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Autore: Adeia Di Elferas    05/09/2013    1 recensioni
Mary e Matthew si incontrano alla stazione prima che lui torni al fronte, dopo la sua licenza. Il racconto è scritto dal punto di vista di Matthew.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Mary Crawley, Matthew Crawley
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Upstairs & Downstairs Abbey'
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  Sono appena arrivato alla stazione, e ho la sensazione di avere un laccio stretto alla bocca dello stomaco. Attraversare il paese è stato più difficile di quel che pensavo. Abbandonare di nuovo Downton e quella che potrebbe essere la mia vita, senza sapere se vi farò ritorno… Pur cercando di non pensarci, è qualcosa che mi distrugge in ogni momento. Come un’ombra che non può abbandonarmi e non vuole farlo.
 Arrivo sulla banchina, e la trovo inondata dal vapore di un treno appena arrivato. Del treno che mi riporterà in guerra. Appena la nebbiolina si dissolve, vedo un’altra figura, poco lontano, accanto al treno. Quando il vapore scompare del tutto, finalmente la vedo, e il mio cuore perde un battito. Non so cosa dire, mentre mi avvicino a Mary. Spreco qualche parola per notare come si sia svegliata presto, per essere qui ora.
 Parliamo poco, qualche frase che nessuno dei due vorrebbe dire o sentire. Esterno la mia felicità per esserci finalmente riappacificati. Non è una gioia piena, e credo che anche lei lo sappia, ma fingo che lo sia.
 Citiamo anche Lavinia. Dico a Mary di come io l’abbia portata nei miei luoghi preferiti, per lasciarle qualche ricordo, nel caso in cui io non dovessi tornare. A volte mi spiace, per Lavinia. Non potrò mai darle l’amore che so che merita. Non finché continuerò a fare il confronto con Mary. Se solo potessi decidere di smettere, lo farei. Ci ho provato e a Londra ci sono quasi riuscito, ma basta mettere di nuovo piede a Downton e la mia volontà soccombe ad altre forze.
Mary mi ha donato il suo portafortuna. È un piccolo pupazzo di stoffa, un cavallo, forse. Non ha la minima grazia, ma a modo suo è un oggetto pieno di forza. Lo stringo nella mano e le prometto che non farò l’eroe, al fronte. Devo aggiungere qualcosa di importante. Devo chiederle una promessa che aleggia nell’aria e che devo fare, per rispetto a chi dipende da me. Le raccomando di prendersi cura di mia madre e di Lavinia, se non dovessi tornare.
 Appena prima che il treno parta, lei mi stringe una mano e si avvicina. Mi dà un bacio sulla guancia. Preme a lungo il suo volto contro il mio e sento che sta trattenendo il respiro. Il suo cuore batte così forte che lo avverto contro il mio petto. “Cerca di tornare.” Mi dice.
 Mentre salgo sul treno, il fischio annuncia la partenza. Un pezzo di me resta a terra, mentre il mezzo scivola sulle rotaie, sempre più lontano da lei e da Downton.
 Mi tolgo il cappello e resto un attimo immobile a fissare fuori dal finestrino. I sedili di legno della prima classe sono lucidi, ma non sono comodi. Non lo sarebbero nemmeno se fossero di piume. Preferirei qualunque cosa, qualunque, al tornare al fronte oggi. Restare in congedo pochi giorni è una beffa ben peggiore che non tornarci. Mi ha fatto tornare in mente cos’è la mia vita lontano dalla trincea. Mi ha fatto ritornare alla realtà. E mi ha fatto capire che adesso non è questa la mia realtà. La mia realtà ora è cercare di non farmi uccidere, cercare di non fare uccidere gli altri soldati, cercare di non… Scuoto piano la testa. Cercare di non farmi cambiare dalla guerra. Ecco cosa stavo per pensare. Ma come sarebbe possibile? La guerra mi sta già cambiando, mi ha già cambiato. Mi sta facendo capire cosa conta e cosa no, e mi rendo conto di quanto sia assurda, la vita tranquilla che conducevo prima di partire.
