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Autore: Imyoursproudlyso    06/09/2013    0 recensioni
Brittany e Santana nelle vesti di bambine di undici anni.
OS MOLTO OOC.
Pairing: Brittany/Santana
Hope you like it!
Genere: Angst, Sentimentale, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash | Personaggi: Brittany Pierce, Santana Lopez | Coppie: Brittany/Santana
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Brittany
Forse scappare, questa volta, non avrebbe giovato proprio a niente, anzi, avrebbe aumentato l’odio, l’avrebbe alimentato e quel sentimento così orrendo sarebbe stato sostituito all’amore, all’affetto, alla fratellanza.
Un po’ mi sentivo in colpa, essere scappata ancora da casa, lasciando mia madre in mano a quell’uomo, non era la cosa più intelligente che avessi mai fatto. Dovevo tornare a casa, forse, e prendermi le botte per lei, rimanere contusa, con i lividi e il labbro spaccato era un’abitudine per me, nonostante alla mia età certe cose non dovrebbero essere conosciute, per me lo erano, tanto da formare la mia giornata tipo.
Eppure, con i sensi di colpa a colmarmi, non mi voltai, non tornai indietro in quella che dovevo definire casa mia, no, rimasi in mezzo alla strada con il fiato mozzato, senza guardarmi mai indietro.
Ero scappata velocemente, appena avevo sentito le prime urla di mia madre che mi dicevano dal pian terreno di correre via e di tornare la sera. Così, avevo fatto le solite cose: aperto la finestra cigolante della mia stanza che somigliava più ad uno sgabuzzino e sgattaiolata fuori con i rumori dei pugni contro il viso di mia madre.
Quella volta mi era andata bene, altre volte non ero così fortunata e veloce.
Come eravamo finite in quella situazione? Nemmeno io sapevo dare una grande risposta, forse era stato un caso o forse il destino. Purtroppo, a ogni modo, eravamo lì, a dover fare i conti con il sangue e i lividi.
Con il passare degli anni mi ero abituata, avevo lo stomaco forte, se all’inizio quel liquido rosso mi spaventava a morte e mi faceva venire voglia di vomitare l’anima, dopo avevo imparato a pulirlo, fare medicazioni veloci per non avere domande a scuola e nessuno mai le poneva.
Mi accasciai su un marciapiede, stanchissima e, fortunatamente, senza nessun graffio. Cosa dovevo fare? Non potevo tornare a casa, non potevo rischiare così tanto, non dopo che mia madre aveva fatto di tutto per allontanarmi da quell’inferno e mio padre aveva punita, magari con il doppio delle mazzate. Non potevo infierire ancora dolore a quella donna, ne aveva passate troppe e tutte, almeno così mi sembravano, erano causate dalla mia presenza o dall’essere rude che rappresentava mio padre.
Ripercorrere la strada non se ne parlava: mio padre era sicuramente sceso in strada per cercarmi e darmi la mia dose di schiaffi e pugni e sul marciapiede non potevo starci, mi avrebbe trovata, come faceva sempre.
Mi alzai velocemente e camminai verso un parco deserto, chissà come doveva essere vedere una undicenne vagare per quel luogo da sola, chissà se qualcuno sarebbe corso in mio aiuto, almeno quel giorno.
Trovai un laghetto di papere e mi ci avvicinai, innamorata troppo dai loro versi e il loro svolazzare delle piume, era sempre una magia, mi facevano venire voglia di essere anche io una papera e poter volare via, lontano da quella casa, lontano da quella città, lontano da mio padre.
Le uniche cose che chiedevo erano di essere accudita, giocare con i miei coetanei e avere degli amichetti, non erano delle richieste troppo impossibili, erano realizzabili, anzi, erano basilari.
Purtroppo quella stabilità non ero mai riuscita nemmeno a sfiorarla, sempre troppo lontana per toccarla e assaporarla.
Mi guardai attorno, cercando qualcuno con cui giocare ma dovetti accontentarmi dei volatili che venivano da me in cerca di cibo di cui, come sempre, ero priva.
Non riuscii a non pensare a come mi sentivo in quell’istante: piccola, inutile, fragile.
Piccola perché con la mia altezza e età non potevo fare granché per aiutare mia madre.
Inutile perché ogni cosa provassi a dire andava in secondo piano.
Fragile perché una bambina non doveva assistere a quelle visioni, non doveva vivere in quella situazione.
Ma, nonostante tutto, non cadevo a pezzi.
Piuttosto mi sentivo come una metà di un cuore spezzato che non sarebbe mai diventato uno intero.
 
