaci. Il box della doccia non ha tenda.

Dalla veranda si vede un ampio tratto di costa, con di fronte la Lisca Bianca, che sembra una fantastica nave senza alberatura. Il Vulcano invece non si vede, è rimasto sull’altro versante. Giacomo tende l’orecchio per sentire se “lui” sta brontolando, ma per ora c’è silenzio.

C’è da disfare la valigia e poi, prima che faccia buio, rimane tempo per andare fino al capo.

Giacomo ha portato indumenti comodi e pratici, tute da ginnastica e scarpe da trekking. Prende la telecamera digitale, mette in tasca la chiave della camera ed esce.

Strano come, dopo un tempo così lungo da sembrare un’eternità, lui ricordi esattamente com’è fatta l’isola, e sappia dove andare e perché. Ora è diretto verso l’estremità occidentale, dove c’è una deliziosa spiaggia sabbiosa e, dopo una ripida salita, le vestigia di un villaggio preistorico in cima al promontorio. Non sa perché si sta tanto affrettando, o forse lo sa: ricorda che i momenti più belli con la mamma li ha passati lì. Lei lo portava per mano lungo il viottolino sterrato (adesso invece è in cemento) e lui si stupiva guardando i fiori di cappero, così complessi e sbalorditivi quando i boccioli dimenticati dai raccoglitori si aprono, o si perdeva dietro una lucertola verde che sgusciava dalla siepe. La mamma in quelle occasioni era serena, e certe volte addirittura cantava. A piedi nudi, tenendo in mano i sandali, attraversavano la spiaggia bruna luccicante di mica, che sembrava costellata di gioielli. La sabbia finissima si attaccava ai piedi umidi e sembrava sporcarli, ma bastava una scrollatina per farli tornare rosei. Traversata la piccola spiaggia cominciava la salita, e la mamma gli stringeva forte la mano, temendo che scivolasse e cadesse. Arrivati in cima, lui aveva paura, perché erano su un viottolo stretto a picco sul mare, che sembrava lontanissimo giù in basso, e altissimo all’orizzonte. Ora la mamma non si fidava e lo prendeva in braccio, e lui evitava di guardare a sinistra, in basso, dove c’erano le rocce bianche di spuma. Poi ad un tratto la mamma lo deponeva in una grande spianata, dove affioravano magici recinti di piccole case, e dove lui inventava sempre nuovi giochi, mentre la mamma guardava lontano, l’isola di fronte. Certe volte scendevano nella piccola caletta a destra, lungo un canalone pietroso. Ma la fatica della discesa era ricompensata: al di là di una spiaggia fatta di grosse pietre rotonde si apriva un paesaggio da sogno. Rocce vulcaniche rossastre e tormentate, affioranti dal mare limpido come cristallo, tanto che si poteva vedere il fondo. Nei giorni di sole le rocce prendevano i colori caldi dell’ocra e dell’oro, e si riflettevano nello specchio dell’acqua calmissima. La mamma si toglieva tutti i vestiti e si tuffava nel mare, nuotando sott’acqua come una sirena. Poi tornava ridendo forte, galleggiava vicinissima alla riva, in mezzo alle pietre tutte diverse e colorate, e chiamava Giacomo, riluttante per il freddo. Cedendo al richiamo della madre, immergeva prima un piede, poi lentamente entrava tutto quanto in acqua, e sentiva l’acqua gelida pizzicare la pelle, e invece un gran caldo dentro, e il corpo della madre, viscido come quello di un pesce ma deliziosamente tiepido.

Giacomo è arrivato alla fine della spiaggetta sabbiosa. Ora c’è una scala che porta su, di pietra tagliata irregolarmente, con una balaustra di legno. Arrivato a metà salita, si ferma a guardare giù: la spiaggia è molto in basso, completamente deserta come una volta. Ha fatto una ripresa continua, mentre camminava lungo il viottolo. Ora riprende dall’alto la spiaggia, e fa una zoomata sulle onde che si frangono sulla riva. Spegne la telecamera e finisce la salita. Tutto come una volta, salvo che lo stretto viottolo non fa più paura, ci vuole buona volontà per cadere. Con un brivido guarda uno stretto passaggio che, verso destra, porta verso l’interno dell’isola. Ora i percorsi sono indicati per i turisti, infatti da quella parte c’è uno degli itinerari consigliati. È lì che…ma no, non vuole pensarci.

Il villaggio preistorico è sotto di lui, in posa per una bella inquadratura. Sicuramente Ada si divertirà a guardare le riprese, chissà che non le venga voglia di passare qui le vacanze. Sarebbe meglio di no, in fondo quest’isola è solo sua. Difficile condividere con qualcuno emozioni come queste. Magari, mentre lui è rapito da un ricordo, lei sarebbe capace di fare qualche commento inopportuno, come per esempio “che noia, torniamo in albergo” oppure “accidenti, non ricordo se abbiamo staccato la corrente prima di partire”. Meglio evitare.

