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Autore: Kaho    16/03/2008    4 recensioni
«Fuggi, Kagura?»
Ogni singola cellula del suo corpo lo odiava. Ogni. Dannatissima. Cellula. E a Naraku non importava nulla, nulla, nulla.
O forse, semplicemente, la creatura non poteva comprendere il proprio dio. Non aveva il potere di sfiorare i suoi pensieri, Kagura era piuttosto boriosa per pensare di capirlo. Avrebbe dovuto solo obbedirgli, silenziosa, e venerarlo per non cadere in disgrazia.
[...]
«E nemmeno tu, impietoso!» lo insultò arrogante, alzando il mento spigoloso, a causa della malattia che sembrava la stesse consumando con più velocità del normale.
[tossico fiele che le scavava le guance]
E Sesshoumaru non ancora cedeva. Non interveniva, lasciandola in balia di un altro dio.
{Kagura-centric} {Naraku/Kagura e Kagura/Sesshoumaru}
Attenzione! Tematica piuttosto delicata e difficile. Possibile nonsense.
Genere: Dark, Introspettivo, Erotico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Kagura, Naraku, Sesshoumaru
Note: OOC | Avvertimenti: Contenuti forti
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Nihil

[Adoro te, meus deus]

 

 

 

 

 

La luce rosa del sole entrava fioca da un piccolo spazio tra i due lembi delle tende scarlatte, che si sfioravano.

Lo spazio era piccolo e la luce tiepida, spezzata. Riusciva solo a rendere visibile gli spigoli dei mobili e il pulviscolo che aleggiava nella stanza.

Ma a Kagura andava bene così. Le bastava solo quel luccichio per orientarsi nel buio.

D’altronde lei era nata dal buio.

[D’altronde mancava poco al buio eterno.]

Rise dei suoi stessi pensieri drammatici e le gambe strisciarono tra loro, facendo attrito contro la pelle morbida da bambola.

Le lunghe braccia di marmo scivolarono via dal talamo e raggiunsero il comodino, accompagnando le mani che con un gesto veloce ed elegante si strinsero attorno al calice d’argento. Lo portò alle labbra, tastando il gusto amarognolo del liquido.

Fiele.

Un lieve ronzio accanto a lei la distrasse. Una piccola vespa si avvicinò al calice e, librandosi in aria, volò sulla superficie liquida, probabilmente assaggiando il vino.

Avvelenandolo.

Kagura inclinò appena il capo e scacciò spazientita l’insetto con un gesto della mano, aperta a ventaglio.

Ma la vespa rimase in quella stanza, ignorando il suo volere, riempiendole le orecchie di quel fastidioso ronzio che la tenne sveglia per tutta la notte.

Non riusciva a prendere sonno, con lui in quella stanza, che la osservava.

Ma almeno c’era il ronzio che l’avvertiva di tenersi in guardia. Non sapeva quando sarebbe arrivato, ma l’avrebbe fatto, ne era certa. Per pungerla, per essere certo che lei fosse solo sua.

La luce si era spenta già da parecchi minuti, lasciando lo spazio alla notte.

Kagura barcollava nel buio della stanza, alla ricerca del suo ventaglio. Precauzione inutile, tiepida illusione di una difesa, ma la voleva tra le dita: in fondo non aveva diritto al sogno pure lei?

Oh, già. Era solo una stupida emanazione. Non aveva cuore. Che senso aveva la paura, i sogni? Nessuno. Nulla.

 

«Dove vai, Kagura?»

Rabbrividì, avvertendo il suo fiato fresco e piacevole filtrarle tra i capelli mori che le coprivano il collo lateralmente.

«Dove vuoi che vada?»

Vi era una buona dose di ironia, sotto il tono docile con cui rispose. Ma questo provocò in lui solo un riso di scherno.

Ancora rabbrividì, tentando di mantenersi lucida nonostante la testa avesse preso a vorticarle; aveva letto in qualche manoscritto che questo accadeva tra i ningen a chi soffrisse di vertigini (paura dell’altezza) o alla vista del sangue. Ma nessuna delle due situazioni si prestava a Kagura, abituata a tranciare volti con occhi implacabili di sangue ed a volare nei cieli, riflesso di una libertà che non possedeva. E non sarà mai sua.

Forse.

Labbra estranee le accarezzarono la pelle nivea della guancia, e il profilo appuntito di un mento affondò nella sua carne, insieme a dita ossute che le artigliarono il seno nascosto sotto il kimono.

Kagura trattenne il fiato e si morse le labbra.

