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Autore: BrokebackGotUsGood    12/09/2013    2 recensioni
You're home now, not alone now
These arms are here to hold you, don't need to be afraid
So come in, 'cause I've been waiting for the moment to open up this door
And I know that it's not much...welcome to my heart.

Questa è la storia di Brian e Nick, due ragazzi normali con una vita difficile e con tanti ostacoli da superare.
Ma non c'è niente che l'amore non possa combattere.
Genere: Drammatico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Brian Littrell, Nick Carter
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Avvertenze: il tipo di coppia presente nella storia è slash. Se la cosa vi turba, evitate di leggere.
I Backstreet Boys non mi appartengono, e con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di queste persone, nè offenderle in alcun modo. 








 

✺✺Welcome to my heart


The voice of an angel
 




 
Era successo ancora.
Un'altra volta, senza un buon motivo, si era ritrovato steso sul pavimento col naso sanguinante e l'intero corpo dolorante per i violenti colpi appena subiti, incapace di una qualunque reazione o di emettere una qualunque parola di protesta (non che avesse osato protestare).
L'unica cosa a cui riusciva a pensare, più che a reagire, era il dolore, che come mille lame trafiggeva ogni singolo muscolo; il suo respiro affannoso e qualche gemito soffocato divennero gli unici rumori a riempire l'improvviso silenzio calato nel corridoio, silenzio che sembrò quasi strano e insolito dopo urla e colpi a non finire, e l'uomo artefice lo guardava dall'alto in basso con un sorriso crudele stampato sul viso arrossato. 
Ma quel sorriso, che stava come ad indicare la soddisfazione che quell'uomo provava nell'averlo picchiato, poteva anche passare in secondo piano: la cosa peggiore, quello che gli faceva più male di qualsiasi sberla e pugno, era che sua madre se ne stava in un angolo, a braccia conserte, ad osservare la scena con quasi totale indifferenza, come se suo figlio stesse facendo un pic-nic.
-Ora hai capito cosa ti aspetta se non obbedisci ai miei ordini- disse Robert, spostandogli il braccio con il piede. Si chinò su di lui e lo afferrò per i capelli, in modo da guardarlo negli occhi. -Quando ti dico di preparare il pranzo, tu devi provvedere. Quando ti dico di portarmi una birra, tu devi provvedere. Quando ti ordino di fare qualunque cosa,tu devi provvedere! E spero tu abbia capito che in questa casa le cose funzionano così-. 
Il ragazzo aveva le lacrime agli occhi e stringeva i denti per il dolore, quando Robert, con suo grande sollievo, lasciò la presa dai suoi riccioli color miele, permettendogli di posare di nuovo la testa sulle fredde piastrelle di marmo.
L'uomo, alto e grosso, mise un braccio attorno alle spalle di sua madre e insieme si avviarono su per le scale, verso la camera da letto, e lui non potè fare altro che guardarli mentre lo lasciavano lì.
Non si sentiva più niente, né gambe né braccia. Ma questa non sarebbe stata una buona scusa per non preparare il pranzo, naturalmente, e lui di botte ne aveva decisamente abbastanza. 
Ne aveva abbastanza di tutto. Della vita che faceva, del trattamento che riceveva da Robert e dell'indifferenza di sua madre che, sempre sotto effetto di droghe o alcolici, restava immobile a vederlo soffrire a causa del suo violento fidanzato, come se le andasse perfettamente a genio e pensasse anche lei che suo figlio meritasse di riceverne di santa ragione perché aveva chiesto di non fare da mangiare per quel giorno.