La mamma era bruna, con lunghi capelli ricci che le arrivavano alla vita, alta e snella. Aveva le mani sciupate dal lavoro: d’inverno e in primavera lavorava a giornata raccogliendo olive o capperi, d’estate serviva in una villa di signori del nord Italia. Papà invece una volta faceva il pescatore, ma una tempesta gli aveva sfasciato la barca, e lui aveva smesso di andare in mare. Si limitava a qualche lavoro saltuario al porto, quello che guadagnava se lo beveva.

Giacomo cammina con precauzione fra le casette del villaggio, che gli sembrano piccolissime. Anche le case plebee di Pompei erano piccole, ma queste sembrano addirittura delle tane. Però, che vista strepitosa! Probabilmente gli antichi abitanti non erano interessati al panorama, ma piuttosto ad avvistare i nemici in tempo utile per difendersi o scappare. Comunque, se la godevano.

Lontano il sole compare al disotto di uno strato di nuvole grigie, le colora di arancio e rosso, manda raggi abbaglianti e caldi sul promontorio riflettendosi in una larga striscia luminosa sul mare increspato. Giacomo respira a pieni polmoni la brezza e si gode il calore intenso sul viso, poi di colpo la luce si spegne. Una nuvola nerissima l’ha cancellato, tutto è di nuovo grigio, qui sull’isola, ma il cielo si apre su in alto, e torna il colore arancio intenso. Il mare è un misto di blu scuro e grigio ardesia, e la luce del tramonto si riflette sulle creste delle onde.

Con un sospiro Giacomo abbandona il ciglio del promontorio e si avvia verso il viottolo. Fra poco sarà buio.

La signora Agata, unica proprietaria dell’albergo Baia di corallo ora che il marito è morto, sta preparando la cena. Armeggia intorno ad un grande piano di cottura professionale, e si sente un buon odore di cipolla fritta. Seduta su una piccola sedia in un angolo una vecchia magra, con un fazzoletto nero in testa, chiacchiera con lei lavorando ai ferri una sciarpina rosa. Parlano in dialetto stretto dell’isola, che è meglio tradurre.

– È arrivato il nipote di Lina?

– È arrivato oggi. Ora è in giro a passeggiare.

– Raccontami com’è fatto.

– È alto, bello come suo padre… e ha gli occhi di Emilia, gli stessi precisi. Mi fa impressione.

– Tu ci volevi molto bene, vero, Agata?

– Per me era come una sorella maggiore. Scappavo sempre da lei appena potevo e le tenevo compagnia. Vi ricordate, comare Elena, quando era incinta di Giacomo?

– Sì, e quel cornuto del marito proprio allora si era imbarcato.

– Imbarcato! Come se era capace di combinare qualcosa! Infatti tre mesi dopo lo hanno spedito indietro col foglio di via. Risse e ubriachezza. Intanto la povera Emilia perdeva sangue e doveva stare ferma.

– Lui non si sarebbe accorto di niente, neanche se moriva un cane!

– Ma Emilia invece ci teneva, a questo figlio. Mi parlava di lui come se era già grande. Io mi ricordo tutto.

– Povera Emilia. Lo sai che questa estate di nuovo la videro?

– Non ci credo a queste cose! – Agata ha quasi gridato, poi controlla a fatica la voce. – Non mi dite niente, comare Elena! Ho paura!

– E di cosa hai paura? – la vecchia la guarda con attenzione, strizzando gli occhi che sembrano scomparire in mezzo alle rughe. – Lei gira ancora intorno alla scogliera, con i vestiti strappati macchiati di sangue e il collo spezzato. Ma non ce l’ha con te e neanche con me.

– Non importa! Non voglio saperne niente! Vi dico che non ci credo… ma se dovessi vedere qualcosa potrei morire di paura!

– Ma tu eri sua amica, ci volevi bene.

– E ogni anno faccio dire due messe per lei, una il giorno della… cosa, l’altra il giorno dei morti. Non basta?

– Chi lo può sapere. – la vecchia sospira e incrocia le mani nodose - Lei gira ancora, la sua anima non ha trovato pace.

– Comare Elena, vi prego, smettetela di parlare di queste cose. Si è fatto scuro e … aspettate, chiudo le finestre.

