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Autore: andromedashepard    13/09/2013    3 recensioni
“Speravo dormissi, almeno tu”, disse Thane quando lei ebbe aperto il portellone. Le sembrò esausto. Coprì con due brevi falcate la distanza che li separava, uno sguardo che lei non seppe interpretare. “Dammi un buon motivo per andarmene”, aggiunse, appoggiando la fronte contro la sua. Lei trattenne il respiro, mentre le sue dita si intrecciavano ai suoi capelli. Se c’era davvero un buon motivo, lei non lo conosceva.
#Mass Effect 2 #Shrios
Genere: Avventura, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Comandante Shepard Donna, Thane Krios
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Andromeda Shepard '
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“Forget this life 
 Come with me
 Don't look back, you're safe now
 Unlock your heart
 Drop your guard
 No one's left to stop you”
 
 (Anywere – Evanescence)

 [x]

 

 
Thane aprì gli occhi nel buio, sfiorando la superficie fresca del materasso con una mano. Non sapeva quanto avesse dormito, ma si sentiva riposato come non gli capitava da tempo. Una notte serena, senza sogni, senza tormenti, la prima dopo tanti anni. Si rigirò, convinto di trovare Shepard ancora addormentata, e invece ciò che vide lo lasciò perplesso. Era appoggiata con i gomiti sul cuscino, la sua giacca che le ricadeva dolcemente lungo i fianchi, lo sguardo perso a guardare l’oblò sul soffitto e un sorriso rilassato sulle labbra. Senza neanche voltarsi verso di lui, iniziò ad indicargli punti invisibili sopra di sè. “Sono milioni e si muovono tutte”, disse, come incantata. Lui corrugò la fronte, incapace di comprendere cosa stesse succedendo. La costrinse dolcemente a voltarsi per guardarlo, ma lei, per tutta risposta, scoppiò a ridergli in faccia.
“Shepard…”
“Le stelle… mi piovono addosso”, disse lei, allungando le braccia di fronte a sé come ad accogliere gocce di pioggia.
“Vado a chiamare la Chakwas”, rispose allora lui senza perdere tempo, facendo per alzarsi. Shepard lo trattenne per la manica della felpa.
“No, no… è tutto sotto controllo”.
“Stai delirando! E’ tornata la febbre?”, le domandò, posandole una mano sulla fronte. Era fresca.
“No, niente affatto”, lei scosse la testa, continuando a sorridere.
“Hai preso qualcosa?”
“Sì”, rise lei.
“Perché ridi? Dimmi cosa sta succedendo, per favore”.
Shepard non poté fare a meno di notare la preoccupazione nel suo sguardo, nonostante le immagini le apparissero distorte e sature di colori, in continua trasformazione. “Promettimi che non ti arrabbierai”, gli disse, ben consapevole di aver omesso dei dettagli che lui avrebbe voluto conoscere.
Lui annuì semplicemente, impaziente di capire il motivo di un simile comportamento.
“Mordin… Lui mi aveva avvisata”, spiegò, portandosi le ginocchia al petto. Nonostante cercasse di restare seria, non riusciva a sbarazzarsi di quell’aria spensierata che la portava a sorridere incontrollabilmente. “Contatto orale può causare allucinazioni”, esclamò, imitando la voce del Salarian. Quell’affermazione, quel tono scherzoso, ebbero tutto l’effetto contrario su Thane, che si rabbuiò immediatamente e si girò brevemente dall’altra parte. “Perché non me lo hai detto?”, le chiese, serrando le mascelle.
“Perché non volevo darti un motivo in più per farti allontanare da me…”
La dolcezza con la quale pronunciò quella frase lo colpì dritto al cuore e lui, dopo un lungo silenzio, si costrinse a voltarsi nuovamente verso di lei, avvicinandosi così che lei potesse trovare spazio fra le sue braccia. Sospirò, gli occhi neri velati da una patina di tristezza e senso di colpa. “Avrei dovuto saperlo, avrei dovuto almeno informarmi”, disse, incrociando le braccia sopra alle sue.
“Non è colpa tua, non avevamo previsto niente di tutto ciò”.
“Questo è vero”. Strofinò una guancia contro i suoi capelli, come avrebbe fatto un gatto in cerca di coccole, e lei si girò a sorridergli. Avrebbe voluto vedere un sorriso anche sulle sue, di labbra, invece di leggere solo tristezza, una tristezza che per un momento le fece riprendere contatto con la realtà.
“Non devi preoccuparti”, gli disse, nel tentativo di rassicurarlo, mentre cercava di ignorare le immagini distorte che, nel frattempo, la sua mente proiettava di fronte a lei.
“Non posso continuare a farti del male”, rispose lui, piano.
“Non dire così… sono sicura che Mordin potrà darmi uno dei suoi rimedi, anche per questo”, sorrise lei, tentando di sdrammatizzare. “E poi non vedo cosa ci sia di male nel fare un modesto uso di sostanze stupefacenti durante il tempo libero”, scherzò.
“Pensi si tratti solo di questo?”, il suo tono di voce cambiò, si fece più duro. Lei non ebbe il coraggio di rispondere, perfettamente consapevole di cosa si celasse dietro alle sue parole.
“Io non ho niente da darti, Siha”.
Quelle parole, che suonarono come una confessione, le fecero male, in un modo che strideva ampiamente con la sua attuale condizione mentale. Era difficile focalizzarsi su un discorso, razionalizzare, in una situazione dove tutto era confuso e fantasia e realtà si mescolavano insieme, regalandole immagini e sensazioni che sfioravano l’assurdo. Si sforzò di concentrarsi, sbattendo le palpebre più volte. “Pensi di non avermi già dato abbastanza? Pensi che questo non sia abbastanza?”, replicò con quel briciolo di lucidità rimastole.
“Un giorno questo non ti basterà. I ricordi non possono sostituire la realtà”.
Lei non volle rispondere. No, sapeva perfettamente che i ricordi sarebbero stati solo una misera consolazione, ma non spettava a lui decidere cosa e quanto le sarebbe bastato. Si voltò verso di lui, nel tentativo di raggiungere le sue labbra e interrompere quel discorso senza senso, ma lui si scostò, l’espressione contrariata.
“Perché?”, gemette.
“Non è giusto. Mi hai dato più di quanto io avessi mai sperato, Shepard… E io ti ho ricambiato solo con il mio egoismo”, rispose lui, accarezzandole lentamente i capelli.
“Sarò pure strafatta come un pyjak imbottito di sabbia rossa, ma so riconoscere quando qualcuno dice una stronzata…”
“Perché ti ostini a non capire?”
“Cosa, cosa vuoi che capisca? Spiegami”.
“Io sto morendo, Shepard”.
 
