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Autore: Himesama    20/03/2008    2 recensioni
Per dirla coi tropes: Crossover, alternate universe, self-insertion e nerd wish fulfillment, mischiati male e versati come capita senza la minima vergogna.
Buon divertimento.
Genere: Azione, Comico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Shoujo-ai
Note: Alternate Universe (AU), Cross-over, What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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L'odore familiare di pane e dolciumi appena sfornati era talmente forte da pregnare l'aria del salotto, sentiva già chiaramente la crema pasticciera, sintomo che suo padre aveva appena finito di sfornare le paste mattutine, quelle che preparava tutti i giorni. Era mercoledì, perché non c'era sentore di frutta nell'aria.

Finì di sistemarsi l'uniforme scolastica e attraversò il corridoio che, separato soltanto da un telo che arrivava fino a metà busto, portava direttamente sul negozio di famiglia.

Erano quasi le sette e mezza, la signora Kadowaki stava chiacchierando con suo padre mentre prendeva del melon-pan, e quella universitaria del primo anno stava facendo colazione con paste e cappuccino; aveva l'aria di una che era stata sveglia a studiare tutta notte e recuperava forze per un esame. O almeno ci provava.

“Oh, buongiorno Megu”, suo padre aveva l'aria cortese e allegra di chi si era svegliato circa sei ore prima di quanto concepisse, a un orario che nemmeno credeva esistesse, nonostante facesse quel lavoro.

“Ciao papà. Buongiorno signora Kadowaki”, Megu somigliava a una bambola, nella voce, nell'aspetto e nel portamento, una bambola straordinariamente bella e un po' inquietante se fissata a lungo. Nella sua uniforme invernale, era semplicemente la tipica ragazza da shojo manga nel fiore della gioventù.

Non poteva dare torto all'aria spaventosamente assonnata di suo padre, fuori era ancora quasi buio e quel poco di luce mattutina che iniziava ad illuminare la strada rendeva incredibilmente piacevole l'idea di infilarsi, di nuovo, sotto le coperte. Ciònonostante, la attendeva un'intera giornata di attività.

“Kirino è già uscita, aveva impegni mattutini col club di kendo”, suo padre gli mostrò quindi una cartolina, “Guarda, è arrivata stamattina”.

Megu la prese, era una cartolina di sua zia Kaguya, era un po' di tempo che non ne mandava; a quanto pare era stata una rara occasione in cui era uscita di casa per andare da qualche parte, ma aveva un modo di raccontare le cose per cui era impossibile indicare il luogo esatto dove fosse andata..

“Non sarebbe più produttivo se si mettesse a lavorare anche lei?”.

“Ah, non parlare così di tua zia”, suo padre sorrise e riprese la cartolina, “Vive in una situazione complicata, dovremmo cercare di sostenerla”.

“Quella sotto è la cartolina di chi, allora?”.

“Ah, no, niente, queste sono bollette”, sospirò, “Difficile la vita dei piccoli artigiani”.

“Allora io vado. Chiedi a mamma se tornerà per capodanno”.

“Lo farò, lo farò”, e la salutò mentre usciva.

“Ha una bellissima famiglia, signor Inaba”.

“Grazie, signora Kadowaki”.

Il negozio tornò temporaneamente vuoto; ogni volta che vedeva quel vuoto si convinceva che avevano sbagliato a chiamarlo “L'Emporio Balsamico” in un lungo momento di totale assenza di idee e creatività, durato circa due settimane. Nonostante le vetrine lasciassero chiaramente intendere che si trattava di una pasticceria, talvolta entrava gente, nella fattispecie studentesse delle superiori, a chiedere se vendevano aceto balsamico. Sembravano particolarmente deluse dalla risposta.

Dei passi affrettati anticiparono l'arrivo di una giovane dai capelli viola, tenuti in una lunga e in un certo modo virile coda di cavallo, che si stava mettendo un grembiule con l'aria di chi si è alzata troppo tardi da letto. “Scusa!”, fu la prima cosa che disse, “Mi ero persa a guardare l'oroscopo, dicevano che il capricorno avrà un periodo molto sfortunato che durerà fino alla fine dell'anno!”.

“Il capricorno?”

“E' il segno di Megu! Non vorrei che le succedesse qualcosa e non stesse bene per capodanno”.

“Ah, non preoccuparti. E' piena di risorse quella ragazza”, le sorrise, e sottovoce aggiunse: “Non che sia molto fortunata comunque”.

“Kirino è uscita presto per via del kendo?”

“Sì, dice che in questo periodo il suo club sta (finalmente) prendendo il volo; se continua così, cercherà di puntare alle nazionali a tutti i costi”.

