Nihil
[Adoro te, meus deus]
La
luce rosa del sole entrava fioca da un piccolo spazio tra i due lembi delle
tende scarlatte, che si sfioravano.
Lo
spazio era piccolo e la luce tiepida, spezzata. Riusciva solo a rendere
visibile gli spigoli dei mobili e il pulviscolo che aleggiava nella stanza.
Ma
a Kagura andava bene così. Le bastava solo quel luccichio per orientarsi nel
buio.
D’altronde
lei era nata dal buio.
[D’altronde mancava poco al buio eterno.]
Rise
dei suoi stessi pensieri drammatici e le gambe strisciarono tra loro, facendo
attrito contro la pelle morbida da bambola.
Le
lunghe braccia di marmo scivolarono via dal talamo e raggiunsero il comodino,
accompagnando le mani che con un gesto veloce ed elegante si strinsero attorno
al calice d’argento. Lo portò alle labbra, tastando il gusto amarognolo del
liquido.
Fiele.
Un
lieve ronzio accanto a lei la distrasse. Una piccola vespa si avvicinò al
calice e, librandosi in aria, volò sulla superficie liquida, probabilmente
assaggiando il vino.
Avvelenandolo.
Kagura
inclinò appena il capo e scacciò spazientita l’insetto con un gesto della mano,
aperta a ventaglio.
Ma
la vespa rimase in quella stanza, ignorando il suo volere, riempiendole le
orecchie di quel fastidioso ronzio che la tenne sveglia per tutta la notte.
Non
riusciva a prendere sonno, con lui in
quella stanza, che la osservava.
Ma
almeno c’era il ronzio che l’avvertiva di tenersi in guardia. Non sapeva quando
sarebbe arrivato, ma l’avrebbe fatto, ne era certa. Per pungerla, per essere certo
che lei fosse solo sua.
La
luce si era spenta già da parecchi minuti, lasciando lo spazio alla notte.
Kagura
barcollava nel buio della stanza, alla ricerca del suo ventaglio. Precauzione inutile,
tiepida illusione di una difesa, ma la voleva tra le dita: in fondo non aveva
diritto al sogno pure lei?
Oh,
già. Era solo una stupida emanazione. Non aveva cuore. Che senso aveva la
paura, i sogni? Nessuno. Nulla.
«Dove
vai, Kagura?»
Rabbrividì,
avvertendo il suo fiato fresco e
piacevole filtrarle tra i capelli mori che le coprivano il collo lateralmente.
«Dove
vuoi che vada?»
Vi
era una buona dose di ironia, sotto il tono docile con cui rispose. Ma questo
provocò in lui solo un riso di
scherno.
Ancora
rabbrividì, tentando di mantenersi lucida nonostante la testa avesse preso a
vorticarle; aveva letto in qualche manoscritto che questo accadeva tra i ningen a chi soffrisse di vertigini (paura dell’altezza) o alla
vista del sangue. Ma nessuna delle due situazioni si prestava a Kagura,
abituata a tranciare volti con occhi implacabili di sangue ed a volare nei
cieli, riflesso di una libertà che non possedeva. E non sarà mai sua.
Forse.
Labbra
estranee le accarezzarono la pelle nivea della guancia, e il profilo appuntito
di un mento affondò nella sua carne, insieme a dita ossute che le artigliarono
il seno nascosto sotto il kimono.
Kagura
trattenne il fiato e si morse le labbra.
Ma
una nuova risata la avvertì che non era riuscita a nascondergli la paura che le
stringeva lo stomaco; ma forse, semplicemente, un dio riusciva a comprendere prima della propria creatura ciò che
provava o pensava. Per questo aveva paura di lui.
«Fuggi,
Kagura?»
Ogni
singola cellula del suo corpo lo odiava. Ogni. Dannatissima. Cellula. E a
Naraku non importava nulla, nulla, nulla.
O forse,
semplicemente, la creatura non poteva comprendere il proprio dio. Non aveva il
potere di sfiorare i suoi pensieri, Kagura era piuttosto boriosa per pensare di
capirlo. Avrebbe dovuto solo obbedirgli, silenziosa, e venerarlo per non cadere
in disgrazia.
E invece
tentava sempre di scappare, desiderando il vento tra i capelli [non l’imitazione nauseante di quel fiato]
e un cuore.