La prima volta che aveva pronunciato quella frase, l’aveva fatto con lo stesso tono di qualcuno che ti porta distrattamente il conto del caffè al bar. Era stata una frase vuota, priva di spessore, per niente diversa da una qualunque altra frase di circostanza. Adesso, nel permettere che quelle parole lasciassero le sue labbra, gli sembrò di compiere uno sforzo disumano e fu in quel preciso istante che si rese conto di quanto fosse profondamente cambiato nel giro di qualche settimana.
“Lo so, Thane”.
E lei pronunciò quelle parole con lo stesso dolore, con la difficoltà di un imputato che cede all’interrogatorio e presenta la propria, terribile, confessione davanti alla corte marziale.
“E’ la prima cosa che mi hai detto, non l’ho dimenticato”, aggiunse poi, quasi con rabbia.
“Allora perché?”
“Dannazione, Thane… cosa vuoi sentirti dire?”, esclamò, senza riuscire a pensare a qualcosa di più sensato. Calò il silenzio dopo quella domanda. Un silenzio frustrante, forse più frustrante della domanda in sé. E mentre le loro parole avevano tutto il sapore del distacco, le loro mani non smettevano di cercarsi e di stringersi, come se appartenessero a qualcun altro.
Quello che si era lentamente insinuato fra di loro li aveva lasciati inermi e storditi, senza dare loro neppure il tempo di riflettere, di accettare o eventualmente respingere ciò che stava accadendo, come un fiume in piena, pronto a travolgerli completamente… e lei non aveva idea di quando la corrente si sarebbe fermata, non sapeva se li avrebbe gettati da un precipizio o accompagnati dolcemente a riva. E questo faceva paura.
 “Sono stata morta per due anni…”, sussurrò poi lei, quasi a voler parlare con se stessa, “…e tu mi hai fatto sentire viva dopo tanto tempo. Tu mi fai sentire viva”. Questa era l’unica cosa di cui era certa.
Lui la strinse maggiormente fra le sue braccia, scostandole una ciocca di capelli dal viso. “A che prezzo, Siha?”
Ad un prezzo troppo alto…
“Non sono una stupida, dannazione. So cosa posso sopportare”.
“Ma io non posso sopportarlo”, scandì lui lentamente.
“Allora perché sei qui, Thane?”, gli domandò lei irrigidendosi.
Se solo l’avesse saputo... Era stata una forza estranea a condurlo da lei, qualcosa che la razionalità non era riuscita a mettere a tacere. Qualcosa già provato tanti anni prima, quando aveva deciso di far entrare nella sua vita uno spiraglio di luce in grado di illuminare l’oscurità che lo aveva sempre avvolto. E perderlo, quello spiraglio di luce, l’aveva fatto ripiombare nel buio più fitto. Non voleva questo per lei, non voleva rivedere se stesso nei suoi occhi, quel se stesso distrutto e scoraggiato che da qualche giorno non riusciva più a riconoscere, ma che sapeva essere ancora lì da qualche parte.
“C’è una specie di pesci su Kajhe…”, iniziò a raccontarle con calma, “…nessuno sa perché, ma sono terribilmente attratti da una varietà di corallo che emana scariche elettriche al contatto. Alcuni dicono che siano attratti dal colore, un rosso intenso e brillante, capace di essere avvistato a metri di distanza anche nelle profondità dell’oceano. La scarica che producono è sufficiente per uccidere istantaneamente un esemplare adulto, eppure i pesci continuano a cercare il corallo, instancabilmente. Non c’è logicità in tutto questo”, concluse scuotendo lentamente il capo.
“Io non ho bisogno di logicità”.
“Il peso che porti sulle spalle è troppo grande, Shepard… Non hai bisogno di un altro fardello”, disse lui, sfiorando con le mani le sue braccia, risalendo fino alla base del suo collo.
“Va bene…”, sbuffò lei, allontanandosi per interrompere il contatto, “ho capito cosa stai tentando di dirmi e francamente, anche se non condivido, posso capirti. Solo… non provare a dirmi cosa è giusto per me. Tu… tu neanche mi conosci”.
E mentre i muri si scioglievano intorno a lei, come fossero piccole cascate d’acqua, si costrinse ad alzarsi, spogliandosi della sua giacca, e andò a chiudersi in bagno. Non aveva senso continuare una discussione del genere in quelle condizioni, così come non si sarebbe mai lanciata in una missione senza essere perfettamente lucida. La parete alla quale si appoggiò stancamente le sembrò più fredda del solito, quasi ghiacciata. Controllò brevemente la ferita al fianco ed ebbe l’impressione che stesse sanguinando di nuovo, di un sangue viola, poi rosso, poi blu scuro, ma non era reale… niente di tutto quello che stava vedendo era reale… niente, a parte le dolorose parole che lui le aveva detto. Le uniche che avrebbe voluto davvero dimenticare.
 