 
 
Santana
Le lacrime percorrevano il mio viso, insistenti e sempre più violente delle precedenti. Il pianto non era tardato ad arrivare, i singhiozzi nemmeno.
Cercavo modi nuovi per esternare tutto, per sentirmi meglio, per reagire, forse, a tutto ciò che provavo.
Andare a scuola e essere presa in giro, vedere i miei libri strappati o buttati nel gabinetto era orrendo ma, una delle cose peggiori, era quando, al posto dei fogli, c’era la mia faccia nel gabinetto.
Mi chiedevo ancora perché, perché tutti quei bambini se la prendessero con me, non avevo mai fatto niente, ero sempre stata lì, in silenzio, in un angolino ad osservare.
Era quello che li disturbava? Il mio guardare insistente? Lo facevo solo per imprimere nella memoria tutto, per non arrivare all’età di mio padre e non ricordare nemmeno dove aveva poggiato il giornale. Tenevo solo in allenamento il mio cervello, cercando di stimolarlo in ogni modo, vedendo cosa si presentava diverso dal giorno o l’ora precedente. C’era qualcosa di male nella mia piccola ossessione? Nell’ossessione di voler memorizzare?
Scossi la testa, cercando di non addossarmi colpe inutili, colpe che non mi appartenevano, non avevo fatto niente e non dovevo distruggermi per quello.
Mi affacciai alla finestra, con ancora le lacrime agli occhi, mi ero calmata parecchio dall’ora prima.
Svolsi il mio solito giro di ricognizione sulla strada, almeno lì non ci sarebbe stato nessuno a picchiarmi o a prendersi gioco di me.
Notai una piccola figura rannicchiata su un marciapiede, una bambina come me, i capelli biondi legati in una coda ordinata, le mani attorno alle sue ginocchia, non riuscii a capire la sua età approssimativa perché, contro le mie aspettative, si alzò di scatto e camminò verso il parco sotto casa mia.
Cosa ci faceva un bambina in giro a quell’ora? Dovevano essere le tre e mezza, a quanto potevo constatare dalla posizione del sole e dalle ombre.
Era decisamente troppo presto per farsi una passeggiata, considerando, anche, il brutto quartiere che era il mio.
Scesi velocemente le scale e scorsi mia madre fare l’uncinetto sul divano.
“Mamma!” urlai per attirare la sua attenzione e aggiustandomi gli occhiali che mi erano ricaduti sul naso.
Lei mi sorrise, con quel sorriso che voleva dire che andava tutto bene e che c’era lei a proteggermi, mi accarezzò i capelli corvini e continuò a fare il suo lavoro: una bella sciarpa di lana.
“Mamma!” ripetei per farla smettere e cominciando ad agitarmi, non potevo mica aspettare o quella bambina sarebbe scomparsa.
“Dimmi, scricciolo.”
“C’è una bambina che gira da sola da queste parti!” urlai dirigendomi verso la porta e incitandola per uscire.
Mia madre sgranò gli occhi e posò il materiale sul tavolino di fianco al divano in pelle bianca. “Sai dove è andata?”
“Sì, al parco! Mamma corri!”.
La donna obbedì, ignorando per un istante i miei occhi lucidi, il viso rosso e incavato per le lacrime e la mia voce tremante.
Era decisamente più importante portare al sicuro quella biondina.
Corremmo fuori e le indicai la strada precisa che aveva fatto la bambina.
Ogni tanto la mia memoria era buona a qualcosa, oltre saper distinguere l’orario senza guardare l’orologio oppure aiutare mio padre quando cercava qualcosa.
Dopo qualche minuto la trovammo, seduta su una panchina che si guardava i piedi, in silenzio.
L’unica cosa che riuscivo ad udire era il suo respiro affannoso, ancora irregolare per una corsa che aveva affrontato.
Una paperella si avvicinò a lei e la bimba sorrise, non un sorriso normale però, un sorriso stanco, triste, rammaricato, un sorriso che sembrava tanto il mio.
In quel momento, vedendo quelle labbra rosee e sottili incurvarsi, non mi sentii più una metà di un cuore spezzato che non sarebbe mai diventato uno intero.
 
 
 
