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Autore: I Fiori del Male    13/09/2013    4 recensioni
Peeta, Katniss e una tela bianca, in attesa di qualcuno che le dia vita.
Genere: Fluff, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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THE HUNGER GAMES
I colori del nostro amore
 
Notte fonda. Saranno almeno le tre, ma i miei incubi non si curano affatto dell’orario, quando mi scuotono a tal punto da strapparmi violentemente al sonno.

Sono passati già cinque anni, da quando siamo tornati qui, nel distretto dodici, e abbiamo deciso di condividere questa casa, per non sentirci soli nell’affrontare i nostri fantasmi, così tenaci da sembrare reali. Dormiamo abbracciati ogni notte, io e Peeta, come facevamo sul treno durante il tour della vittoria e prima dell’edizione della memoria, anche se non ci siamo promessi niente. Qualche volta mi chiedo se non cercherà di strangolarmi nel sonno, ma finora non è mai accaduto, e non ho intenzione di lasciarlo di nuovo solo. Ha sofferto abbastanza per causa mia.

Eppure quando mi volto verso il lato del letto dove dovrebbe esserci lui, lo trovo vuoto e freddo. Attraverso la porta vedo uno spiraglio di luce provenire dal piano di sotto, e capisco che si è alzato, forse in preda ad uno dei suoi attacchi, e se n’è andato per non farmi del male. Stringo le lenzuola tra le dita fino a sentirle doloranti, perché quando penso alle attenzioni che mi rivolge mi viene inevitabilmente da piangere, per gratitudine, per tristezza, per il senso di colpa che provo per non avergli mai riservato lo stesso trattamento.

Mi alzo. Non sento alcun rumore, perciò mi chiedo cosa stia facendo, che possa essere tanto silenzioso. Scendo al piano di sotto e vedo che la luce proviene dal salotto.
Mi fermo sulla soglia, attenta a non farmi sentire, e mi siedo appoggiando la schiena allo stipite della porta. Lui mi volta le spalle, tutto concentrato su una tela, ancora immacolata. Nella mano destra stringe un pennello, con la sinistra tiene la tavolozza.  Si dondola avanti e indietro, osservando la superficie bianca e ruvida sorretta dal cavalletto di legno chiaro, come non sapesse cosa dipingere, pur avendone un estremo bisogno.  Vorrei poterlo aiutare,  ma non sono mai stata brava in queste cose, e con la presenza di un artista come lui non mi sono mai permessa di provare, ho sempre pensato che avrei rovinato tutto.

Ad un tratto Peeta si blocca nel suo continuo dondolio, e capisco che in qualche modo si è accorto di me. Si gira, e mi guarda. Per un attimo penso di aver fatto male a coglierlo così di sorpresa, che forse si sentirà minacciato, ma poi si rilassa, forse perché sto seduta. – Ti sei svegliata. Incubi? –

Annuisco. – E tu? –

- Lo stesso. Non so perché, ma ho sentito il bisogno di dipingere. –

- Quando eravamo sul treno del tour della vittoria mi hai detto che dipingere i tuoi incubi ti aiuta a sopportarli, anche se sai che non se ne andranno mai – gli rammento. Un altro ricordo rimesso al suo posto nel puzzle scomposto che è la sua mente. Annuisce, con l’aria di chi ha appena capito una cosa che gli tormentava il cervello. – Grazie –

Per un attimo restiamo in silenzio a guardarci, poi Peeta si avvicina, tendendomi una mano. La accetto, e lui mi tira su. – Ti va di aiutarmi con una cosa? – chiede.

Annuisco. – Che devo fare? –

- Solo prestarmi le tue mani – risponde. Recupera il pennello e me lo tende, io lo afferro incerta, osservandolo come fosse uno strano animale. – Non so dipingere, Peeta, sei tu l’artista. -  lui sbuffa e sorride, e per un attimo il vecchio Peeta si fa strada tra le ceneri. – Lo so. Ricordo che Cinna dovette disegnare tutti i vestiti per te, per darti un talento. – Sorrido a quel ricordo, anche se è un sorriso reso affaticato e malinconico dal ricordo di Cinna. Lui pare accorgersene, perché dice – Manca anche a me. Era straordinario. -  

Ecco, c’è una lacrima che proprio non vuole saperne di starsene buona e mi scende lungo una guancia. Peeta la raccoglie con l’indice, regalandomi una carezza delicata che mi scuote dentro.

Mi prende per mano e mi conduce davanti alla tela vuota. Poi si pone alle mie spalle, tenendo la mia mano col pennello stretta nella sua. Poggia la testa nell’incavo del mio collo, respirando sulla mia pelle.  Lo sento sorridere contro di essa. – Ti spiace? – chiede. Scuoto la testa, perché non credo di essere in grado di emettere alcun suono in questo momento, perché sono  sopraffatta da emozioni che non credevo avrei provato ancora, perché sono sconfitta dal ricordo del vero Peeta, del ragazzo del pane che ho conosciuto, che adesso sembra così reale, stretto a me.

Peeta muove la mia mano ad intingere il pennello nella tavolozza, che reggo con la sinistra. Sorrido leggermente quando vedo che ha scelto il verde. Mi chiedo se si ricordi che è il mio colore preferito, ma non domando nulla. C’è qualcosa di magico nel silenzio che si è creato, ricco di aspettative, che non voglio rovinare parlando.

