CANDY CANE
(Zucchero filato)
Alzò lo sguardo dalla rivista che stava leggendo avidamente:
era uno speciale sui Tokio Hotel, l’ennesimo che comprava in un mese, e mai che
avesse letto uno di quegli articoletti ipocriti e scritti coi piedi, no, aveva
sempre e solo guardato le immagini, estasiata, sospirante e con gli occhi che
le brillavano.
Aveva distolto lo sguardo da un intenso primo piano di Bill
per guardarsi intorno, nella grande piazza che era. Aspettava che lui
arrivasse, lo avrebbe riconosciuto subito dal suo passo pesante, dalla sua
sagoma nera. Ancora non c’era. Era in ritardo.
Sospirò, leggermente ansiosa, e tornò alla sua
contemplazione. Per quanto gli occhi cartacei di Bill sembrassero dirle di
stare tranquilla, lei non ci riusciva. Però doveva, cavoli!
Mentre continuava a sfogliare lentamente in mezzo ai rumori
delle macchine, della gente, sotto il sole pigro di Aprile, pensava a quanto
lui, grande e grosso, fosse timido con lei.
E lei, piccoletta, lei doveva spronarlo!
Le venne da sorridere: la situazione era buffa e tenera, da
tanto non le capitava di sentirsi qualcosa come lo zucchero filato nel
cervello, nel cuore, nello stomaco… era tutto un pensare e ripensare a lui, a
quanto era contraddittorio, a quanto era bello, a quanto erano dolci gli SMS
che le mandava.
Che belle mani che aveva… appena lo aveva visto per la prima
volta, gli aveva guardato le mani ed aveva pensato: “Questo è un chitarrista”.
Le era rimasto il dubbio perché sapeva che lui suonava la chitarra, ma non
sapeva se la sua fosse passione o un semplice passatempo.. ma poco le
importava, le sue mani erano comunque bellissime, peccato che le avesse strinte
una volta soltanto, per dire “Piacere, Silvia”.
La sua mano, piccola con le unghie lunghe, aveva strinto
senza troppa convinzione la sua, dalle dita affusolate, grande, curata. Quelle
mani facevano a cazzotti con tutto il resto: il piercing al sopracciglio, i
capelli dritti tenuti su col gel, lo sguardo un po’ torvo, la voce bassa… aveva
sorriso lei, intenerita da tanta timidezza, o forse diffidenza che appariva
come timidezza, chiusa in un ragazzo che, se avesse voluto, avrebbe usato come
giavellotto qualunque malintenzionato che le si fosse avvicinato.
Avrebbero potuto avere solo una cosa in comune: la
timidezza. Ma Bill di sicuro non si presentava tenendo gli occhi bassi e fissi
sul marciapiede!
Sorrise lievemente mentre pensava a tutto questo, sbuffando
un po’ per l’attesa… non era certo una novità che lui fosse in ritardo!
Ovviamente erra inutile rinfacciarglielo, non sarebbe mai arrivato puntuale a
un appuntamento, quindi tanto valeva adattarsi. Valeva anche per una fiscalista
come lei.
“Ciao..” gli disse alzandosi e togliendo gli occhiali. Due
occhi verdi lo fissarono con un’espressione strana che lo imbarazzò un po’.
“Ciao..” ricambiò timidamente “E’ tanto che aspetti?”
“No, tranquillo… andiamo?”
“Sì, sì… si fa un giro…”
Avevano camminato così tanto da non accorgersi di essere
arrivata alla zona più periferica della città, piena di palazzi un po’ grigi e
tristi, circondati da viuzze e piccoli spazi verdi con i soliti scivoli e
altalene di rito. Silvia si mise a sedere su un’altalena e si dette una leggera
spinta per iniziare a dondolare mentre parlava con Andrea, in piedi davanti a
lei, a pochi passi di distanza.
Lo guardava sorridendo, e si divertiva vederlo così burbero
e tenero: abbassava lo sguardo appena incrociava i suoi occhi e continuava a
parlare piano.
“Andre” gli chiese, cercando di nascondere un po’ della sua
timidezza e sentendosi tanto ragazzina “Non dici niente?”.
Andrea la guardò, un po’ dispiaciuto, un po’ in imbarazzo, e
rispose a sua vola: “E tu? Non dici nulla?”
“Sei bello”.