Brittany
Era passato quasi un mese da quando mi avevano trovata, da quando io avevo finalmente una vera svolta nella mia vita.
Quel giorno era un giorno speciale, o almeno così lo definivano Santana e Maribel.
Non passava nemmeno un momento che non mi sentissi riconoscente con loro, certo, la mia situazione non era variata in un modo così repentino ma perlomeno era migliorata. Mi sentivo più sicura, più forte, tutto se al mio fianco c’erano quelle due figure. Figure che, ormai, erano diventate basilari nella mia vita, quella stabilità che finalmente avevo trovato, rendendomi una ragazza bilanciata in parte.
Santana era diventata la mia migliore amica, quella bambina era l’unica persona che mi era corsa incontro quando ne avevo bisogno, l’unica che aveva capito. E io, anche se non lo sapevo ancora, forse ne ero attaccata in un modo che andava oltre l’amicizia e l’affetto che nasceva da quel legame. Era qualcosa di forte, qualcosa di indistruttibile.
Maribel era diventata la mia seconda mamma e mi prendevo il lusso di chiamarla zia, ogni volta mi faceva sentire una delle famiglia e come una seconda figlia per lei.
Il padre di Santana non l’avevo mai conosciuto, tutto perché io dovevo tornare a casa la sera e andarmene il pomeriggio presto per non incontrare il mio di padre.
I lividi e i graffi erano spariti, solo piccole cicatrici con una più grande su quella metà di cuore spezzato che avevo.
Maribel non mi chiese mai perché scappavo, capiva in silenzio, non porgendomi domande e non vedendomi come una diversa. Aveva intercettato la mia richiesta muta di aiuto e mi stava soccorrendo, con quella strana figlia che si ritrovava. Mi rallegrava molto pensare di poter avere anche io un piccolo cantuccio che si avvicinava un po’ a quello familiare. Era caldo e rassicurante. Formava la mia persona.
Comunque, quel giorno era il mio compleanno, compivo dodici anni e Santana trovava quell’avvenimento troppo importante per essere trascurato.
Come ogni giorno bussai alla porta dell’appartamento dei Lopez e attesi pochi istanti, ero sempre puntuale, lo ero perché lo era mio padre.
La lastra si spalancò e vidi Santana sorridermi, con gli occhi ridotti ad una fessura, difficili da scorgere a causa di quei suoi occhialini buffi e adorabili.
Mi abbracciò di slancio, lasciandomi un bacio sulla guancia e mettendosi in punta di piedi per raggiungere l’incavo del mio collo. Forse era quella la cosa che preferivo tra me e lei: le nostre differenze, d’altezza, di fisico, di capelli, di occhi, di pelle, di tutto. Ancora mi chiedevo come due persone potessero sembrare così diverse ma all’interno condividessero le stesse emozioni, sensazioni, delusioni…
“Buon compleanno, Brittany!” cinguettò al mio orecchio, aumentando la morsa e io scoppiai a ridere, dividendomi tra il divertita e commossa.
Maribel fece il suo ingresso in corridoio e mi sorrise, salutandomi con la mano. “Buon compleanno, piccola! Santana, lasciala stare o la soffocherai”.
Santana mise un piccolo broncio e si staccò, facendo rattristare anche me perché tra le sue braccia mi sentivo così bene da poterci morire.
“Zia, cosa facciamo oggi?” domandai timidamente, seguendo la donna adulta con al mio fianco sua figlia, ancora una volta sorridente e felice.
“Ti abbiamo preparato una torta!” rispose la mia non più coetanea, prendendomi per mano e costringendomi a salire le scale con lei. “Mamma, chiamaci quando è pronta la cioccolata!”.
“Sì, piccina!”.
Dopo la risposta di sua madre chiuse la porta dietro di noi e mi guardò, in silenzio e lasciandomi perplessa. Mi sorrise, uno di quei suoi sorrisi che riservava solo a me e che mi facevano battere il cuore forse troppo veloce, più del dovuto. Estrasse un pacchettino da una sua borsa e me lo porse.
Lo guardai rapita: era ricoperto da una carta verde brillante, con un fiocco dorato applicato sopra, era piccolo ma grande per me, considerando che io di regali non ne ricevevo mai.
“Aprilo!” mi incoraggiò, temendo che forse non mi sarebbe piaciuto, non sapeva che per me era un dono già stare in quella casa.
Feci come detto e ci trovai una bambolina di pezza, una bambolina che mi assomigliava parecchio, da partire alla frangia bionda fino alle scarpe e il vestiario. Tutto in quella bambola rappresentava me, solo che sul viso era dipinto un bel sorriso, uno di quelli che io pensavo di non riuscire nemmeno a fare.
Solo che accadde, io sorrisi, felice, per la prima volta in vita mia.
La guardai con gli occhi lucidi. “Grazie, San, sei la mia migliore amica.”.
 