 La mia mente va un attimo a Lavinia. Penso a come si struggerà nei prossimi giorni. È più forte di quello che sembra, ma purtroppo mi ama e quindi soffrirà fino a che non tornerò. Se non tornassi, sarebbe anche peggio e so che all’inizio non vorrà ricominciare a vivere. Ma è forte, appunto, e intelligente. Capirà che non ha senso sprecare la sua vita solo perché la mia è finita, e si sistemerà e sarà di nuovo felice. Fino a che non sarà pronta, mi consola sapere che Sir Robert e Lady Cora la aiuteranno, su invito accorato di Mary. Perché Mary ha promesso. Almeno sulle sue promesse posso fare affidamento.
 Prendo in mano il pupazzo che mi ha donato Mary. Ha un ciuffo molto buffo e profuma di casa. Mi ha detto di averlo sempre portato con sé. E ora l’ha donato a me, affinché mi protegga. Non so se un pupazzo potrà proteggermi, sotto le granate tedesche, ma so che mi farà pensare a lei. Sarà come averla un po’ più vicina. Come se la Manica, tra noi, si fosse un po’ ristretta. Anche se lei sarà nel suo salotto a ricevere la cugina Violet per il tè delle cinque, io potrò sentirla vicina. Lei mi sentirà vicino?
 Non lo so. A volte sono sicuro che lei sia pentita di avermi rifiutato quando poteva avermi, altre volte, invece, credo che mi consideri solo un caro amico. Ma che dico… Il più delle volte di certo mi vede ancora solo come colui che erediterà ciò che, in un mondo più giusto, sarebbe stato suo di diritto.
 Vorrei che mi vedesse. Che mi vedesse davvero. Lei mi guarda, lo so, ma non mi vede. C’è sempre qualcuno che scherma la mia immagine e gliela rimanda distorta. O cercano di impormi a lei, o la dissuadono dal vedermi come possibile innamorato. Le uniche volte in cui lei mi ha visto, allora sì, ho capito che nella sua vita potrebbe esserci un posto per me. Ma sono stati pochi e fugaci attimi costellati da eternità di frecciate e parole da sgranare in cerca di una sottile presa in giro. Per lei sono ancora l’orribile mostro dalla quale deve essere salvata? Alle volte credo che mi veda così. Ah, se solo si togliesse dal volto quella maschera impenetrabile fatta di superbia e durezza, forse potrebbe capire che lei può essere felice. Quella maledetta superbia… Si vanta tanto di avere un cuore di pietra, anzi, di non averne affatto, e poi si sveglia prima dei servi per venire alla stazione a donarmi un pupazzo di stoffa…
 “Posso?” una voce mi risveglia dai miei pensieri. Un uomo in divisa sta indicando il sedile davanti al mio: “Prego.” Gli dico e lui si siede. “Tenente Carroway.” Si presenta, salutandomi in modo militare. “Tenente Crawley.” Ricambio il saluto.  
 “Giornata incantevole, vero?” dice il tenente, dopo qualche minuto di silenzio: “Insomma, è un vero peccato ripartire in una giornata come questa.” Annuisco, ma non avrei voglia di parlare. Sto ancora ripensando a Mary, e al fatto che quella di oggi potrebbe essere stata la nostra ultima conversazione. “Siete di Downton?” mi chiede il tenente, che, invece, sembra in vena di chiacchiere. “Sono di…” sto per dire che sono di Manchester, ma mi correggo all’ultimo: “Di Downton, sì.” E so di aver dato la risposta giusta. “Posto incantevole.” Sorride il tenente: “Ci sono rimasto due giorni per incontrare un amico.” E si perde a raccontare quanto pittoreschi siano i nostri cottage e verde la nostra campagna. Un sacco di luoghi comuni che mi fanno capire che lui Downton non l’ha capita. E come avrebbe potuto, se c’è rimasto due giorni? Io ci ho messo mesi, anni, per capire cosa avevo davanti.
 Mi interpella ancora per qualche domanda di circostanza. Poi, malinconico, estrae un medaglione dal taschino. Lo apre e sospira: “Mia moglie mi manca sempre terribilmente quando sono via…” poi mi guarda con bonarietà: “Voi mi sembrate giovane… Avete qualcuno a casa che vi aspetta?” Dovrei dire che sì, c’è Lavinia, la mia futura sposa. Ma esito. Poi stringo il pupazzo di Mary. Sollevo lo sguardo e mostro il cavallo di stoffa al tenente: “Sì, qualcuno c’è.”
 
   
 
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