 
 
 
Perché?
Continuava a ripetersi nel silenzio della sua cabina, chissà quanti minuti dopo. Si era buttata sul letto a pancia in su, con i capelli ancora bagnati, cercando disperatamente di trovare un senso in quello che era successo. Le stelle avevano smesso di pioverle addosso, i muri erano tornati ad avere forma solida e la ferita sembrava perfettamente richiusa come ricordava, ma tutto il resto, tutto quello che si erano detti non era scomparso.
Perché?
 Forse, dopotutto, l’Uomo Misterioso non aveva avuto tutti i torti a ricordarle quale fosse il suo compito e quali fossero le sue priorità. Ricordarle… come se ci fosse stato bisogno. Ma sì, probabilmente sarebbe stato più facile in questo modo… Rispondere agli ordini, vivere alla giornata, mettere a tacere gli incubi con un paio di pillole, non farsi domande, andare avanti senza mai guardarsi indietro, chiudere tutte le emozioni in una cassaforte e buttare via la chiave. Pazienza se due anni della sua vita erano già passati senza che lei ricordasse niente, pazienza se adesso si ritrovava viva per il volere di qualcun altro, pazienza se l’Alleanza le aveva sbattuto la porta in faccia senza pensarci due volte, pazienza se Kaidan l’aveva additata come una traditrice, pazienza se adesso era costretta a lavorare per Cerberus, la stessa dannata Cerberus di Akuze. Pazienza…
Si girò sul fianco, rannicchiandosi fra le lenzuola sgualcite. La sua felpa era piegata con cura, appoggiata accanto al cuscino. Se chiudeva gli occhi, riusciva ancora a sentire chiaramente il suo odore.
Di cosa ho bisogno, io?
Quella domanda l’aveva perseguitata da quando ne aveva parlato con lui una sera di tanti giorni prima. Credeva di aver trovato la risposta, lì, in quello stanzino buio e polveroso che l’aveva vista fare a pugni con il mondo in attesa che qualcuno la salvasse, in attesa che qualcuno le ricordasse che lei è Umana, che anche lei ha il diritto di piangere, il diritto di sbagliare, il diritto soffrire e soprattutto, il diritto di essere felice. Credeva di averla trovata nei suoi occhi, nelle sue labbra, nella curva della sua schiena, nelle sue mani, nella sua voce… E adesso faceva male la paura che quel bisogno sarebbe rimasto per sempre inappagato, anche se ogni atomo del suo corpo la implorava di non arrendersi… perché se lei meritava di essere felice, lui meritava di esserlo di più.
 
 
 
La giornata passò più lentamente del solito, fra medicazioni, scartoffie e rapporti da leggere e inoltrare. Shepard non si era concessa più un solo momento per riflettere in pace su ciò che era successo, avrebbe avuto tempo. Adesso sentiva solo il bisogno di scrollarsi di dosso quella sensazione di impotenza e confusione che la spossava completamente. Voleva solo tornare ad essere il Comandante, con la stessa intensità con la quale, poche ore prima, aveva voluto liberarsi di quel titolo anche solo per un momento. Mancava poco all’arrivo su Bekenstein e nonostante non avesse ancora avuto modo di parlare direttamente con Kasumi della missione, le era bastato il benestare della Chakwas, a patto che non si strapazzasse troppo. Convocò la ladra in sala briefing e aspettò di sentire il suo piano.
“Quello che sto cercando è in mano ad un potente uomo d’affari, Donovan Hock… criminale e assassino nel tempo libero, inarrivabile e intoccabile secondo molti”, iniziò a illustrarle, facendo scorrere diverse immagini sul suo factotum.
“Umh…”, mormorò Shepard, dando un’occhiata alle prime informazioni.
“Non preoccuparti, ho già pensato a tutto. Se saremo fortunate, non ci sarà neppure bisogno di ricorrere alle armi”.
“E io che credevo di tornare subito in azione…”, sorrise.
“Oh, sono sicura che quella non mancherà nei giorni a venire”, rispose Kasumi appollaiandosi sul tavolo ovoidale.
“Allora… spiegami cos’hai in mente”.
“Hock ha organizzato una festa in grande stile in una delle sue proprietà su Telmum. Ci sarà gente ricca, politici, persone con una certa reputazione. Tu dovrai semplicemente infiltrarti”.
“Dovrei infiltrarmi? Kasumi, fra le tante persone temo tu abbia scelto quella sbagliata…”, rise.
“Non preoccuparti, io ti coprirò le spalle e ti guiderò passo passo. Si tratta solo di bypassare la sicurezza e penetrare nel suo caveau”.
“Roba da poco, insomma”, ironizzò. “Non mi hai ancora detto cos’è quello che stai cercando”.
“La greybox del mio partner. E’ un impianto neurale, contiene ricordi, informazioni, dati…”, rispose lei, chinando leggermente il capo.
“Dimmi di più”.
“Io e Keiji lavoravamo ormai insieme da tempo quando lui è venuto a conoscenza di certe informazioni. Non sono mai arrivate in mio possesso, ma so solo che sono molto pericolose e vanno recuperate”, sospirò piano, facendo una breve pausa. “E’ stato ucciso per questo, Shep. Da Hock in persona”.
Dal modo in cui ne parlò, dal suo tono di voce, lei ebbe l’impressione che non si trattasse soltanto di un semplice collega, ma non si azzardò a chiedere di più e aspettò pazientemente che continuasse.
“Ho preso una camera d’hotel a nome di Alison Gunn, un bell’abito da cocktail, un paio di scarpe e mi sono presa la libertà di crearti una reputazione. Sarai proprio il tipo di persona che piace a uno come lui. Solo… non metterti a parlare di affari”, disse, facendo l’occhiolino.
“Un momento… tu vuoi che io faccia l’infiltrata alla festa come ospite?”
“Precisamente”.
Shepard si portò una mano a coprirsi il viso in un gesto di estrema frustrazione.
“Oh, andiamo… si tratta solo di indossare un paio di tacchi e sorseggiare champagne”, la spronò Kasumi.
“E’ proprio questo che mi preoccupa…”
“Andrai benissimo, ne sono sicura”.
Shepard le rivolse un’occhiata scettica mentre lei le porgeva una valigetta di modeste dimensioni. “Qui c’è tutto quello di cui avrai bisogno. Ho anche preparato alcuni argomenti di conversazione, nel caso in cui dovessi restare a corto di idee”.
“Bene”, sbuffò Shepard. Dopodiché si lasciarono e si diedero appuntamento sul ponte di comando per quando la Normandy sarebbe attraccata finalmente su Bekenstein.
 