Ma una nuova risata la avvertì che non era riuscita a nascondergli la paura che le stringeva lo stomaco; ma forse, semplicemente, un dio riusciva a comprendere prima della propria creatura ciò che provava o pensava. Per questo aveva paura di lui.

«Fuggi, Kagura?»

Ogni singola cellula del suo corpo lo odiava. Ogni. Dannatissima. Cellula. E a Naraku non importava nulla, nulla, nulla.

O forse, semplicemente, la creatura non poteva comprendere il proprio dio. Non aveva il potere di sfiorare i suoi pensieri, Kagura era piuttosto boriosa per pensare di capirlo. Avrebbe dovuto solo obbedirgli, silenziosa, e venerarlo per non cadere in disgrazia.

E invece tentava sempre di scappare, desiderando il vento tra i capelli [non l’imitazione nauseante di quel fiato] e un cuore.

Era un desiderio da nulla, vero? Avrebbe potuto anche darglielo, quel cuore agognato, ma invece niente. Il suo creatore se lo teneva stretto tra le dita, e lei poteva solo vederlo battere, mal celando il desiderio di sentirlo dentro il petto far fluire sangue al viso smorto.

Alle volte, per rallegrarsi, si diceva che Naraku la invidiasse, perché almeno – anche se le era stato rubato – lei aveva un cuore tutto suo.

«Non fuggo».

«Piccola impertinente bugiarda».

La pressione dei denti sulla guancia le fece scappare un gridolino strozzato, e le mani artigliarono d’istinto il ventaglio alla sua destra, finalmente in mano sua.

«Non mi toccare».

Bisbigliò, ma si accorse per prima che la sua era una supplica più che una minaccia. E questo non fermò Naraku dalla sua operazione di avvelenamento.

Il kimono scivolò via con estrema celerità dal suo corpo, lasciandola da sola ad affrontare le mani fugaci di Naraku, che l’accarezzavano con morbosa attenzione, pizzicandola come punture di insetto.

Era il suo fiele. In eterno.

Maledizione.

Maledizione.

La testa continuava a vorticarle, mentre Naraku la mordeva come se fosse una dolce mela rossa, o forse gli piacevano quelle verde e acide, come lei.

Stava perdendo la razionalità e le sensazioni le parevano mischiate e annebbiate.

Febbricitante si attaccò alla schiena di lui, mentre la spingeva contro il letto, un talamo nuziale che non aveva mai voluto condividere con nessuno, men che meno lui.

Lui.

Un dio così stronzo da averla messa al mondo per avvelenarla sottilmente, con parole soffuse e carezze che la disgustavano.

Odio. Solo odio in quella confusione.

E una silenziosa preghiera per un dio diverso, più indulgente e buono.

Kami, aiuto.

 

*

 

Quando lo vide per la prima volta, non riuscì a comprendere perché le gambe sembravano cederle e la testa aveva cominciato a girarle.

Solitamente questo accadeva solo con Naraku, il suo dio. Ed ora questo Signore dell’Ovest arrivava e la metteva in ginocchio con una sola delle sue occhiate gelide.

Inaudito.

Eppure, abbassando gli occhi scarlatti sulle proprie mani, Kagura si accorse che tremavano.

Ma non provava paura.

E allora, cosa le stava capitando?

Ancora non poteva rispondere, il cervello le mandava solo vaghi pensieri sconnessi.

 

Per un po’ di tempo lo aveva seguito, spiato, domandandosi insistentemente come facesse quel demone a essere così dannatamente perfetto, tanto da farle quasi invidia.

Guardandolo una sera, finalmente lo comprese.

Gli occhi ghiacciati d’oro di Sesshoumaru si erano alzati e avevamo incrociato i suoi, sporchi e macchiati, inchiodandola al suolo.

«Smettila di seguirmi sempre».

Aveva visto ogni suo movimento nelle settimane precedenti. E non le chiedeva il perché.

Chi altri se non un dio sapeva sempre tutto?

[un dio nuovo e la speranza che si accendeva]

Kagura aveva ingoiato saliva, tentando di placare l’arsura che l’aveva colpita insieme ad un guazzabuglio di emozioni, troppo intrecciate e veloci perché riuscisse ad afferrarle e esaminarle.

Ma non era paura, di questo ne era stata certa.

«Chi sei?»

La domanda le era uscita spontanea, senza che potesse frenarla tra le labbra.

Sesshoumaru aveva abbassato di nuovo gli occhi sulla lama lucente, facendola brillare contro la luce rosea del tramonto, che illuminava fiocamente i colori della foresta, contaminandoli e dando agli alberi, alle nuvole e alle pietre colori che non appartenevano a loro.