 
Santana
Mi aveva detto che ero la sua migliore amica e, attraverso le sue iridi chiare, mi aveva anche confessato che fossi la sua unica amica e che era felice di essere lì. Felice come non lo era mai stata.
Mi sentii bene al pensiero che ero io ad averle causato quelle emozioni genuine. Probabilmente, era stato quello il mio obiettivo sino a quel momento: vederla sorridere seriamente.
Il mio cuore perse qualche battito e io pensai di poter toccare il Paradiso con un dito o di esserci finita direttamente, per tutte quelle cose che Brittany mi faceva provare.
Non passava istante che non la pensassi, che non pensassi a lei, alla sua folta chioma bionda, ai suoi occhi azzurrissimi come il mare, alle sue labbra sottili e lucide, alle sue guance leggermente imporporate ogni volta che ci toccavamo, che la prendevo per mano o che le sorridevo.
Chissà se avesse realizzato che io quei sorrisi, quei contatti e quegli sguardi li avrei rivolti solo a lei.
In quel momento capii che la nostra amicizia non era proprio tale, io non ero mai onesta con lei, lei non era la mia migliore amica, nonostante per lei rappresentassi quella persona, per me non era lo stesso.
Io non volevo amicizia da lei, a me Brittany piaceva e anche parecchio. Non mi piaceva solo come amica ma anche come altro, come Ben, il più carino della mia classe, piaceva alla mia compagna Meredith. Era in quel senso che mi piaceva. Forse era innaturale, era sbagliato ma quei sentimenti, quelle sensazioni, erano vere. Forse troppo reali per essere represse.
La sua voce mi fece tornare al mondo reale.
“Sannie, tu sai perché io vengo a casa vostra a quest’ora e me ne vado verso sera?”.
Scossi la testa, pensando che non c’entrasse nulla con la bambola di pezza e il suo compleanno.
Lei proseguì, abbassando lo sguardo. “Tu hai fatto un regalo a me e io ne farò uno a te, San. Mio padre picchia mia madre, scappo di casa per non ricevere niente da lui e non essere contusa a vita. Sai che significa?”
“Che è un male”
“Esatto.”
Il silenzio calò nella stanza, prima che io aggiungessi qualcosa. “Devi dirlo a mia madre”
“Non posso”
“Perché?”
“Ce la farebbe pagare troppo cara e io non pens-“
“Mio padre è un avvocato, potrebbe aiutarti, non so che cosa facciano ma aiutano la gente in difficoltà con la legge” la interruppi e sentii un piccolo singhiozzo percuoterla, l’abbracciai e il tutto si trasformò in un vero e proprio pianto.
Sapevo quanto quella situazione fosse negativa e sapevo anche quanto fosse importante che mia madre ne venisse a conoscenza.
Le sue lacrime sul petto mi fecero male, mi sentii strattonare e il mio stomaco si chiuse all’improvviso. In quel momento, non avevo né voglia della torta né di una cioccolata calda.
La feci staccare e la guardai negli occhi gonfi dal pianto, quella scena mi fece ancora più male ma deglutii per prendere coraggio.
Eravamo simili, due ragazzine che non avevano niente se non l’un l’altra, due con dei passati difficili che si erano trovate, due ragazze che cercavano di camminare ma si perdevano per strada, due ragazze che volevano rimanere a galla, non spezzandosi, rimanendo compatte, due ragazze che si sentivano due metà di un cuore spezzato.
E, ripensando a tutti quello che eravamo, capii che l’unico modo per non essere più due pezzi distinti fosse unirci. L’unica unione che conoscevo, all’epoca, era quella di un bacio. Quel contatto che svolgevano i miei per abitudine quando uno dei due tornava a casa dal lavoro. Una cosa che, seppur segnata dalla quotidianità, era essenziale come l’aria.
Così lo feci, la baciai a stampo, rimanendo appiccicata alle sue labbra per una manciata di secondi, lei non si irrigidì, anzi, sorrise in quel contatto.
Sorrise perché, come me, aveva capito che non eravamo più due metà spezzate ma un unico cuore che pompava in simbiosi.








 
Nda: Ciaaaao a tutti, miei cari.
Come state? Io bene. Avevo in mente questa storia da tipo l'altro ieri e l'ho scritta in due ore buone! 
Questa è la mia prima song-fic e spero vi piaccia, la canzone è Two Pieces di Demi Lovato.
Spero di averla rispettata e che ascoltandola ci ritroviate il testo di questa storia.
Questo è il link per ascoltarla---->
http://www.youtube.com/watch?v=_SXOSYwAOho


In più volevo ringraziare chi leggerà e vorrei lasciate una piccola recensione qui sotto, solo per farmi sapere se vi è piaciuta.

Altre mie storie: Please, remember (Ziam, in corso) --> 
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1998878&i=1
                         Made in the USA (Ziam, completa) --> http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2034678&i=1
                         Cinque anni dopo... (Brittana, completa) --> http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=2101474&i=1
                         I can be your hero (Brittana, completa) --> http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1968261&i=1
      Can you be my nightingale? (Finchel, Ziam, completa) --> http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1928599&i=1
                         Te dijo te amo (Pezberry, Ziam, completa) -->http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1880368&i=1
                         Still into you (Blainchel) --> http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1881430&i=1





E per chi volesse cercarmi potete farlo su Twitter : https://twitter.com/sonounorso
e su Tumblr, anche se non so usarlo bene: http://saythatyoulovemebackplease.tumblr.com/
Ciao e alla prossima! :D

PS: Per chi segue la mia long Ziam, aggiornerò presto, lo prometto, voi attendete e verrete ripagati! 
  
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