 
 
“Dannazione”, mormorò Shepard, dopo l’ennesimo tentativo di infilarsi quel vestito troppo stretto e troppo corto che sembrava la ladra avesse scelto per dispetto. Si trovava già nella camera d’albergo che Kasumi aveva prenotato per lei, una stanza al cinquantesimo piano di un edificio a dir poco futuristico che si affacciava sulla città brulicante di persone, astroauto e luci colorate. Passare da una nave militare a una situazione del genere era piuttosto strano e lei non si sentiva affatto a suo agio. Si guardò allo specchio, storcendo il naso, e iniziò a legare i capelli in uno chignon alla meno peggio.
“Shepard… andiamo, se non vuoi dare nell’occhio devi almeno sbarazzarti di quelle cicatrici e di quell’aria da cane bastonato!”, esclamò Kasumi uscendo dalla porta del bagno. “Vieni, ci penso io”, le disse, avvicinandosi minacciosamente con del fondotinta in mano.
Shepard la guardò in cagnesco, strizzando gli occhi come se si stesse preparando a ricevere un pugno in faccia. Kasumi si fermò a guardarla sorridendo mentre incrociava le braccia e aspettava di ricevere collaborazione. “Se preferisci possiamo piazzare una ventina di cariche esplosive e occuparcene alla vecchia maniera”.
“Affare fatto!”, esclamò Shepard con gli occhi che brillavano.
Kasumi sbuffò, scuotendo lievemente il capo. “Avanti… fammiti sistemare, Comandante. Siamo già in ritardo e quella maledetta statua è arrivata prima di noi…”
“Una statua?”
“Il tuo regalo per Hock. Un gigantesco Saren in marmo bianco. Non chiedermi come l’ho avuta”.
“Mi prendi in giro?”
“Affatto. E, per la cronaca… non perderla di vista, ci ho nascosto dentro la tua armatura”.
Shepard sfoderò un sorriso a trentadue denti mentre Kasumi tentava di ricoprire le cicatrici con abbondanti strati di trucco.
“Mi auguro che non ci sarà bisogno di usarla…”
“E’ una brutta cosa che io mi auguri il contrario?”
“Non ti rispondo nemmeno”, sorrise lei, continuando imperterrita nel suo lavoro.
 
Una decina di minuti dopo, Shepard comunicò a Kasumi di essere finalmente pronta, mentre finiva di assicurare saldamente la Predator alla coscia destra. “Qualche problema se la porto?”
“No, tienila pure. Non dovrebbero farti storie finchè la terrai nascosta”.
“Perfetto”.
“Vogliamo andare?”
“Sono pronta”, rispose lei, tirando nevroticamente l’orlo del vestito verso il basso.
“Rilassati Shep, stai benissimo. Dovresti indossare più spesso questo genere di cose”, sorrise Kasumi, richiudendosi la porta alle spalle.
“Ah, si? E quando?”
“Beh, in licenza magari. Non ti mancano quelle piccole cose di una vita normale? Che so, andare fuori a cena, decidere di passare l’intera giornata a letto a mangiare gelato davanti a un olofilm…?”
“Non ce l’ho mai avuta una vita normale, io… e quella che ho non mi dispiace”, sorrise Shepard, chiamando l’ascensore. “Ma devo ammettere che ogni tanto mi chiedo cosa ne sarebbe stato di me se non fossi entrata nell’Alleanza”.
“In un modo o nell’altro saresti arrivata qui… non riesco a immaginarti in nessun’altra veste, Shepard. Hai un grande potere sugli altri, anche se forse non te ne accorgi. Nessun altro avrebbe potuto guidare una missione come quella per cui ci stiamo preparando”.
Shepard sorrise timidamente, mentre l’ascensore continuava la sua discesa verso il basso. “Non è sempre un vantaggio”.
“Beh, fai in modo che lo sia”, ammiccò Kasumi.
Il taxi le aspettava già sotto, al primo piano dell’Hotel, e quando le due donne diedero istruzioni al tassista su dove andare, quello se lo dovette far ripetere tre volte prima di decidersi a mettere il veicolo in moto. “Siete sicure, signore?”, aveva balbettato con la fronte sudata. Kasumi l’aveva rassicurato con un ampio sorriso ed erano partite.
 
 
 
La tenuta di Hock superava ogni aspettativa. Parlare di lusso sarebbe stato riduttivo di fronte ad un simile capolavoro di architettura e Hock stesso ne andava visibilmente fiero, muovendosi con un’andatura spavalda e sicura di sé, quasi fosse stato il padrone dell’intero Bekenstein. Aveva salutato Shepard freddamente, senza neppure sprecarsi a ringraziarla per la maestosa statua che, a quanto pare, era un omaggio dovuto, più che gradito. “Faccia come se fosse a casa sua”, le aveva detto con uno strano accento, e Shepard aveva sentito Kasumi ridacchiare nell’auricolare.
Una volta dentro iniziò a girarsi intorno, destreggiandosi fra camerieri impettiti che insistevano affinchè prendesse da bere e da mangiare, e ospiti che avevano apparentemente una voglia matta di chiacchierare con una sconosciuta. Chissà come, si ritrovò persino a discutere animatamente di economia e politica con una coppia di altezzose Asari, addentando un’insipida tartina al caviale, mentre nell’altra mano reggeva un bicchiere colmo di champagne.
 “Shep, dobbiamo trovare il caveau”, le ricordò Kasumi dopo un’abbondante mezz’ora di chiacchierata, e a quel punto lei dovette congedarsi gentilmente e iniziare il primo giro d’ispezione. “Grazie Kasumi, mi hai salvata”, sussurrò allontanandosi.
“Non dire idiozie, ho sentito che ti stavi divertendo”, bisbigliò la ladra maliziosamente.
“Si, come no”, rispose Shepard coprendosi la bocca con una mano, mentre un Umano sulla sessantina le strizzava l’occhio qualche metro più in là. “Ti prego, facciamola finita. Ne ho abbastanza di questa feccia”, fu l’ultima lamentela prima di riprendere il giro.
Trovare l’entrata del caveau non fu difficile e neanche troppo sospetto. Si trovava sotto una stupenda cascata di cristalli che ostentavano ricchezza da ogni sfaccettatura, come d’altronde ogni angolo di quella tenuta. Una volta giunta davanti all’entrata, Kasumi si materializzò dal nulla, facendola sussultare. “Ok, adesso abbiamo solo bisogno di un’impronta vocale, frammenti di DNA, una password, e un modo per abbattere le barriere cinetiche”, disse sorridendo.
“Solo?”.
 