“Tua figlia andrà ai campionati nazionali?!”.

L'espressione di lui era difficile da interpretare, sopratutto quel suo sguardo con gli occhi lievemente oscurati, “... Così lei crede”.

“Vuoi che ti dia il cambio? Avrai bisogno di riposare un attimo”.

“Sì, grazie, sei molto gentile”.


Tornò in camera, si sedette alla scrivania, e fece crollare la testa sul legno di mogano per nessun motivo se non che era così stanco che si sarebbe potuto addormentare istantaneamente nonostante la botta.

“Non sono fatto per svegliarmi così presto...”, con una pigrizia che tendeva a non ostentare in pubblico, fece strisciare la cartolina di Kaguya in mezzo alle altre che ogni tanto mandava a casa. Un po' le mancava, la vedeva poco dopotutto e voleva passare con lei almeno le feste importanti, con tutta la famiglia.

Tutta la famiglia, come nella foto che aveva adesso davanti agli occhi assonnati, quella foto con sua moglie e le sue sei figlie, che avevano scattato davanti ai giardini imperiali di Tokyo l'anno scorso. Non male, come soddisfazione.

Fece scivolare da sotto il braccio addormentato quella lettera che aveva spacciato per una bolletta. Aprì la busta, dentro c'era una lettera e un'altra busta, sigillata; la lettera era intestata a lui.



Ergegio sig. Mokuren



In quanto nostro affezionato cliente, Le inviamo il catalogo invernale 2007/2008, contenente gli articoli speciali in numero limitato della nostra nuova collezione.

Sperando di farLe cosa gradita, alleghiamo il recapito della nostra nuova sede, aperta di recente vicino a casa Sua. Attendiamo impazienti di avere una sua prossima visita.



Seguiva un indirizzo, che supponeva essere inesistente, e un numero di telefono, che supponeva essere tutt'altro che inesistente. Inoltre, questa misteriosa ditta era senza nome, e la lettera non era firmata.

Riconobbe tuttavia il sigillo sulla seconda busta.

“Sono stato uno sciocco”, sbadigliò, “Dovevo aspettarmelo che non me ne sarei rimasto a lungo con le mani in mano”.

Ruppe il sigillo, era più duro del previsto, o forse non riusciva a metterci la forza che serviva. Dentro la busta c'era un altro foglio, piegato più volte.

Non era piccolo.

Lentamente, come se temesse di romperlo, iniziò a dispiegarlo.

“Che brutte facce”.

Si ritrovò in un angolo ad ansimare, con il foglio in una mano, la tenda nell'altra e un'espressione che avrebbe reso Becky orgogliosa. O forse no.

“... Che c'é?”.

“NON COMPARIRMI ALLE SPALLE IN QUEL MODO!”, puntò un dito contro la prima figlia, seduta sul bordo della scrivania, “E da quanto sei lì, comunque?”.

“Da quando hai iniziato a fare il sentimentale. Diventi sempre così quando sei molto stanco”, fece un sorriso così sornione da meritare la sua foto al fianco della definizione nel vocabolario, scostandosi una ciocca di capelli bianchissimi dal volto, “Fai parte di un'organizzazione segreta di cacciatori di taglie”. Non era una domanda, era un'affermazione.

“Si era sciolta”, disse lui rialzandosi e tentando di sistemare i capelli castani, ma fallendo miseramente nel regolare l'ahoge sulle frequenze che gli servivano, “Aveva esaurito la sua ragione sociale”.

“Non sembra proprio”.

Sospirò e si rimise a sedere, dispiegando per bene l'elenco di ricercati, con tanto di foto allegata e breve descrizione. Era inclusa la taglia, e alcune di esse erano ridicole. Ridicolmente alte.

“Potremmo fare un po' di soldi e andare a vivere in un posto più adatto alle mie esigenze”, lei si era appollaiata come se fosse seduta su un trono d'oro imbottito con la seta più pura, con un lunghissimo tappeto rosso incluso che poneva la giusta distanza tra lei e il resto del mondo; era comunque alta come il suo torace, non di più, quindi la scrivania era un luogo a sua misura, a conti fatti.

“Parli come se questi soldi fossero facili da fare”.

“Perché non ti fai aiutare dalla tua amante?”.

“Non è la mia amante”, sospirò, “E non dirlo a potenziale portata d'orecchio delle tue sorelle, sono capaci di crederci; poi chi le sente più quelle...”.

Lei si alzò in piedi, il suo vestitino da gothloli d'assalto era bellissimo da vedere, e Mokuren non poteva non adorare quella figura, anche quando lei lo guardava con quell'aria di superiorità intrinseca, “Quanto starai via?”.

