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Autore: L Change the World    05/09/2013    0 recensioni
Questa è la storia di come un ragazzino dalla pelle color del latte venne accolto alla Wammy's House.
Questa è la storia di un ragazzino chiamato Near.
Dal testo:
"Ricordo tutto nei minimi dettagli, forse perché semplicemente quelle immagini non se ne sono mai andate dalla mia mente."
Genere: Drammatico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Near, Watari
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Metto un altro tassello bianco, l’ultimo, e ho completato l’ennesimo puzzle.

Ricordo tutto nei minimi dettagli, forse perché semplicemente quelle immagini non se ne sono mai andate dalla mia mente.

Eravamo nella macchina con gli speciali vetri oscurati, affinché neanche un raggio di sole potesse colpire la mia pelle da albino. Era un luogo piacevole, quel sedile posteriore, perché lì potevo finalmente togliermi tutti quei vestiti che ero costretto a portare per strada, e potevo sentirmi spoglio, libero.

Ero seduto dietro i miei genitori, intento a fare uno dei tanti puzzle che mi avevano regalato. Cercavano di farmi felice in tutti i modi, per farmi sentire come gli altri, per non farmi sentire diverso.

Ma io sapevo di essere sbagliato, e mi piaceva.

Mi piaceva completare giochi di memoria in tempi brevissimi.

Mi piaceva risolvere i quesiti matematici che mio padre mi presentava senza l’aiuto di alcuna calcolatrice.

Mi piaceva posizionare i pezzi dei puzzle con una facilità e una velocità fuori dalla norma, perché speravo che in futuro, così come ordinavo quei pezzi, avrei potuto ordinare i pensieri della mia mente, i tasselli che componevano la mia vita.

“Tesoro, forse dovresti guardare avanti, così ti sentirai male.” mi disse la mamma. La sua voce era dolce come il miele, e il suo profumo di fiori mi ricordava i prati in cui non avrei mai potuto correre sotto la luce battente del sole, con il fiato grosso, circondato da migliaia di farfalle in volo, con i piedi accarezzati dall’erba fresca di rugiada.

Poi, accadde.

Una luce, calda, accecante, un clacson, un grido. Uno schianto.

Il puzzle andò in frantumi sotto le mie mani, e ad un tratto non vidi altro che un cumulo di lamiere incombere su di me. Gridai, gridai, gridai con tutto il fiato che avevo nel mio corpo minuto.

La testa di mio padre era vicina ai miei piedi, gli occhi storti, il cranio schiacciato, il sangue che colava tingendo di rosso le mie scarpe.

Sotto il sedile ribaltato vidi la mano di mia madre scossa dai tremiti, che cercava di afferrare qualcosa di vivo in cui sperare, qualcosa che fosse il corpo di suo figlio, sano e salvo. Vidi una ciocca dei suoi capelli biondi muoversi a scatti, e io lì, che assistevo alla sua agonia. La fissavo, incapace anche solo di respirare, mentre la pozza di sangue si allargava.

Le lacrime scendevano da sole, rigandomi il volto, mentre vedevo le dita di quella mano tremare un’ultima volta prima di cadere inermi, prive di vita.

Rimasi così, in quello scenario della paura, per più di due ore. Fermo, immobile, gli occhi annebbiati fissi sull’unico punto della lamiera grigia che non fosse tinto di rosso, e aspettai, anche se non sapevo esattamente cosa. Forse la speranza, forse la morte.

Una sirena, il rumore delle ruote, alcuni passi, delle voci...


 
Mi risvegliai con un ago infilato nel braccio, un tubo nelle narici e un uomo di mezz’età che mi fissava. Sembrava preoccupato, ma un attimo dopo già mi sorrideva con un’espressione paterna dipinta sul volto genuino. Dietro di lui, appollaiato sulla sedia dell'ospedale, c'era un ragazzo curvo su sé stesso e dalle profonde occhiaie scure intento a mangiucchiare un lecca-lecca. “Finalmente ti sei svegliato, Near.”

                                                                                                               *

Sono qui, con un pupazzo in mano. Ci ho disegnato sopra una grossa “K” bianca.

Kira, ti sarai chiesto come mai, nel breve tempo in cui ci siamo affrontati faccia a faccia, io sia rimasto totalmente indifferente alle atrocità accadute in questa stanza. Forse perché, in confronto all’incubo vissuto da bambino, in confronto allo shock di vedere i miei genitori agonizzanti senza che potessi fare nulla, questo non conta più di tanto.

E mentre vedo Light Yagami oltrepassare zoppicante e ansimante quella porta di metallo, sorrido. Ho vinto io.
  
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