– Sei paurosa come una bambina stupida. Io lo so che da me non si farà vedere. Non ci parlavamo nemmeno. Ma invece a te forse ha qualcosa da dire, e tu…

– Basta così! Se davvero mi vuole bene deve restare lontano da me! – grida, rivolta alla campagna ormai nera, mentre chiude con fracasso le persiane e gli scuri. La vecchia le rivolge un altro sguardo penetrante.

– Calmati, Agata. E raccontami invece di Emilia. Che ti diceva del figlio?

Io l’aiutavo a cucinare e rigovernare, lei stava a guardarmi sdraiata nel letto, e parlava parlava. Il figlio era di sicuro maschio (era vero, ma lei non lo poteva sapere). E doveva fare grandi cose, andare lontano. Portarla via da qui, in una grande città, come sua sorella. Mi raccontava come sarebbero state le sue mani, forti ma gentili, e la sua voce, dolce da entrare dentro il cuore. Che strano, mi ricordo quasi ogni sua parola.

– E che altro ti ricordi?

– Il nome. Voleva chiamarlo Giacomo, perché le piaceva il volto del Santo, nella chiesetta qui accanto. C’è un quadro che lo raffigura, e lei si era convinta che il nome era importante per il suo destino. Infatti lo registrò da sola come Giacomo. Turi era andato un’altra volta nel continente a cercare lavoro. Un altro buco nell’acqua.

– E Turi, mi ricordo, non fu contento.

– No. Voleva chiamarlo Pietro, come suo padre. Per un mese si rifiutò anche di vederlo, il bambino. E dire che era la cosa migliore che aveva fatto in tutta la sua vita.

– Poi tu sei rimasta amica di Emilia, vero?

– Lo sapete, comare Elena. Io le volevo bene, ma non mi avvicinavo mai quando c’era lui.

– Ha disturbato anche te?

– No! – Agata resta girata per nascondere il rossore che è salito su e le fa bruciare le guance – Non voglio parlarne. Mi fa troppa impressione. E poi lui non c’è più.

Mentre parlava, Agata ha soffritto il baccalà insieme alla cipolla e uno spicchio d’aglio, ora aggiunge qualche pomodorino raggrinzito preso da un grappolo impolverato appeso al soffitto della cucina. Stanno quasi per finire, fra poco bisognerà farne a meno o usare quelli in scatola. Prende una manciata di capperi salati, li lava e li aggiunge alla salsa. Alla fine, bisognerà spolverare tutto di origano. E soprattutto, non aggiungere assolutamente sale. Agata è sicura che questo piatto piacerà al dottore: è stata Emilia ad insegnarglielo. La vecchia tace per un po’, poi riprende a chiacchierare degli eventi isolani. La nave cisterna che ha impiegato una giornata intera a scaricare l’acqua, facendo un baccano infernale. Il vento che ha smesso di soffiare solo nell’ultima settimana. I fiori che ha portato sulla tomba vuota del marito, morto in mare da trent’anni. L’albergo al Pescatore che oggi aveva tutte le finestre aperte.

Giacomo entra nell’atrio dell’albergo e arriva in cucina, seguendo le luci e il suono delle voci. Quando apre la porta Agata si gira di scatto, pallidissima.

– Buona sera. Che c’è, l’ho spaventata?

– No… no certo, ero distratta. Conosce la signora Elena, mia comare? – Giacomo stringe la mano alla vecchia, che gli rivolge un sorriso sdentato.

– Molto lieto. Lei abita qui vicino?

– Vicino, una delle prime case del paese. Agata è gentile ad accogliere una povera vecchia.

Che dite, comare Elena! Voi se volete potete comprarvi mezza isola.

– Sciocchezze! Vorrei sapere chi mette in giro queste voci! Ma mi sento sola, in casa non c’è più nessuno.

– Potete venire quando volete, comare Elena. Questa è anche casa vostra. E pure io mi sento sola, da quando mio marito…

– Cosa gli è successo?

– Una brutta malattia, dentro il naso. Se n’è andato in meno di un anno.

– Mi dispiace, signora Agata. E i suoi figli?

– A studiare. Fanno la scuola alberghiera, per ora sono sul Continente. Torneranno dopo Pasqua. – Giacomo si siede su uno sgabello accanto alla vecchia. La cucina è impregnata di un buon odore che gli ricorda qualcosa di bello.

– Si è informata, signora? Ricorda, la casa di zia Lina. La prima sulla strada per il capo.

– Sì, lo so di chi è. Non credo che riuscirà a parlarci, però. Loro stanno all’estero, in Brasile, tornano solo per la stagione estiva. Sono i proprietari dell’albergo Il Pescatore. – la vecchia appoggia una mano nodosa sul braccio di Giacomo.

– Dottore, può provare a chiedere all’albergo. Oggi era tutto aperto, strano in questa stagione. Forse le possono dare qualche numero di telefono.