Una volta, neanche due anni prima, Jackie era una donna amorevole e premurosa, sempre pronta a sostenerlo e proteggerlo come tutte le madri facevano coi propri figli, ed era il suo punto di riferimento, la roccia a cui aggrapparsi, le braccia in cui rifugiarsi.
Anche suo padre, Harold, era un uomo molto protettivo e affettuoso, che non aveva mai fatto mancare niente alla propria famiglia e aveva sempre trovato le forze per farla resistere a qualunque tempesta e intemperia, ed era sempre stato per lui l'esempio da seguire. 
Da grande sarò come lui, diceva sempre, come ogni figlio che ammirava il padre sperava. 
Loro tre, nonostante le scarse condizioni economiche, erano felici, felici di essere una famiglia unita, felici di poter dimostrare al mondo che la vera gioia non stava nel denaro ma nella capacità di affrontare ogni avversità semplicemente stando insieme.
La morte di Harold fu un durissimo colpo, sia per lui che per Jackie, e per loro fu come se il pilastro che sorreggeva un intera costruzione fosse crollato, trascinando con sé l'intera struttura e non lasciandone altro che le macerie. 
Fu come essere completamente avvolti dalla totale oscurità, senza nessuna piccola apertura che facesse filtrare un po' di luce o qualcuno che tendesse una mano per tirarli fuori da quel pozzo senza fine in cui sembravano essere precipitati.
Mantenere un figlio e una casa e pagare le spese era diventato quasi impossibile per Jackie e quando incontrò Robert, che le offrì un buon lavoro e riaccese in lei qualche speranza di non rimanere sola, colse al volo l'occasione. 
Ma mai lui avrebbe potuto immaginare che quell'uomo fosse un tossicodipendente e che potesse trascinare la sua adorata mamma nella sua stessa condizione, come non avrebbe mai potuto immaginare che sarebbe diventato il servo di casa e che a lei stesse bene.
Non che fosse del tutto colpa sua: se avesse cercato di fermare Robert, quest'ultimo sarebbe stato capace di qualsiasi cosa.
E una persona picchiata bastava e avanzava.
A volte si chiedeva come fossero arrivati a quel punto e perché proprio a loro, che non avevano fatto niente di sbagliato se non lottare con tutte le loro forze. Era questa la ricompensa...? 
Ma soprattutto si chiedeva se sua madre fosse veramente felice, se volesse veramente passare il resto della sua vita tra cocaina, pillole e bicchieri di vino con quell'uomo (se si poteva definire tale) al suo fianco. 
Una madre non dovrebbe volere il meglio per il proprio figlio...? 
Forse all'inizio poteva crederlo, poteva credere di potergli dare una vita migliore con un uomo ricco, ma poteva pensarlo quando non sapeva ancora che persona fosse veramente Robert. 
In ogni caso, era troppo tardi per tornare indietro. Non gli restava altro che aspettare e pregare perchè un giorno, in qualche modo, le cose si potessero mettere a posto. 
Brian avrebbe voluto che il pavimento lo risucchiasse dalla faccia della Terra, ma non accadde (anche se per un momento ci aveva sperato davvero), allora fece appello a tutti i muscoli ancora funzionanti del suo corpo e si alzò faticosamente da terra, poi si asciugò il sangue con la manica della felpa grigia e si diresse ai fornelli, costringendosi a ricacciare indietro le lacrime.
Non voleva piangere.
Non avrebbe dato quella soddisfazione.