 
Un’ora dopo, a dispetto di ogni aspettativa, Shepard e Kasumi si ritrovarono all’interno del caveau, equipaggiate di tutto punto.
“Vedi, te l’avevo detto… ci voleva solo un po’ di pazienza”, sorrise la ladra, iniziando a farsi strada fra reperti archeologici e opere d’arte.
“Sì, e intanto si è fatta notte. Dai, cerchiamo questa greybox e andiamo via prima che se ne accorgano”, rispose Shepard, incuriosita dalla gigantesca testa della Statua della Libertà che troneggiava alla fine della sala. “Si trovava sulla Terra questa, vero?”
“Già… Peccato sia troppo ingombrante da portare via, altrimenti ci avrei fatto così tanti soldi da comprare l’intera Normandy e tutto il suo equipaggio”.
“Potresti metterti in affari con Jack, anche a lei è venuta la malsana idea di iniziare a fare la piratessa dello spazio… con la mia nave”.
Kasumi ridacchiò, avvicinandosi con aria circospetta a una delle numerose teche di vetro rinforzato ai margini dell’enorme sala.
“Ci siamo. Eccola”, disse, trattenendo il respiro. Poggiò le mani sulla teca, come per accarezzarla. “Una cosa così piccola può contenere tutti i ricordi di un individuo…”, sussurrò, mentre Shepard la raggiungeva.
“Keiji era più di un semplice socio in affari per te, vero?”, si azzardò a domandarle.
Kasumi si voltò a risponderle, quando improvvisamente apparve un gigantesco ologramma di fronte a loro. Il ghigno di Donovan Hock illuminò la sala in penombra. Le due donne si scambiarono uno sguardo fugace, prima di impugnare le armi.
“Non ti disturbare, Miss Goto. E’ protetta”, disse Hock, mantenendo un tono di voce calmo e piatto. “Avevo la sensazione che ci fossi tu dietro tutto questo, ma non credevo avresti osato fino a questo punto”.
“Se mi conosci davvero, avresti dovuto aspettartelo”.
“Il contenuto della tua greybox mi serve, Miss Goto. E sai che sono più che disposto a ucciderti, se servirà”.
“Sì, le tue qualità sono sorprendenti”, continuò, “ma morirai esattamente come il tuo vecchio amico, se ancora ti ostini a metterti contro di me”.
Shepard diede un cenno d’intesa a Kasumi, e nello stesso momento sparò un colpo alla prima statua che le capitò sottomano. “Non hai idea delle persone che ti sei messo contro, Hock”, disse, roteando la pistola in mano con noncuranza.
“Maledette! Uccidetele!”, furono le ultime parole di Hock prima che una squadra d’assalto Eclipse facesse prontamente irruzione nel caveau dall’entrata posteriore, cogliendole di sorpresa.
“Prendi quello che devi prendere e filiamocela da qui il più presto possibile”, esclamò Shepard attraverso il comunicatore, mentre trovava copertura. “Joker, ci serve una navetta, adesso!”
I mercenari erano numerosi e ben equipaggiati. Sarebbero state solo loro due contro una dozzina di nemici, almeno all’inizio. Shepard cercò di non pensare al dolore pulsante della ferita al fianco che minacciava di riaprirsi da un momento all’altro e cominciò a farsi strada eliminando un mercenario dopo l’altro.
Prima di riuscire a trovare l’uscita per il cortile posteriore passò almeno un’ora, dove inaspettatamente dovettero affrontare anche dei mech pesanti ai quali non erano preparate.
“Quanto cavolo è grande questo posto?”, aveva chiesto alla ladra.
“E’ un trafficante d’armi, Shepard. Ha bisogno di spazio”, aveva risposto Kasumi, indicandole l’uscita. “Ecco, ci siamo… ti copro le spalle”.
Una volta fuori, una scarica di proiettili rischiò di centrarle in pieno, sparata da un piccolo velivolo di fattura militare, pilotato da Hock in persona.
“Si mette male. Joker, non avvicinarti se prima non lo abbiamo tolto di mezzo”, urlò Shepard sopra il rumore assordante del vento, prima di estrarre il lanciamissili, mentre Kasumi teneva a bada la restante parte degli Eclipse.
“Un razzo, dannazione! Scudi a zero… coprimi!”, esclamò, schivando di striscio il colpo.
“Shepard, sono troppi… non resisteremo a lungo”.
“Continua a sparare!”, rispose lei lanciando un altro missile in direzione del velivolo. “Non funziona, continua a ricaricarsi gli scudi!”, constatò poco dopo.
“Ci penso io Shepard”.
“Kasumi, dove vai?”, urlò lei, sporgendosi appena dal riparo. La ladra era scomparsa, per riapparire un’istante dopo sulla balconata sopra di loro, pronta ad avventarsi sul mezzo di Hock a mani nude. Shepard trattenne il fiato, mentre la teneva d’occhio cercando di evitare il fuoco nemico. Se qualcuno gliel’avesse raccontato, lei non ci avrebbe mai creduto… Kasumi era riuscita a mettere KO le barriere cinetiche del mezzo senza farsi ammazzare, ritornando sulla terraferma con un balzo degno di una pantera.
“Potevi restarci secca!”, la rimproverò Shepard attraverso il comm., spazzando via l’ultimo paio di mercenari con una potente onda d’urto.
“So quello che faccio, Shep. Altrimenti non sarei nella tua squadra, ti pare?”, rispose lei ammiccando, mentre trovava nuovamente copertura.
Da lì in poi fu un gioco da ragazzi sbarazzarsi di Hock e i suoi mercenari. Joker le aspettava impaziente nei paraggi e ad un cenno di Shepard si fiondò a raccoglierle.
 