Non sapeva neanche come avessero fatto quelle parole a
uscirle fuori di bocca in maniera così naturale. Arrossì un po’ mentre
continuava a dondolarsi sull’altalena.
Il ragazzo, intanto, era diventato tre volte più rosso di
lei e stava balbettando un “Grazie” che sembrava rivolto ai fili d’erba del
prato secco sotto i loro piedi. Silvia balzò giù dall’altalena con un piccolo
salto e gli fu davanti.
“Scusa, non volevo dir…” cominciò a dirgli con una risatina.
“No, no, non importa, cioè, sì, importa, però, capito,
insomma…” tartagliò Andrea, facendo un passo indietro.
E lei, automaticamente, fece un altro passo verso di lui,
impertinente.
“Scusa, è che…” continuò lui, prima che Silvia lo
interrompesse con un bacio fulmineo ma schioccante sulla guancia. La guardò un
po’ interdetto, ma sorrise e ricambiò, baciando più i suoi ricci che la sua
guancia; Silvia ricevette con calma il bacio, senza spostarsi, e si godette
l’istante in cui il calore penetrante ma non invadente della bocca di Andrea le
scaldò la guancia.
Poco dopo, stavano tornando verso il centro, verso la
fermata del bus che Silvia doveva prendere per tornare a casa.
“Perché non prendi la macchina, pacca?!” la rimproverò
scherzosamente Andrea, ricevendo come risposta una smorfia disgustata e un
energico scuotimento di testa.
“No” rispose semplicemente, dandogli uno scappellotto sulla
mano per poi impossessarsene e stringere il suo lungo indice dall’unghia corta;
le sembrava di essere tornata una bambina a spasso con la mamma. Lui le prese
tutta la mano e continuò a camminare tranquillamente, sembrava più sereno, meno
teso.
Una volta arrivati alla fermata, aspettarono che arrivasse
il bus; Silvia se ne stava con le braccia incrociate sul petto e batteva
distrattamente un piede per terra; dopo diversi secondi, riuscì a staccare gli
occhi da un punto fisso su cui si era incantata senza motivo e si volò alla sua
destra, ma Andrea non c’era più.
Non fece neanche in tempo a pensarlo: un paio di braccia
passarono sotto le sue e le circondarono gentilmente la vita e sulla sua
spalla; nell’incavo del suo collo, Andrea appoggiò la sua testa.
“Era ora!” dicevano i suoi occhi, che intanto stavano
fissando davanti, sorridenti.
Il bus, inopportuno come poche volte, arrivò a interrompere
quel momento, e la gente cominciò a salire sul bus vuoto; lo avrebbero riempito
come al solito, lasciandola in piedi, ma stavolta non le importava.
Certo, le importava di salire, visto che l’autista sembrava
avere fretta.
“Devo andare…” disse girandosi verso Andrea, senza
sciogliere quell’abbraccio.
Andrea annuì e tolse le mani dalla sua vita per prenderle la
mano e baciargliela; Silvia arrossì, chiedendosi cosa mai stesse pensando la
gente che passava, e stava per voltarsi per salire sul bus, quando si fermò,
come se si fosse ricordata qualcosa all’improvviso.
Ricordando una vecchia figurina vista sul diario di una sua
amica, rappresentante due bambini che si scambiavano un bacino innocente
vestiti in stile anni ’50, si allungò e rifilò un bacio a stampo sulle labbra
di Andrea per poi correre sul bus, il cui autista aveva iniziato a premere più
volte sulla frizione, come per metterle fretta.
Andrea rimase un attimo stupito, poi sorrise e, senza
neanche diventare un peperone in viso, la salutò con la mano, quella mano che
aveva strinto la sua.
Con il batticuore e pensieri in testa come: “Ma non gli ho
detto ciao, cretina!”, Silvia trovò un posto a sedere vicino a una vecchina e
ricambiò il saluto con la mano per poi accendere il suo onnipresente lettore
MP3. Lasciò che la canzone iniziasse…
She goes up and down in my heart,
Turned into jelly beans…
Ringrazio Silvia (RubyChubb) per avermi fatto conoscere i McFly, in
particolare “Little Joanna”, che ho citato nella one- shot. Ho scritto
ascoltandola a ripetizione e ha funzionato!
Questa storia è inventata dalla sottoscritta, anzi, precisamente
sognata a occhi aperti…