 
❦❦❦

La mina della sua matita stava ormai per consumarsi, e non aveva neanche pensato di portarsi dietro un temperino: riuscì a disegnare giusto qualche scoglio e qualche gabbiano che stava spiccando il volo, ma poi la punta si consumò del tutto e dovette mettere via a malincuore l'album dei disegni, per poi osservare le onde ricoprire la sabbia color grano e ritirarsi qualche istante dopo con il loro dolce sciabordio.
Il tramonto dipingeva il cielo di tutte le sfumature possibili e immaginabili di rosso, arancione, giallo, viola e persino qualche schizzo di blu, creando dei meravigliosi giochi di luce e riflessi sulla superficie dell'acqua.
Aveva sempre adorato quella spiaggia, così selvaggia e stupendamente tranquilla, ai piedi di quel piccolo e sperduto paesino in cui aveva trascorso praticamente tutta la sua vita: era il luogo in cui poteva stare da solo con i suoi pensieri, in cui poteva chiudere gli occhi e lasciarsi cullare dal rumore delle onde o lasciarsi accarezzare dalla brezza marina, un luogo in cui ci si poteva dimenticare, anche soltalto per poche ore, della gente e dei problemi della vita. 
Era anche il suo posto preferito per disegnare. 
Il disegno era stato sempre la sua passione, sin da quando era bambino: era il suo modo di esprimere le sue emozioni e i suoi stati d'animo, era il suo modo per sentirsi in pace con il mondo e in cui poteva davvero sentirsi se stesso, e il suo album era una sorta di diario personale a cui raccontare, senza lettere, il suo punto di vista di ciò che lo circondava: il suo album era il suo migliore amico.
Quando disegnava era come se si teletrasportasse in una dimensione parallela dove sfuggire alla vita quotidiana, ed ecco perché la maggior parte del suo tempo lo trascorreva con una matita in mano. 
E cosa c'era di più rilassante di quella spiaggia incontaminata, dopo cinque terribili e interminabili ore trascorse a subire le prese in giro dei propri compagni di liceo? 
Già, per tutto l'orario di lezione, come al solito, aveva dovuto sforzarsi di sopportare e ignorare le frecce avvelenate che gli studenti gli scagliavano contro. E il bersaglio lo centravano, eccome se lo centravano, ma le sue mura di difesa non erano ancora crollate del tutto. 
Per ora.
Ormai era un'eternità che quella storia andava avanti così, ma non ci si abituava mai alle persone che fecevano il possibile per rendere ogni tuo giorno un totale inferno e a non avere nessuno al tuo fianco pronto a difenderti.
Perché, perché lui era diverso? Perché tutti erano disgustati da tale diversità? 
Alla fine di ogni giornata, le parole dei suoi compagni riecheggiavano nella sua mente come l'eco di tante voci demoniache, assillandolo e facendolo sentire quasi in colpa per ciò che era, si sentiva sbagliato e tagliato fuori dal resto della comunità.
''Sta' lontano da me, finocchio'' o ''Hey, gay, hai rimorchiato qualche povero sfigato?'' erano all'ordine del giorno, e ogni volta era un colpo al cuore. 
-Perché non puoi sommergermi, mare?- chiese ad alta voce, guardando malinconicamente la grande distesa d'acqua davanti a lui -Perché non puoi rapirmi e trasformarmi in una delle tue onde, per poi infrangermi sulla sabbia e lasciando di me nient'altro che l'orma?-. 
Chissà come doveva essere, far parte di quell'immensa distesa d'acqua e non dover far altro che lasciarsi trasportare dalle onde e attendere di giungere alla fine del proprio viaggio, lasciarsi alle spalle il passato e dimenticarsi dell'esistenza del dolore e della solitudine.
Perché era la solitudine la bestia più feroce, che lo aveva azzannato e aveva conficcato dolorosamente gli artigli nella sua carne fino a provocare ferite profonde, di cui sarebbe sempre rimasta la cicatrice, sempre che avessero mai smesso di sanguinare.
Non aveva amici perché era diverso.
Non aveva amici perché era gay. 
Ma cosa importava alla gente? Perché la consideravano una cosa così terribile? Al cuore non si comanda, no...? 
Un paio di ragazze, le snob della sua dannata classe, lo avevano scoperto origliando una conversazione con sua madre appena fuori dal cancello della scuola, e il giorno dopo, chissà come, lo sapevano tutti. 
Ed era lì che era iniziato il suo incubo.
La cosa invece era stata ben diversa con i suoi genitori, fortunatamente: quando, tempo prima, aveva confessato loro il suo segreto, non lo avevano giudicato o non si erano vergognati di avere lui come figlio, anzi lo avevano sostenuto e rassicurato dicendogli che gli avrebbero voluto bene qualunque cosa fosse accaduta, che lo avrebbero sempre difeso dagli attacchi esterni e protetto da qualunque cosa vagamente somigliante alla tristezza, e quello fu un grande peso tolto dalle spalle.
Sapeva che avrebbe sempre potuto contare sulla sua famiglia, lo aveva sempre fatto e loro non lo avevano mai deluso, ma contro i suoi compagni avrebbero potuto fare ben poco.
Dopo un po', Nick si accorse che il bel tramonto stava lasciando posto al blu e alle stelle; prese quindi il suo amato album sottobraccio e si alzò, si scrollò la sabbia dai vestiti e, prima di avviarsi verso casa, si voltò ancora una volta verso il mare, promettendogli che sarebbe tornato il giorno seguente, come faceva ogni volta che, a malincuore, doveva lasciarlo. 