 
 
Una volta salite a bordo, entrambe si diressero spedite verso l’Osservatorio, ignorando chiunque incrociasse il loro cammino. Shepard si liberò di una parte dell’armatura per controllare brevemente la ferita e Kasumi prese a rigirarsi la greybox fra le mani, caduta improvvisamente in un inusuale silenzio. Shepard le si avvicinò, porgendole un dispositivo capace di mettere in funzione l’impianto. Si guardarono brevemente, trattenendo il fiato.
“Ho paura, Shep”, confessò la ladra con voce rotta.
“Tu lo amavi… non è così?”, si decise a chiederle lei, dopo una lunga pausa.
“Io lo amo. E questo e tutto ciò che mi rimane di lui”.
Shepard sentì un brivido correrle lungo la schiena e la guardò con compassione.
“Sai, forse ti sembrerà strano per una come me… abituata a fuggire, a nascondermi, a non avere un volto né un nome, ma sognavo di sposarlo un giorno”, sorrise, volgendosi a guardare attraverso il finestrone che rivelava un bellissimo tramonto. “Avremmo cambiato identità, ci saremmo trasferiti in una pacifica colonia ai margini della galassia… avremmo piantato insieme un albero di ciliegio in un angolo del giardino. Chissà, forse fra vent’anni, mi dicevo, convinta di avere tutto il tempo del mondo… Ci piaceva il rischio, l’ebbrezza di mettere a segno un colpo impossibile, ma col tempo parlavamo sempre più spesso di iniziare a fare cose normali, vivere come la gente comune… Non gli ho mai detto che conservavo questo desiderio nel mio cuore”.
“Io… non so davvero cosa dire…”. Shepard si strinse nelle spalle, avvicinandosi a lei lentamente.
“Non è necessario. So che puoi capirmi”.
Lei annuì, poggiando delicatamente una mano sulla sua spalla.
“Vuoi restare da sola?”, le domandò, porgendole il dispositivo.
“No. Resta, per favore”, rispose lei collegando la greybox.
 
Nei successivi minuti a venire, Shepard restò a guardarla mordendosi nervosamente le labbra, mentre Kasumi faceva i conti con quella scatola piena di ricordi, emozioni, sensazioni e immagini tanto reali nella sua mente, tanto invisibili all’esterno. La vide abbracciare il nulla di fronte a se, versando una lacrima troppo dolorosa da trattenere, la vide parlare… supplicare il fantasma di un uomo morto di restarle a fianco e lei non riuscì a non pensare a Thane. Anche lei avrebbe sofferto così? Anche lei avrebbe finito per nutrirsi dei ricordi, scavando giorno dopo giorno nel vuoto della propria anima?
“Scusami, Shep”, mormorò Kasumi asciugandosi le guance, mentre le riconsegnava il dispositivo. Shepard le fece cenno di non preoccuparsi e si sedette, pronta ad ascoltarla.
“Ha detto che queste informazioni potrebbero minare persino la sicurezza dell’Alleanza se finissero nelle mani sbagliate. Io stessa sarei in pericolo a conservarle. Non… non ho idea di cosa fare. Mi ha chiesto di disfarmene, ma non ci riesco… Questo è tutto ciò che ho di lui”, spiegò con voce incrinata. “Non posso distruggerla, Shepard…”
“Non c’è un modo di conservare i ricordi ed eliminare le informazioni scomode?”
“Purtroppo no…”
“Non ti chiederò di distruggerla, Kasumi. Se vuoi tenerla, sappi che dovrai imparare a vivere con le conseguenze, ma la scelta può spettare solo a te”.
“Tu che faresti al posto mio?”
Shepard sospirò, passandosi una mano fra i capelli scompigliati. “Non lo so…”
“Avresti la forza di disfarti dei ricordi che ti legano alla persona che hai amato, anche se fosse la cosa più giusta da fare?”
“A volte il confine tra giusto e sbagliato non è così netto… a volte è semplicemente il tempo ad indirizzarci verso la decisione migliore”.
Kasumi incrociò le gambe, poggiando i gomiti sulle ginocchia. “La terrò… per adesso, almeno. So che è solo un’illusione, ma anche solo poter rivedere il suo volto, non so…”
“Non devi giustificarti con me. Solo… fai attenzione. Se lui ti ha chiesto di distruggerla sono sicura che ha avuto le sue buone ragioni”.
“Lo so, Shep…”, mormorò Kasumi mentre Shepard era in procinto di alzarsi per lasciare la stanza. “Senti, so che potrà sembrarti una richiesta assurda, ma… non hai idea di quanto sia costosa quella suite che ho prenotato in Hotel ed è ancora tua fino a domani”, continuò, catturando la sua attenzione.
“Cosa stai tentando di dirmi?”, rispose lei, sollevando un sopracciglio.
“Ti va di uscire, stasera? Siamo in libera uscita fino a domattina, no? E poi non hai visto il ristorante al primo piano… si mangia da dio!”
Shepard non riuscì a dire di no a quel sorriso così sincero e alla fine si fece convincere persino ad uscire col vestito elegante che Kasumi le aveva regalato, sicura che una serata tranquilla in compagnia di un’amica non le avrebbe fatto di certo male.
 
