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Autore: Fusterya    13/09/2013    5 recensioni
L’aria è pungente, è mattina presto.
Bond guarda dinanzi a sé il prato immenso del parco che si estende davanti ai suoi occhi: le stecche di legno della panchina gli premono glaciali contro la schiena, e non è una sensazione piacevole.
Non ha niente da dire.
Non sa nemmeno perché è qui.
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: James Bond, Q
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Non so cosa sia.

Non so da dove sia venuta.

Non so chi sono e cosa sto facendo, ma va bene così.

Forse sarà una raccolta, forse no, ma la mia testa è piena di scene singole in questo periodo, e questa è la conseguenza.

(Non è betata, non è corretta... insomma, non è.)

 


               

                ***



 

L’aria è pungente, è mattina presto.

Bond guarda dinanzi a sé il prato immenso del parco che si estende davanti ai suoi occhi: le stecche di legno della panchina gli premono glaciali contro la schiena, e non è una sensazione piacevole.

Non ha niente da dire.

Non sa nemmeno perché è qui.

Alla sua destra, il Quartermaster si frega nervosamente le mani facendo finta di riscaldarsele.

Il suo profilo è corrucciato… ha la stessa, intensa e sofferente espressione che gli ha visto quando ha fatto capolino sulla soglia della porta, in ospedale, senza accorgersi che James non stava dormendo e che, invece, studiava la sua figura sottile attraverso la cortina delle ciglia bionde, concentrandosi su di lui, sul parka verde scuro, sui capelli castani umidi di pioggia, per combattere il dolore fisico.

Ma Q non era entrato del tutto nella stanza. Era rimasto lì, per minuti e minuti, a fissarlo dalla soglia.

Come se non avesse diritto.

Entra - avrebbe voluto dirgli - Sei l’unico che sia venuto qui, dopo Alec ed Eve… e non ci siamo quasi mai parlati in un anno tranne che per auricolari.

Ma la voce era soffocata dal tubo per respirare, e lo sarebbe stata ancora per giorni. Giorni in cui il Quartermaster si sarebbe affacciato puntualmente sulla soglia della sua stanza d’ospedale.

Ogni giorno.

 

 

“Cosa farai?” gli parla Q ad un tratto, e Bond si riscuote da quel ricordo.

Fissa lo sguardo su due jogger che passano loro davanti, saltellando ad un buon ritmo.

“Aprirò un negozio di sigari.”

Q sbuffa fuori un sorriso non allegro. Bond ora gli sta guardando il profilo elegante, un profilo da dandy di altri tempi, altero e a suo modo antipatico, e non riesce a sorridere con lui.

Dubita che potrebbe servire i clienti con una mano paralizzata.

“Cosa volevi dirmi, Q?”

Il Quartemaster stringe gli occhi e guarda lontano.

“Che se avessi bisogno di qualunque...”

La risata sommessa e cupa di Bond lo interrompe.

“Per l’amor di dio, Q. Cazzo.”

Q volta appena il capo verso Bond e guarda il grosso rigonfiamento che sporge dal cappotto scuro che gli calzerebbe a pennello, se non fosse per la fasciatura rigida che gli tiene il braccio sinistro immobile contro il busto.

Non gliel’hanno amputato per puro miracolo.

“… che mi dispiace.” incalza Q.

Bond armeggia con la mano destra e tira fuori un pacchetto di Marlboro, aprendolo tra le dita e tirando via una sigaretta coi denti.

Il suono secco della pietrina contro la rotella d’acciaio dell’accendino quasi rimbomba nel silenzio umido del mattino.  

La scintilla vivida fa stringere gli occhi a Bond.

“Non è stata colpa tua.”

No, non è stata colpa sua. Q non era lì quando è successo: era andato a casa un paio d’ore, almeno per farsi una doccia dopo giorni di supporto a quella missione sensibile, sì, ma uguale a tante altre.

Quando il full metal jacket hollow point da carabina aveva colpito Bond dopo un agguato inaspettato, Q giaceva addormentato sul divano, con i capelli ancora grondanti acqua.

Quando gli avevano detto che 007 era in fin di vita per l’emorragia, stavolta sì, per davvero, e che il braccio era quasi tranciato a metà all’altezza dell’omero, Q si era guardato nello specchio del bagno per ore, schiacciato dal bisogno di vomitare.

“Mi sembrava giusto…” esordisce Q con una certa difficoltà.

Bond si gira a guardarlo soffiando fuori il fumo.

Q prende un grosso respiro e ci riprova.

“…mi sembrava giusto dirti una cosa, qualora non dovessimo vederci mai più.”

Cosa altamente probabile, ora che Bond non fa più parte del Mi6.

Tesserino ritirato, licenza revocata. Gli hanno lasciato il porto d’armi per non esagerare con l’umiliazione.

Bond lo fissa in attesa, il volto scavato da mesi di ospedale e dal dolore fisico. Solo l’azzurro trasparente degli occhi è sempre uguale: Q pensa che quel colore e quella brillantezza non si attenueranno nemmeno quando morirà sul serio. Probabilmente resterà secco da qualche parte con gli occhi turchesi spalancati al cielo, e chi lo soccorrerà guarderà in quegli occhi e penserà che è ancora vivo, che se la può cavare.

“Mi manca lavorare con te.”

Dice Q di getto, puntando sguardo fisso in quell’azzurro. Che resta in silenzio.

“Mi manchi, Bond.”

Gli occhi di James restano freddi, due lune d’acqua in un altro sistema solare.

