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Autore: Gatto Magro    06/09/2013    1 recensioni
Capitano. Grotta. Cera.
E tutto quello che avrò la malaugurata idea di scrivere, finché alla TV non fanno qualcosa di bello.
1. Ossequi, Capitano.
2. Ave Icarus.
3. All I wanna do is (bang-bang).
4. Sunday mo(u)rning.
5. Le Porte Spettrali.
6. Caro Bellamy,
7. I tuoi 23 anni, I miei 26 anni.
8. duemilasette – duemilatredici
9. Scritto sul muro con l'eyeliner.
10. "It's like being at Disneyland. On acid."
11. We go where we know. (RIPUBBLICATA "Ma le fragole hanno fatto la muffa.")
12. Come le patatine fritte (è sempre un buon momento per una torta al cioccolato).
13. Prima che fossimo come le patatine fritte: insanguinati sul pavimento. (A raccontarci bugie.)
14. Then the night fell on us.
15. The Queen is dead.
Genere: Angst, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: Nonsense, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le vicende Ciglia Finte e altre cose di Superficie. '
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The Sun and the Moon. And the Stars,
somewhere in the blue.
So far away.
 
Non ci sono più strade da prendere, dopo lo spiazzo di cemento.
Stavano seduti sul parabrezza della Cadillac, e sembravano sospesi in aria. Era ancora molto buio, l’insegna rosa del Plastigirl Club faceva luce soltanto nei riflessi delle finestre. Ogni secondo che passava era un ottimo momento per dirsi qualcosa, come un addio, ma invece delle parole si accumulava l’esitazione e allora non parlavano.
Evitavano di guardarsi, e immaginavano che il pino d’argento davanti a loro prendesse fuoco all’improvviso. Sarebbe stato come un’esplosione, pensavano. Una luce quasi immensa li avrebbe avvolti per esaudire i loro desideri più inconsistenti.
Poi sarebbe andata via, spazzata altrove dal vento gelido.
L’auto aveva tutte le portiere spalancate e colava sul cemento una canzone che non c’entrava niente e rallentava il loro battito cardiaco. The Sun & The Moon, ma c’erano perfino poche stelle quella notte.
Si erano dimenticati di richiederle alla radio.
 
“La vita è imperfetta.”
Mio fratello a mia madre, sulle finestre che non si chiudono.
 
Colpì per sbaglio la chitarra con il ginocchio. Thud.  
Si lasciarono scivolare a terra contro la parete sporca della galleria, e qualche pezzo di scotch o il vecchio rumore di un treno gli si appiccicò alla giacca di pelle. Fra i capelli del bambino finirono le briciole dei poster consunti delle date irlandesi di Gavin Friday. Welcome home, boy. Spruzzi di conversazioni telefoniche – quelle parti che non finiscono nel microfono del cellulare perché sono troppo grandi e non entrano in quei forellini. I grandi amori e le lacrime non viaggiano sui ponti radio perché li farebbero crollare sulle nostre teste.
Passi contati come grammi di coca, ma sono solo eco nella galleria deserta.
Ci sono solo loro due, che poi sono uno e mezzo perché il bambino è davvero piccolo, con un sacco di lentiggini in disordine sul viso pallido.
- Le persone a volte se ne vanno. – gli disse, invece della buonanotte. Sapeva che non stava dormendo; il bambino non dormiva mai. – A parte questo, non devi mai avere paura di niente.
Strinse fra le dita il manico della chitarra, arrossandosi la pelle sulle corde ruvide. Dopo un po’ si accorse che la mano di Devon si era infilata fra le sue, calde e impolverate.
- Tu invece non te ne andrai mai?
- No. E se me ne andrò, non sarà una cosa definitiva perché si dice che qualcuno ci ha lasciato, tesoro, dimenticando che cosa ci viene lasciato. – sorrideva, mentre nel suo petto galleggiava una bolla d’acqua bollente. – Per esempio, quanto la  mamma è andata via mi ha lasciato te.
- E a me che cosa ha lasciato?
- I suoi occhi.
E le mani piccole sempre infreddolite. I lampi di inquietudine. La suggestione dei cantanti dalla voce graffiante e l’abitudine di ballare restando ferma, ma morbida come una distesa d’erba alta leccata dal vento.
 
Hollywood whore, shall we run faster
than the dogs?
 
- Le storie d’amore sono una gran brutta faccenda. – disse la professoressa di storia, entrando nell’aula vuota dove si era rifugiata a tremare sotto un banco.
La fermata della metro era sempre stata la stessa da quando l’avevano scavata, qualcosa come quarant’anni fa. Sua madre le raccontava spesso di quanto si divertivano, lei e la zia Emilia, a scivolare fuori dai letti dopo che la nonna aveva spento le luci, per avventurarsi nei buchi scavati dagli operai che correvano sotto tutta la città. Gli stivaletti che ben presto si inzuppavano di fango, la vestaglia e una torcia nella mano tremante di eccitazione di Emilia, l’altra sudata e stretta in quella di sua madre, si lasciavano avvolgere dall’oscurità e andavano a fare visita ai loro mostri. Anche se ora non erano più le viscere buie che ricordava, diceva Constantine, gli stessi deliziosi brividi le frustavano la schiena quando scendeva nelle gallerie.
Adesso era da molto che non prendeva la metro, perché le metteva ansia rimanere schiacciata fra tutte quelle persone. E poi Drugstore aveva diciassette anni, era abbastanza grande per scendere da sola i gradini sbeccati e prendere la linea C, che la portava a pochi passi dal liceo.
Nessuno aveva preso in considerazione che Drugstore, forse, era abbastanza grande per innamorarsi. E lui stava cantando Blame con le labbra che sfioravano il microfono, la chitarra cullata fra le braccia e la luce al neon a disegnargli il naso e le guance, e a cadere giù fra i lacci delle sue scarpe…

 
I.L.O.V.E.Y.O.U.
 
Si sarebbe aspettata le notti gelide.
Invece, sgusciando fuori dalla porta di casa, alzava il bavero della giacca per tenersi dentro la felicità. Scappava dai giardini rettangolari e si lanciava giù per gli scalini stretti della fermata, che le strisce antiscivolo le ha consumate tutte lei con i suoi anfibi viola.
Mangiare la plastica.
Lui fingeva sempre di sorprendersi, e magari era così. La aspettava con le dita bloccate, non riusciva più a suonare e riponeva la chitarra in una custodia nera che perse nel corso degli anni. Cercava di sistemarsi i capelli, senza sapere che le piaceva così arruffato. Spegneva sigarette consumando un’angoscia strana contro le mattonelle sporche della galleria.
Poi lei arrivava con il fiatone e Hide sorrideva.
Di solito andavano a vedere il cielo e la città addormentata, compravano caffè e dolci che mangiavano seduti sui marciapiedi e ballavano per le strade deserte calpestando la luce dei semafori, inventandosi canzoni sulla scia dei sorsi di vodka. Una volta, Drugstore gli chiese di cantarle una sua canzone.
Stesero le loro giacche sul pavimento della galleria e quando lui ebbe finito di suonare si baciarono come due ragazzini, senza fiato, giocando con la lingua e i sapori che cercarono di imprimersi in testa.
Nella galleria della metropolitana, dove il pavimento era più caldo, una notte di dicembre.
Fecero l’amore nella pancia di una città che non li avrebbe mai voluti. 

 
Tutto ciò che lì non si trovava
iniziò a danzargli intorno.
Il posto giusto.
 
   
 
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