Era
un desiderio da nulla, vero? Avrebbe potuto anche darglielo, quel cuore agognato,
ma invece niente. Il suo creatore se lo teneva stretto tra le dita, e lei
poteva solo vederlo battere, mal celando il desiderio di sentirlo dentro il
petto far fluire sangue al viso smorto.
Alle
volte, per rallegrarsi, si diceva che Naraku la invidiasse, perché almeno –
anche se le era stato rubato – lei aveva un cuore tutto suo.
«Non
fuggo».
«Piccola
impertinente bugiarda».
La
pressione dei denti sulla guancia le fece scappare un gridolino strozzato, e le
mani artigliarono d’istinto il ventaglio alla sua destra, finalmente in mano
sua.
«Non mi toccare».
Bisbigliò,
ma si accorse per prima che la sua era una supplica più che una minaccia. E questo
non fermò Naraku dalla sua operazione di avvelenamento.
Il
kimono scivolò via con estrema celerità dal suo corpo, lasciandola da sola ad
affrontare le mani fugaci di Naraku, che l’accarezzavano con morbosa attenzione,
pizzicandola come punture di insetto.
Era il suo fiele. In eterno.
Maledizione.
Maledizione.
La
testa continuava a vorticarle, mentre Naraku la mordeva come se fosse una dolce
mela rossa, o forse gli piacevano quelle verde e acide, come lei.
Stava
perdendo la razionalità e le sensazioni le parevano mischiate e annebbiate.
Febbricitante
si attaccò alla schiena di lui, mentre la spingeva contro il letto, un talamo
nuziale che non aveva mai voluto condividere con nessuno, men
che meno lui.
Lui.
Un
dio così stronzo da averla messa al mondo per avvelenarla sottilmente, con
parole soffuse e carezze che la disgustavano.
Odio.
Solo odio in quella confusione.
E una
silenziosa preghiera per un dio diverso, più indulgente e buono.
Kami, aiuto.
*
Quando
lo vide per la prima volta, non riuscì a comprendere perché le gambe sembravano
cederle e la testa aveva cominciato a girarle.
Solitamente
questo accadeva solo con Naraku, il suo dio. Ed ora questo Signore dell’Ovest
arrivava e la metteva in ginocchio con una sola delle sue occhiate gelide.
Inaudito.
Eppure,
abbassando gli occhi scarlatti sulle proprie mani, Kagura si accorse che tremavano.
Ma
non provava paura.
E allora,
cosa le stava capitando?
Ancora
non poteva rispondere, il cervello le mandava solo vaghi pensieri sconnessi.
Per
un po’ di tempo lo aveva seguito, spiato, domandandosi insistentemente come
facesse quel demone a essere così dannatamente perfetto, tanto da farle quasi
invidia.
Guardandolo
una sera, finalmente lo comprese.
Gli
occhi ghiacciati d’oro di Sesshoumaru si erano alzati e avevamo incrociato i
suoi, sporchi e macchiati, inchiodandola al suolo.
«Smettila
di seguirmi sempre».
Aveva
visto ogni suo movimento nelle settimane precedenti. E non le chiedeva il perché.
Chi
altri se non un dio sapeva sempre tutto?
[un dio nuovo e la speranza che si accendeva]
Kagura
aveva ingoiato saliva, tentando di placare l’arsura che l’aveva colpita insieme
ad un guazzabuglio di emozioni, troppo intrecciate e veloci perché riuscisse ad
afferrarle e esaminarle.
Ma
non era paura, di questo ne era stata certa.
«Chi
sei?»
La
domanda le era uscita spontanea, senza che potesse frenarla tra le labbra.
Sesshoumaru
aveva abbassato di nuovo gli occhi sulla lama lucente, facendola brillare
contro la luce rosea del tramonto, che illuminava fiocamente i colori della
foresta, contaminandoli e dando agli alberi, alle nuvole e alle pietre colori
che non appartenevano a loro.
Non
le aveva risposto.
Lei
si era stizzita e era volata via, stringendo il ventaglio con rabbia.
Ora,
dopo averci riflettuto a freddo, capiva: è irrispettoso chiedere ad un dio di
svelarle i suoi misteri, lei poteva solo essere una mera seguace, una delle
tante.