– Grazie, signora Elena. È una buona idea. Ma che buon profumo!

– Le piace, dottore? È…

– Baccalà in umido. Lo faceva la mamma.

– Ha indovinato. Però sarà pronto solo fra una mezz’ora. Deve cuocere molto lentamente, altrimenti sembra bollito.

– È lei la regina della cucina. Piuttosto, mi fa un favore?

– Se posso…

– Non apparecchi in sala da pranzo, mi sentirei a disagio tutto solo. L’ideale sarebbe se mangiassimo insieme qui in cucina.

– Va bene, dottore. Anche a me fa piacere avere qualcuno con cui parlare.

– Grazie. Ora vado a riporre la telecamera e mi metto un po’ a posto. Il telefono funziona?

– Funziona, faccia lo zero per la linea esterna.

– Arrivederla, signora Elena. Piacere di averla conosciuta. – porge la mano alla vecchia che lo guarda dritto negli occhi.

– Piacere mio, dottore!

Una brezza umida ha scacciato le nuvole, ora il cielo stellato appare in tutto il suo splendore. In alto Orione, a sud sul mare. Si vedono anche le stelline più piccole. Orione ha sempre affascinato Giacomo, sin da bambino: così grande e squadrata, ad occupare il cielo nelle prime ore della sera. Ricordando le raccomandazioni di Agata, ha preso una giacca a vento e una cuffia di lana, e si è sistemato su una sdraio a guardare le stelle. Sul balcone c’è una presa del telefono, compone il numero rimanendo sdraiato.

– Ehi.

– Giacomo! – la voce è vicinissima, gli sembra di sentire il profumo di Ada.

– Come stai, amore?

– Ora sto bene. Ero preoccupata per te.

– Ma come, ti ho telefonato appena sceso dall’aereo, e poi appena sbarcato sull’isola…

– Ma poi sei scomparso per tre ore. Ho cercato di chiamarti ma il cellulare non prende.

– Infatti, è una scommessa ad ogni curva.

– Ti piace l’isola?

– Sì… è bella, un po’ selvatica, forse…

– Ma perché non hai voluto che venissi anch’io?

– Ti saresti annoiata. Io non sono in vacanza, come sai, ma per fare un favore a mia zia.

– E non ti manco neanche un po’? Dici la verità…

– Certo che mi manchi! Che ti salta in mente…

– A me niente. Tu, invece, mi sembri strano. Non è che hai combinato un incontro con una tua amante segreta?

– Ada, quando fai così mi innervosisci. Che amante e amante!

– Calma, calma, stavo solo scherzando... Sei troppo eccitabile. Sarà l’effetto dell’aria di casa, ma se è così non ti fa bene.

– Cosa vuoi dire?

– Sei teso e puntiglioso. Antipatico.

– Ah sì? E tu invece mi sembri un ispettore di polizia.

– Io voglio sapere tutto di te perché ti amo.

– Anch’io ti amo, bimba. E mi manchi maledettamente. Sai cosa sto facendo?

– Cosa? Tocchi le gambe non depilate di un’isolana?

– Guardo le stelle. C’è buio pesto, sembrano amplificate. Bellissime. Ho davanti Orione.

– Che romantico. E l’albergatrice, com’è?

– Alta e snella, bruna. Il mio tipo, sui trentacinque.

– Davvero? – la voce di Ada tradisce un certo allarme.

– Ed è rimasta vedova. Stasera ceniamo insieme.

– Brutto traditore! Ecco perché non c’era posto per me!

– Calma, scherzavo anch'io. Un metro e cinquanta, ottanta chili e cinquant’anni suonati.

– Ah, che stronzo sei!

Come va il lavoro?

– Il solito. Troppo da fare e troppo poco tempo. Ormai non mi lamento nemmeno.

– Tieni duro, quando torno ce ne andiamo in vacanza.

– Ci conto. Hai promesso, ricordalo. Aspetta, suona il cellulare.

– Chi è?

– Aspetta. Pronto. Sì. Sono io. E che dice il medico di guardia? Ah. Preparate la sala operatoria due. Chiamate gli anestesisti reperibili. Sì, arrivo in venti minuti. Hai sentito?

– Già. Il lavoro ti ama.

– Addome acuto. Forse un’ulcera perforata. Devo correre.

– In bocca al lupo. Ricorda che sei tu che comandi, prenditi tutto il tempo per decidere.

– Ok. Ci sentiamo domani.

– Invece fammi uno squillo quando rientri, voglio sapere com’è andata.

– Contento tu, ti sveglierò…

– Fallo. Buon lavoro.

– Grazie. A dopo.

 

  
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