 
 
 
Kasumi non aveva avuto tutti i torti a consigliarle quel posto. Avevano mangiato divinamente, a dispetto dell’iniziale pregiudizio di Shepard nei confronti della “cucina molecolare”. Poi si erano dirette al bar, ordinando una coppia di drink estremamente costosi ed estremamente alcolici, serviti da un barista che sembrava uscito da una rivista di moda.
“Non posso credere che mentre noi viaggiamo a bordo di una nave militare per salvare intere colonie umane, in posti come questo l’unica preoccupazione della gente è scegliere il colore della propria cravatta in abbinamento al vestito”, si lamentò Shepard, sorseggiando lentamente il cocktail.
“Oh, ma noi ci divertiamo molto di più”, sorrise Kasumi. “Quanti di loro possono dire di far parte di una squadra composta dagli alieni più pericolosi dell’intera Galassia? E soprattutto, quanti di loro possono dire di essere il loro Comandante?”
“Stai cercando di lusingarmi, Kasumi?”
“Per niente, è solo la verità. E poi so che il tuo cuore appartiene già a qualcun altro”, ammiccò con aria divertita. “A proposito, non mi hai fatto sapere se hai gradito il mio regalo di compleanno”.
Shepard rischiò seriamente di strozzarsi, prima di riuscire a formulare una frase di senso compiuto.
“Da quando la mia vita privata è diventata di dominio pubblico?”, domandò con aria fintamente seccata.
 “E chi ha parlato di dominio pubblico? La mia era solo una domanda innocente”.
Shepard sorrise, scuotendo il capo con rassegnazione.
“Vado un attimo alla toilette, faccio subito”, disse poi Kasumi, lanciando una manciata di crediti sul tavolo. Shepard restò a fissarli, gustando lentamente la bevanda, poi capì. “Dannatissima ladra da quattro soldi…”, sussurrò tra sé e sé. “Scommetto che si è dileguata per uno dei suoi furti”.
Si guardò intorno, sentendosi improvvisamente fuori posto. Non c’era nessuno, in quell’ampia sala, che non si stesse divertendo in compagnia di qualcuno. Le riusciva incredibile credere che fuori imperversavano le guerre, mentre qui era tutto così pacifico e tutti vivevano in una lussureggiante bolla d’oro. Scese dallo sgabello, avvisando il barista che chiunque avesse cercato Alison Gunn l’avrebbe trovata in giardino, e si avviò fuori col suo bicchiere in mano.
 