Tira una boccata, sfiata il fumo dal naso. Il bel volto tutto angoli retti e rughe non mostra nessuna ombra, nessuna luce, nessun movimento. Niente.di.niente.

“Dunque, questa è la parte in cui ti faccio pena?”

Q apre la bocca per dire qualcosa, all’improvviso senza ossigeno e senza parole, ma James tira un’altra boccata alla sigaretta.

“Chiedo scusa.” dice cominciando ad alzarsi in piedi, in un’assurda e involontaria parodia del loro primo incontro alla National Gallery.

Stavolta non è una frase a trattenerlo, ma la netta sensazione delle dita di Q strette attorno a un lembo del suo cappotto scuro. Uno strattone senza troppa forza, seguito da una presa resistente e senza esitazioni.

“James… per favore.”

Bond resta in piedi, dando le spalle a Q.

In lontananza un gruppo di ragazzini rincorre una palla da basket. Le loro urla smorzate fanno chiudere gli occhi a Bond nel tentativo di rammentare un tempo in cui anche per lui è esistita la gioia genuina. Quella che nasce da un pallone, un filo d’erba, l’odore di un frutto.

Poi li riapre, ed è di nuovo oggi.

“Avrei voluto dirti un sacco di cose…” continua la voce di Q dietro di sé.

“Avrei voluto esserti vicino… stare con te. Da prima. Da sempre. Non ho mai saputo come raggiungerti.”

Vellutata, sottile, quella voce, e senza la fastidiosa sicumera che grondava un tempo dall’auricolare.

“Non ho mai saputo come farlo.”

Poi tace.

Bond respira altre due boccate dalla sigaretta.

E’ strano come questo improvviso silenzio e il peso delle dita di Q ancora aggrappate al lembo del suo cappotto, facciano nascere dolcemente la rivelazione nella sua mente fiaccata, piatta come un’asse di legno con troppi chiodi conficcati alla rinfusa.

E’ un’illuminazione lenta, non drammatica, che gocciola piano dietro gli occhi di James e gli fa emettere un lieve sospiro e lanciare la sigaretta davanti a sé con un piccolo movimento.

Q gli lascia il cappotto.

Lui, lentamente, si risiede e si volta a guardarlo inespressivo.

Q tiene la testa bassa e guarda per terra con le labbra strette e le mani che adesso giocano nervosamente sul proprio grembo.

Sembra un ragazzino dimenticato da qualche parte dai genitori: ma non lo è, e questo James l’ha sempre saputo più di chiunque altro.

“Dio…” mormora “Sono patetico. E questa è la parte in cui io dovrei fare pena a te.”

James si gira di tre quarti a fatica, impacciato nell’equilibrio dalla fasciatura, e lo scruta con una calma innaturale.

“Guardami.”

Q resta immobile. I suoi denti affondano di più nel suo labbro inferiore già tormentato.

“Guardami, Q.”

Q solleva il capo, adagio, e si gira verso di lui, pallido e aggraziato, gli occhi lucidi di stanchezza e vergogna. E amore.

“Sulla faccenda del farci pena a vicenda siamo a posto, allora.” dice James, e quando accenna un sorriso, l’azzurro inanimato dei suoi occhi si spoglia di durezza e si riempie di un nuova sfumatura.   

Q riesce a sorridere insieme a lui, e la piccola lacrima che gli sfugge, incastrandosi nel nasello degli occhiali, fa in modo che quel sorriso spezzi James Bond nettamente in due, su quella panchina in mezzo al parco in un mercoledì di gennaio.  

“Accompagnami a casa.” dice James, senza protendersi a toccarlo come vorrebbe fare.

Non per gratitudine, non per sollievo, ma perché ha sempre voluto farlo.

E neanche lui ha mai saputo come.

Q tace ancora, interdetto.

“Fa freddo” incalza James, alzandosi di nuovo ” Non mi fa bene”.

“Sono… venuto con la metro….”

James, dall’altro, gli tende la mano buona e aspetta che Q gliela afferri.

“Meglio. Camminiamo insieme.”

Le dita di Q sono calde: si sarebbe aspettato l’esatto contrario per come sono lunghe e bianche e per il freddo che fa.

Ma sono caldissime, confortevoli, e lui ci si aggrappa con tutta la fame di vita, e la disperazione, l’odio, il dolore, la solitudine e la delusione di una intera esistenza, anche se in questo istante è Q che si sta issando in piedi grazie alla sua presa.

Q gli è davanti e continua a guardarlo incredulo.

James non lo bacia.

Lo farà… oh, certo, lo farà prima di subito, appena saranno al caldo dietro la porta di casa, con nell’aria la promessa di un té e di qualcosa di desiderato che sta succedendo, inaspettatamente, finalmente…. ma non adesso.

Adesso riesce solo a guardarlo, e attraverso il verde dorato delle iridi di Q può quasi immaginare come sarà farsi rimettere insieme i pezzi, uno per uno. Piano piano.

Può vedere Q tendere le braccia e afferrarlo al limite del precipizio, come ha sempre fatto senza saperlo.

“Andiamo.” dice soltanto.

Q non è pronto, sta ancora cercando di capire, ma dice il primo dei suoi sì con un lieve cenno del capo.

James gli cinge la vita col braccio sano - con una stretta salda delle sue -  e si incamminano lentamente, senza parlare, lasciandosi dietro il silenzio della morte, di tutte le loro morti, rotto dall’eco dei ragazzini.




 
  
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