Ma
Kagura voleva trovare qualcosa che riuscisse a smuovere la sua pietà, che lo
compisse.
Provò
con le preghiere, con le suppliche, con i doni: tentò perfino di chiederglielo
mettendo da parte il suo naturale orgoglio e l’atteggiamento superiore, ma
Sesshoumaru non le concesse né un sorriso, né una carezza che potesse farle
pensare di avere il suo favore.
Nulla.
Nulla.
Nulla.
[il veleno in circolo la stava intossicando,
e non trovava pietà]
«Perché
mi ignori?»
Gli
occhi dorati si alzarono verso di lei, studiandola attentamente.
«Perché
dovrei darti più attenzione del necessario?» fu la laconica risposta, che le
fece stringere le labbra indignata.
«Ti
ho offerto tutto: dalla mia collaborazione al mio corpo! Perché non mi vuoi
aiutare?!»
Gridava
isterica, sventolando il ventaglio verso la foresta, distruggendo gli alberi e
dandogli le spalle per nascondere il pianto amaro.
«Voglio
solo un battito, uno stupido dannatissimo battito…»
bisbigliava, ignorando i tagli alle dita e il dolore vago all’altezza della
gola, morsa di recente.
Sentiva
chiaramente gli occhi di Sesshoumaru sulla sua schiena, e rabbrividì. Ma sapeva
di non avere il suo favore.
Maledizione.
Maledizione.
«Non
hai un cuore».
Lo
affermò come se fosse la cosa più normale del mondo e lei si fermò, impietrita,
per poi scattare rabbiosa girandosi verso di lui, digrignando i denti appuntiti
in sua direzione.
«E
nemmeno tu, impietoso!» lo insultò arrogante, alzando il mento spigoloso, a
causa della malattia che sembrava la stesse consumando con più velocità del
normale.
[tossico fiele che le scavava le guance]
E Sesshoumaru
non ancora cedeva. Non interveniva, lasciandola in balia di un altro dio.
Stronzo.
Stronzo!
Si
buttò a terra, emettendo lunghi lamenti sconnessi, farfugliando accuse e
suppliche, mischiate a lacrime salate che le rigavano il viso opalescente.
«Kagura»
Un
soffio tra i capelli.
D’istinto
si irrigidì e chiuse gli occhi, aspettando la carezza morbida del kimono che le
scendeva dalle spalle. Ma nulla di questo accadde.
Spaventata
e incredula alzò le iridi scure.
Sesshoumaru
la fissava, vicinissimo, dall’alto,
una mano tesa verso di lei.
Kagura
ricambiò lo sguardo, perplessa.
«È
tutto ciò che posso fare». Spiegò lui, ancora parlando per enigmi, come sempre.
Ma
non cercò nemmeno di trovare la lucidità: approfittò del momento e si issò in
piedi, aiutando con la mano del suo dio.
Fredda,
ma reale.
Sorrise.
«Perdonami
per aver dubitato».
Prese
la piuma e se ne andò, sempre sorridendo, consapevole che l’aspettava una notte
buia, ma una piccola luce poteva salvarla dal buio, anche se doveva farlo con
le proprie forze.
Nell’oscurità
un piccolo battito.
E poi
la notte eterna, per mano del veleno.
Ma
Kagura sorrideva.
***
L’ho
riletto, ma non ho cambiato molto.
Dopo
aver letto un po’ di fic introspettive – nonsense tra
l’altro – m’è venuta la voglia di cimentarmi in questo genere ed è venuto fuori
questo.
La
cosa strana è che l’ispirazione sia venuta per Inuyasha.
Uh,
non ne sono convintissima come lavoro, è così sfuggente, così astratto… mah. però lo pubblico lo stesso, tanto ormai l’ho
scritto! XD
Ditemi
ciò che pensate! ^^ Accetto naturalmente critiche, consigli e pareri!
Bye,
Kaho
Ah,
i personaggi non sono miei, e il titolo viene dal latino: Nihil
(nulla) e “Adoro te, meus deus” cioè adoro te, mio
dio. (sperando di non aver sbagliato XD)
Spero
di non aver offeso le persone che ci credono, usando questa parola, notate che
è lasciata appositamente in minuscolo (lo specifico più per precauzione che
altro, non credo di avervi offesso.. spero! ^^;)