 
❦❦❦

Finalmente era domenica, il giorno della settimana che Nick decisamente preferiva. 
Ovviamente il motivo era che non sarebbe dovuto andare in quell'infernale edificio chiamato ''scuola''.
Ignorando il fatto che fossero appena le sette del mattino e che i suoi genitori stessero ancora dormendo, uscì di casa per recarsi alla spiaggia con il suo album, la sua matita e un temperino col contenitore (sì, stavolta se l'era ricordato), rilassandosi subito al pensiero del mare che avrebbe accompagnato i suoi pensieri con lo sciabordio delle sue onde e della fresca aria del mattino sul suo viso.
Mentre percorreva la strada deserta, pensò ai progetti che aveva in mente per il suo futuro, una volta terminati gli studi: il suo primo pensiero era sempre stato quello di staccare per un bel po' dal suo paese e andare a studiare all'estero, conoscere nuovi volti e dimenticare quelli che lo tormentavano durante la notte, cercare magari di farsi qualche amico, cosa che aveva sempre voluto e sperato. L'unico vero amico lo aveva avuto a sei anni, ma si era dovuto trasferire in Messico per il lavoro di suo padre e da allora non lo aveva più visto.
Da allora, soprattutto, non aveva più avuto amici, non amici veri. 
Quelli che credeva di avere i primi anni di liceo non avevano esitato ad abbandonarlo e scappare via da lui non appena appreso il fatto che lui non fosse come loro, non c'erano stati ''mi dispiace, ma non possiamo più essere tuoi amici'' o ''scusa, ma non riusciamo ad accettarti per quello che sei'', anche se erano impliciti e contenuti nelle occhiate di disprezzo che ogni tanto gli lanciavano. 
Forse, se glie lo avessero detto in faccia, gli avrebbe fatto ancora più male. Forse era stato meglio così.
Un'altra cosa che sperava di trovare, per quante probabilità ci fossero per lui di riuscirci, era quello che avrebbe cambiato per sempre la sua vita e che le avrebbe dato un senso, era quella cosa così speciale in grado di farti sentire tre metri sopra il cielo e capace di cancellare qualsiasi paura e preoccupazione con un solo e semplice gesto, era ciò per cui valeva la pena di lottare, di sacrificare se stessi: l'amore. 
Chissà come ci si sentiva ad essere amati, chissà com'era stare l'uno tra le braccia dell'altro e lasciarsi trasportare dalla dolcezza di qualche bacio o carezza, scambiarsi sguardi complici e capire quanto si era fortunati ad avere incontrato qualcuno che lo facesse sentire in quel modo e condividere con quella persona speciale ogni singola lacrima e ogni singolo sorriso, ogni segreto e ogni paura, avendo sempre la certezza di un solido appoggio a cui sorreggersi.
Magari un giorno sarebbe arrivato anche per lui, quel miracolo, magari la felicità riservava ancora un minuscolo spazio per Nickolas Gene Carter: nonostante il dolore e la solitudine, lui continuava a crederci, e forse la fede avrebbe potuto essere ricompensata.
Come poteva darsi di no.
Ma lui non si lasciava abbattere dal pessimismo, era stufo di sentirsi vuoto e privo di qualcosa per cui andare avanti, era stufo di lasciarsi ferire così facilmente dalla gente e mostrare loro la sua vulnerabilità, mettendosi così ancora più in pericolo. 
I suoi pensieri vennero interrotti quando il profumo dell'acqua di mare e il suo rumore si fecero forti e vicini, e si accorse di essere arrivato a destinazione quando si ritrovò davanti le rocce bianche che, come una barriera protettiva, separavano la spiaggia dalla civiltà, quasi a volerla proteggere dal caos e voler separare due mondi completamente differenti. 