Non le aveva risposto.

Lei si era stizzita e era volata via, stringendo il ventaglio con rabbia.

Ora, dopo averci riflettuto a freddo, capiva: è irrispettoso chiedere ad un dio di svelarle i suoi misteri, lei poteva solo essere una mera seguace, una delle tante.

Ma Kagura voleva trovare qualcosa che riuscisse a smuovere la sua pietà, che lo compisse.

Provò con le preghiere, con le suppliche, con i doni: tentò perfino di chiederglielo mettendo da parte il suo naturale orgoglio e l’atteggiamento superiore, ma Sesshoumaru non le concesse né un sorriso, né una carezza che potesse farle pensare di avere il suo favore.

Nulla.

Nulla.

Nulla.

[il veleno in circolo la stava intossicando, e non trovava pietà]

 

«Perché mi ignori?»

Gli occhi dorati si alzarono verso di lei, studiandola attentamente.

«Perché dovrei darti più attenzione del necessario?» fu la laconica risposta, che le fece stringere le labbra indignata.

«Ti ho offerto tutto: dalla mia collaborazione al mio corpo! Perché non mi vuoi aiutare?!»

Gridava isterica, sventolando il ventaglio verso la foresta, distruggendo gli alberi e dandogli le spalle per nascondere il pianto amaro.

«Voglio solo un battito, uno stupido dannatissimo battito…» bisbigliava, ignorando i tagli alle dita e il dolore vago all’altezza della gola, morsa di recente.

Sentiva chiaramente gli occhi di Sesshoumaru sulla sua schiena, e rabbrividì. Ma sapeva di non avere il suo favore.

Maledizione.

Maledizione.

«Non hai un cuore».

Lo affermò come se fosse la cosa più normale del mondo e lei si fermò, impietrita, per poi scattare rabbiosa girandosi verso di lui, digrignando i denti appuntiti in sua direzione.

«E nemmeno tu, impietoso!» lo insultò arrogante, alzando il mento spigoloso, a causa della malattia che sembrava la stesse consumando con più velocità del normale.

[tossico fiele che le scavava le guance]

E Sesshoumaru non ancora cedeva. Non interveniva, lasciandola in balia di un altro dio.

Stronzo. Stronzo!

Si buttò a terra, emettendo lunghi lamenti sconnessi, farfugliando accuse e suppliche, mischiate a lacrime salate che le rigavano il viso opalescente.

«Kagura»

Un soffio tra i capelli.

D’istinto si irrigidì e chiuse gli occhi, aspettando la carezza morbida del kimono che le scendeva dalle spalle. Ma nulla di questo accadde.

Spaventata e incredula alzò le iridi scure.

Sesshoumaru la fissava, vicinissimo, dall’alto, una mano tesa verso di lei.

Kagura ricambiò lo sguardo, perplessa.

«È tutto ciò che posso fare». Spiegò lui, ancora parlando per enigmi, come sempre.

Ma non cercò nemmeno di trovare la lucidità: approfittò del momento e si issò in piedi, aiutando con la mano del suo dio.

Fredda, ma reale.

Sorrise.

«Perdonami per aver dubitato».

Prese la piuma e se ne andò, sempre sorridendo, consapevole che l’aspettava una notte buia, ma una piccola luce poteva salvarla dal buio, anche se doveva farlo con le proprie forze.

 

Nell’oscurità un piccolo battito.

E poi la notte eterna, per mano del veleno.

Ma Kagura sorrideva.

 

 

 

 

 

 

***

 

L’ho riletto, ma non ho cambiato molto.

Dopo aver letto un po’ di fic introspettive – nonsense tra l’altro – m’è venuta la voglia di cimentarmi in questo genere ed è venuto fuori questo.

La cosa strana è che l’ispirazione sia venuta per Inuyasha.

Uh, non ne sono convintissima come lavoro, è così sfuggente, così astratto… mah. però lo pubblico lo stesso, tanto ormai l’ho scritto! XD

Ditemi ciò che pensate! ^^ Accetto naturalmente critiche, consigli e pareri!

 

Bye,

Kaho

 

Ah, i personaggi non sono miei, e il titolo viene dal latino: Nihil (nulla) e “Adoro te, meus deus” cioè adoro te, mio dio. (sperando di non aver sbagliato XD)

Spero di non aver offeso le persone che ci credono, usando questa parola, notate che è lasciata appositamente in minuscolo (lo specifico più per precauzione che altro, non credo di avervi offesso.. spero! ^^;)

  
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