L’aria era fresca, profumava deliziosamente di agrumi, e una leggera brezza faceva ondeggiare le lunghe palme che si innalzavano dal prato curato fino a toccare le stelle. Tutt’intorno piccoli arbusti potati con cura costeggiavano un percorso scavato nella ghiaia fine, come un fiume che si faceva strada fra le montagne. Sulla sinistra, invece, un piccolo ruscello artificiale s’insinuava negli spazi liberi, ospitando delle bellissime carpe koi che facevano capolino fra le ninfee. L’unica fonte luminosa era quella proveniente da piccole lampade a terreno che sbucavano dai cespugli, facendo risaltare le sfumature delicate dei fiori che sembravano usciti direttamente da un dipinto impressionista. Non c’era mai stata, ma quel giardino le ricordava proprio quel Giappone visto solo in fotografia… ecco perché Kasumi aveva scelto quel posto. Continuò a camminare lungo il sentiero finchè non arrivò su un piccolo ponte di legno, e a quel punto decise di sfilarsi finalmente i tacchi e godere dello stupendo panorama che si apriva di fronte a lei. Il cielo… poche volte le era capitato di vederlo così scuro, così terso e limpido, se non nelle profondità dello spazio. Appoggiò un braccio alla ringhiera e con l’altro continuò a bere il suo drink, mentre gli occhi scrutavano a fondo le meraviglie che quell’orizzonte le stava regalando. Una folata di vento e si ritrovò addosso un bigliettino, uno di quelli pubblicitari, scritto in galattico standard. C’era una rosa blu e un numero di telefono. “Il lavoro ti stressa? Hai bisogno di una vacanza indimenticabile?”, recitava lo slogan. Shepard sorrise sbuffando, lasciandolo di nuovo in balia del vento. Pensare ad una vacanza sarebbe stato assurdo, quando la sua principale preoccupazione era se fossero sopravvissuti alla missione. Rabbrividì, dopo l’ennesima folata di vento, e nello stesso momento sentì qualcosa di freddo e pesante coprire con delicatezza  le sue spalle.
“Alison Gunn?”
Lei si voltò con un sorriso imbarazzato sulle labbra “Ehi… che ci fai qui?”
Thane si appoggiò alla ringhiera, osservando le luci tremolanti della città che coloravano l’orizzonte.
“Kasumi mi ha detto che volevi parlarmi”.
“Kas… cosa? No, non è vero”.
“Suppongo si sia sbagliata, allora”.
“Oh, no… non credo proprio. E’ sparita giusto poco fa, in circostanze sospette”, sorrise lei, giocando con una ciocca di capelli.
Thane rise brevemente, prima di voltarsi a guardarla. “Ti lascio da sola se preferisci”.
Shepard sospirò, sporgendo un piede fino a toccare con la punta delle dita l’acqua del ruscello. “E’ stupendo questo posto, non trovi?”, domandò, ignorando deliberatamente la sua offerta.
Thane annuì, sorridendo lievemente. Era la prima volta che la vedeva in un contesto diverso da quello militare e la trovava semplicemente bellissima. “Mi dispiace per stamattina”, le disse sinceramente.
“Per cosa? Solo perché non la pensiamo alla stessa maniera o non vogliamo le stesse cose? Non hai niente di cui dispiacerti”, rispose lei, ritirando il piede dall’acqua.
“Ho voluto che tu capissi le mie ragioni senza essere stato onesto fino in fondo, e questo non mi fa onore”.
Shepard diede l’ultimo sorso al suo cocktail, prima di poggiare il bicchiere di cristallo sul bordo della ringhiera. “Sono qui, se vuoi parlarne”.
Lui raccolse le sue scarpe da terra e con un rapido movimento la prese in braccio, portandola sulla panchina più vicina. Shepard rise di gusto per quel gesto inaspettato, reggendo saldamente la sua giacca sulle spalle.
“Vuoi ascoltare la mia storia, Siha?”, le domandò.
“Prima però toglimi una curiosità”, gli disse lei, una volta seduti. “Cosa vuol dire Siha?”
Lui sorrise, guardandola dolcemente. “Ci arriverò tra poco”, rispose, passando un braccio intorno alle sue spalle.
“Non ti ho mai parlato della mia vita, Shepard… e tu d’altra parte non mi hai mai forzato a farlo”.
“Credevo che l’avresti fatto al momento opportuno”.
“E ho apprezzato molto la tua pazienza”, rispose lui.
“Avevo una moglie, una volta. Si chiamava Irikah”, le disse, abbassando lo sguardo. Shepard annuì.
Il puntatore laser trema sul suo cranio, spezie nella brezza di primavera, nel mirino, occhi come tramonto”.
“Era lei?”, domandò Shepard alla fine di quel ricordo.
“Sì. Aveva visto il laser del mio fucile puntato sulla vittima e si era gettata tra me e l’obiettivo, senza pensarci due volte… Lei non mi aveva visto, ma io ricordo bene il suo sguardo”.
“Cosa successe poi?”
“Per un momento avevo creduto che si trattasse della dea Arashu in persona. Sentii che dovevo conoscerla. Lei… mi aveva risvegliato. In qualche modo riuscii a trovarla, poi a contattarla. Quando capì chi ero ne fu indignata, ma non mi respinse. Si sforzò di conoscermi, di capirmi… poi, col tempo, riuscì anche a perdonarmi ed infine ad amarmi. Lei mi mostrò una vita completamente diversa da quella che conoscevo”.
“Morì per colpa mia”, continuò. “Ero sempre fuori per lavoro, sicuro che lei e Kolyat non avrebbero corso rischi. Fino a quel giorno… Da quel momento affidai Kolyat alle cure dei suoi zii e io partii alla ricerca degli assassini di Irikah. Lei era morta al posto mio, e io non riuscii a perdonarmelo. Ero stato addestrato a uccidere con velocità e precisione, per arrecare meno sofferenza possibile alle mie vittime, ma quella volta… quella volta fu diverso. Non era l’assassino professionista ad uccidere”.
“Chi furono i responsabili?”
“Batarian. Pagarono l’Ombra per trovarmi e togliermi di mezzo, ma avevano paura di affrontarmi direttamente… così uccisero lei”.
“Mi dispiace. Non riesco a immaginare…”
“Dopo la sua morte sono sprofondato nuovamente nel torpore della battaglia. Era il mio corpo a muoversi, ad uccidere… avevo seppellito la mia anima, accettando il mio destino. Volevo tenere Kolyat lontano dalla mia vita, certo che sarebbe stato solo un bene per lui. Uccidere Nassana sarebbe stata l’ultima missione per me, ma qualcun altro la stava cercando e io dovevo essere più veloce di lei”, sorrise.
“Se non fossi stata lì per cercarti…?”
“Sì, probabilmente sarei morto. Ma ho incontrato un’altra Siha. Pochi sono i privilegiati che possono dire di averne incontrata almeno una nella vita”.
“Non mi hai ancora detto cosa significa…”
“Uno degli angeli guerrieri della dea Arashu. Una fiera combattente e tenace protettrice”.
Shepard sorrise, pensando al profondo significato che lui aveva appena attribuito alla sua persona. Non era certa che meritasse davvero quel titolo, ma in qualche modo, si sentì orgogliosa.
“Non vuoi che io passi quello che hai passato tu…”, disse poi, come riflettendo.
“Sei importante per me, più di quanto immagini. In così poco tempo hai cambiato la mia vita, dandomi l’opportunità di ricongiungermi con mio figlio, dandomi uno scopo per continuare a vivere… ma il mio destino è segnato e non voglio che lo sia anche il tuo”, rispose lui, accarezzandole una mano.
“Ho visto morire i miei genitori, Thane. Ero solo una ragazzina… Me li hanno uccisi davanti agli occhi, e insieme a loro tutte le persone che conoscevo su quella colonia. Per anni ho continuato a chiedermi ‘perché loro e non io?’, per anni mi sono chiesta per quale assurdo motivo era toccato a me. Ma non ho mai rimpianto ogni singolo momento passato insieme a loro… Come se non bastasse, è arrivato Akuze. Mi hanno dato una medaglia… e sai per cosa? Per essere rimasta l’unica sopravvissuta di tutta la mia squadra. Sono un militare, so cosa vuol dire fare i conti con la morte. Dannazione, stiamo per lanciarci in una missione suicida e tu vuoi privarti di questo? Dell’unica cosa che davvero…”
Thane la zittì con un bacio sulle labbra, prendendole il viso fra le mani. “No”, le disse, guardandola negli occhi, “ma, in tutta onestà, non so come gestire questa situazione…”
“Non devi per forza capirlo da solo”, rispose lei, allungando una mano per accarezzargli una guancia. “E’ inaspettato anche per me, tanto quanto lo è per te…”
Lui chiuse gli occhi, premendo il suo viso contro il palmo della sua mano. “Vorrei poterti dare di più del tempo che mi rimane”.
Shepard si sporse verso di lui e lo abbracciò, forzandosi a non pensare al terribile significato di quelle parole. La giacca scivolò dalla sua schiena, ricadendo dolcemente sulla panchina e lei sentì il tocco delle sue dita fredde sulla pelle, rabbrividendo. “Sei stato solo troppo a lungo. Anche tu meriti di essere felice”, gli disse piano.
Una stella cadente, di straordinaria luminosità, squarciò il cielo in due, in quel preciso istante. Entrambi si voltarono a guardarla esplodere in quel cielo nero e sorrisero.
“Noi Umani esprimiamo un desiderio in queste circostanze”.
“Davvero?”
“Magari funziona anche con i Drell”, ridacchiò lei, chiudendo gli occhi per un istante. “Fatto!”
“Cos’hai desiderato, Siha?”
“E’ un segreto. Se te lo dico non si avvera”.



 

Enormi difficoltà nella rilettura per via di quella dannatissima canzone, roba che ancora a distanza di settimane ascolto di continuo perchè boh, FEELS.
Sono sicura che state morendo dalla voglia di scoprire che desiderio ha espresso Ann.
E io ve lo dico, sotto suggerimento di Johnee: pesci immortali. Perchè sono l'unica cosa che conta davvero, in tutto Mass Effect.
(♥‿♥)


 
   
 
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