Le scavalcò, come ogni giorno, senza difficoltà, e fece per recarsi nel suo solito angolino di spiaggia in cui si metteva a disegnare, quando sentì la dolce melodia delle corde di una chitarra. 
''Il rumore delle onde è musica per le mie orecchie'', pensò, ma no, non era il mare, era davvero qualcuno che stava suonando la chitarra, e le note provenivano da dietro una delle rocce. 
Aggrottò la fronte, non aspettandosi gente a quell'ora del mattino, si avvicinò lentamente per non far notare la sua presenza e sbirciò, incuriosito, rimanendo poi meravigliato da ciò che vide.
Un bellissimo ragazzo dai riccioli biondo scuro e i lineamenti marcati stava suonando la più bella melodia che Nick avesse mai sentito, come se provenisse da un'altro pianeta e avesse il potere di ipnotizzarti e non voler far altro che chiudere gli occhi e lasciarsi cullare da quella dolcezza, e si sentì letteralmente sciogliere quando alla musica si aggiunse anche la voce del ragazzo. 
-I tried to figure it out, time and time again, and time again...I guess there's just some things I'll never understand...-. 
Quella era sicuramente la voce di un angelo. 
Sì, era impossibile che appartenesse ad un comune mortale.
Era il suono più meraviglioso, melodico e angelico che fosse mai giunto alle sue orecchie, e per un attimo si guardò intorno per assicurarsi di non essere stato catapultato in paradiso; gli sembrava di volare, si sentiva in pace, si sentiva sereno e rilassato come non lo era mai stato in vita sua, e si stupì del fatto che quella voce potesse avere tale effetto sulle persone. 
Sarebbe rimasto ad ascoltarlo per ore, forse anche giorni interi, solo per sentirsi sempre avvolto da quella stupenda sensazione di calore e sicurezza che si era impossessata del suo cuore in quel momento, per sentirsi così bene da riuscire a dimenticare tutto il resto e a non attribuirgli più importanza. 
Avrebbe voluto farsi vedere e dirgli qualcosa, anche solamente un ''ciao'', ma per niente nell'universo lo avrebbe interrotto. 
Sarebbe stato come togliere l'aria nell'atmosfera terrestre.
-My soul has found a place to rest...I'm in over my head-. 
Sì, la sua anima aveva trovato un posto in cui restare. 
Non riusciva a togliergli gli occhi di dosso, erano come incollati con la colla universale più potente che fosse mai stata inventata nella storia dell'umanità: in quel momento sarebbe anche potuto finire il mondo e lui non se ne sarebbe minimamente accorto, qualcuno avrebbe anche potuto pugnalarlo allo stomaco e lui non avrebbe sentito alcun dolore. 
Era un sogno o era la realtà? Quella bellissima creatura esisteva davvero o se la stava immaginando?
Non importava. Non importava più nulla. 
L'unica cosa che voleva fare in quel momento era farsi portare via da quella canzone e non fare più ritorno, vivere in eternità con quella voce divina ad accompagnarlo: era come una medicina, una cura anche per le ferite più profonde. 
Anche per quelle lasciate dalla bestia della solitudine, avrebbe osato dire. 
Nick rimase ad ascoltare fino alla fine, aspettandosi poi che il ragazzo svanisse nel nulla lasciando posto solo a sabbia e rocce, ma fortunatamente non fu così. Incredibilmente non stava sognando. 
Ma ora chi lo avrebbe più svegliato dallo stato di trance in cui era precipitato? 
Ecco cosa: un movimento del bellissimo sconosciuto, che si stava alzando per andarsene. 
Con uno scatto fulmineo, si nascose del tutto dietro la roccia e, dispiaciuto, aspettò che se ne andasse, sperando con tutto il cuore di ritrovarlo lì il giorno dopo e continuare a dare vita al suo sogno. 
Nick sarebbe stato lì come sempre
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