Una pennellata dietro l’altra, leggere come battiti d’ali, vedo crearsi davanti a me un bosco.  Man mano Peeta usa le mie mani per stendere le mille sfumature di verde delle chiome, i cento tocchi di marrone dei tronchi, i grigi più chiari e più scuri delle rocce,  i colori rossicci delle bacche. La sua meravigliosa abilità si spande attraverso le mie dita, e questo mi dona un’emozione unica. Osservo il pennello, guidato dai suoi sapienti gesti, stendere strisce arancio nel cielo, infiammandolo di luce del tramonto, e sorrido.  Non mi rendo pienamente conto di cosa stiamo dipingendo finché Peeta non mi dice che ha finito e si stacca da me, lasciandomi con una scomoda sensazione di vuoto dentro.

Osservo il quadro, scintillante alla luce che invade il salotto, per via del fatto che la tempera è ancora fresca. È una piccola radura, circondata da un bosco che mi risulta incredibilmente familiare.  Quando il mio sguardo si sposta sulla destra, il cuore perde un battito e penso di morire lì davanti, perché Peeta ha dipinto il ritrovo mio e di Gale con una precisione scioccante. Ogni più piccola roccia è come la ricordo. Lo stomaco si stringe, quando penso che è una vita che non torno laggiù con quello che una volta era il mio migliore amico, e il compagno di caccia più abile in cui si potesse sperare.  Capisco che Peeta ha voluto farmi un regalo, che sa quanto mi manchi la mia vecchia vita, che non ha bisogno di essere geloso di Gale perché il modo in cui mi manca non ha niente a che vedere con l’amore, piuttosto con la sicurezza, con l’idea di sapere qual è il posto di ogni cosa nel mio piccolo mondo.

Quando mi riprendo dal primo shock, ne arriva subito un altro. Tra le rocce, si staglia nitido un piccolo cespuglio di fiori violetti. Prim.

Accanto alle primule Peeta ha ritratto piccoli fiorellini gialli la cui vista mi fa cedere le ginocchia definitivamente. Rue.

Appollaiata su un ramo, dal lato opposto, c’è la macchia nera di una ghiandaia imitatrice. In quel contesto non può che ricordarmi mio padre, e le lacrime ormai hanno invaso copiose le mie guance, ma me le asciugo per poter vedere meglio, perché sono sicura che non sia ancora finita.

Al centro della radura mi aspettano dei denti di leone, ma tra essi riesco a scorgere, anche se a malapena, una scintillante macchia bianca e tonda. Una perla. La perla che Peeta stesso mi regalò nell’arena. Pensare alla sua preziosità e alla sua perfezione, mi riporta a Cinna, mentre il luogo in cui è stata trovata, dentro un’ostrica ripescata dal mare, non può che farmi ricordare Finnick. Per fortuna, la tempera in quel punto si è asciugata subito, perché istintivamente tendo le dita a sfiorare il disegno in quel punto, come aspettandomi di sentire la stessa lucidità setosa di quella vera.

Piango, e non riesco a smettere. Sono ricordi dolorosi, eppure c’è un fondo di felicità in quello che provo, perché è come se Peeta avesse voluto riportarli tutti da me.

Cerco di placare i singhiozzi, e mi volto verso di lui che ancora mi osserva in silenzio, in piedi alle mie spalle.

- Grazie – riesco a mormorare. Peeta sorride, ma è un sorriso mesto il suo, sembra quasi un tentativo di chiedermi scusa. Decido che non deve più sentirsi in colpa per cose che non dipendono da lui, così mi alzo in piedi e lo stringo forte a me. – Grazie davvero, Peeta ... –

Lui per un attimo sussulta. È vero, non siamo più abituati a questo tipo di contatti. Ci concediamo di abbracciarci solo la notte, quando abbiamo bisogno di proteggerci dai nostri fantasmi, quando il sonno ci ottenebra i sensi e non abbiamo abbastanza forze per chiederci se sia giusto o sbagliato essere felici, dimenticando per un attimo il mondo attorno e le persone che avrebbero meritato di vivere come  noi. Però sono stanca, stanca di mantenere le distanze con lui. Ho sempre rivoluto indietro il vecchio Peeta, e stasera sembra essere tornato, gentile e comprensivo come solo lui sapeva essere con me, perché ogni suo gesto era misurato per dimostrarmi amore. 

Mi sciolgo in singhiozzi sul suo petto, che è ampio e solido come lo ricordavo. Non posso farne a meno, è l’unico posto in cui posso concedermi di essere debole, e lui non ha più esitazioni e mi stringe forte, tuffando il viso tra i miei capelli, inspirando a fondo come ha sempre fatto. 

Quando i singhiozzi sembrano essersi calmati, alzo la testa verso di lui, incontrando quei meravigliosi occhi azzurri che mi fissano. Ha le labbra un po’ dischiuse, il respiro corto mentre mi osserva, e so che lo sto guardando anch’io nello stesso modo. Voglio baciarlo, e non voglio sprecare tempo a chiedermi se sia giusto o sbagliato, così poso le mie labbra sulle sue prima che il mio cervello possa dirmi di non farlo, e le trovo morbide e calde sulle mie, mentre il solito, familiare odore di pane mi avvolge. Mi sento a casa. Lo stringo più forte, quasi avessi paura di vederlo scappare, ma lui risponde al bacio, intrecciando le mani ai miei capelli.

Sembrano passare secoli, mentre ci baciamo, godendo di quella sensazione di familiarità che ci avvolge, mentre torniamo indietro nel tempo. E anche se quelli in cui stiamo tornando non sono tempi più felici di quelli in cui viviamo ora, non ci spaventiamo, perché siamo consapevoli di prenderne solo il meglio:  la sincerità, la dolcezza, l’amicizia, il conforto, la comprensione, la speranza, i colori del nostro amore. Tutte cose che sembravano essere perdute per sempre, e che invece erano solo nascoste lì, dentro di noi, sotto le ceneri, sotto la devastazione e la guerra e la sofferenza, in paziente attesa di essere riportate alla luce.

 
   
 
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