“Non ho ancora deciso se andare o meno”.

“Prometto che pregheremo per te ogni giorno”.

“... Non darmi per morto prima ancora che io abbia deciso se-”, sospirò, era fondamentalmente inutile discutere con lei, “Suiginto”.

“Oh?”.

“Non dire niente alle altre”.

“A Yuka o alle mie sorelle?”.

“A nessuno. Penserò io a spiegarlo a Yuka. Sempre che decida di prendere parte a questa follia”.

Suiginto prese il foglio in mano, esaminandolo dall'alto al basso come l'ultimo dei servi, “Mh, assassino addestrato, confermato lolicon, potenzialmente bisessuale... Ricercato con l'accusa aggiunta di essere più convincente come donna che come uomo... Ehi, è come te”.

“NO!”.

“Caso sensibile al tempo, se raggiungerà la pubertà controllerà... Aha...”, non era sornione quel sorriso, era più un sorriso divertito, e sapendo come si divertiva quella donna, era incredibilmente inquietante, “Posso venire con te?”.

“No”.

“Lo dirò alle altre”.

Lanciò un'occhiata al fodero di metallo appoggiato al muro, vicino ai futon. Poi si convinse che in fondo l'aveva sopportata dire di molto, molto peggio, e sorridere ancora più sfacciatamente di così.

“Fammi annusare l'aria, avere un'idea di che vento tira, di quanto saranno alte le onde; se lo scafo reggerà, potrei anche decidere di prendere qualche passeggero, oltre alla mia partner”.

“Non voglio andare in barca. Voglio andare a fare del male a della gente che neanche conosco e farmi pagare. E' il sogno della mia vita”.

“... Non ne dubito, Suiginto”, negli occhi di Mokuren c'era tutta la convinzione che la situazione non poteva fare altro che precipitare sottoterra e perforare la crosta terrestre con la sua trivella, “Non ne dubito”.




Il luogo di appuntamento era uno di quegli stabili progettati da un architetto disgustosamente conformista, del genere che piantava palazzi quadrati tutti uguali uno dietro l'altro come luride erbacce di cemento grigiastro e triste, impossibili da strappare in seguito. Era un palazzo di otto piani, ognuno dei quali aveva dodici stanze distribuite in tre appartamenti, in affitto.

Principalmente vi erano persone che avevano bisogno di una casa e non avevano abbastanza soldi per permettersi qualcosa di meglio, oppure piccole aziende che avevano bisogno di un buco dove mettere gli uffici, o che non avevano i fondi per permettersi qualcosa di più piacevole.

Ovviamente c'era anche il posto dove doveva recarsi Mokuren per ricongiungersi con i suoi vecchi colleghi. Stava guardando il citofono (peraltro particolarmente brutto) con l'aria di chi avrebbe preferito di gran lunga girarsi e andare via, facendo finta che non fosse successo assolutamente nulla, che non sapeva nulla, che non aveva nulla a che fare con tutto ciò.

Premette il pulsante dell'agenzia Maiyohiga.

“Chi è?”, chiese una voce gracchiante dall'altoparlante.

“Sono io, Moku”.

L'orribile e fortunatamente breve ronzio elettrico di un apriporta accompagnò lo scatto della serratura, “Terzo piano”.

L'interno era triste almeno quanto l'esterno; non si sentiva nulla, metà degli appartamenti erano deserti e nonostante fosse il primo pomeriggio la luce scarseggiava e tutto prendeva una tinta più spenta del normale. I suoi passi sulle scale risuonavano eccheggiando lontani, indipendentemente da quanto forte o piano toccasse terra; il pavimento era lucido e scivoloso.

Bussò alla porta, perché era convinto che il suono del campanello sarebbe stato orribile. Si lanciò un'occhiata intorno, se stavano cercando di metterlo a suo agio, avevano sbagliato di brutto. Se pensavano fosse ansioso di ritornare al lavoro, si sbagliavano ancora di più.

La donna che aprì alla porta gli mandò dei sentimenti misti, era da un lato felice e da un lato per niente felice di vederla, come quando si incontrava un vecchio collega con cui si condividono belle memorie... Di massacri e genocidi.

“Non sei cambiato per niente”, disse lei.

“Nemmeno tu. Credo sia tipico di chi entra nel nostro genere di business”.

“Invecchiare molto lentamente?”.

“Essere fuori dalla norma in generale”.

L'interno era decisamente spartano: un bagno, una cucina sostanzialmente deserta e un salotto con un tavolino nero basso e due sedie metalliche in stile postmoderno. Si sedettero ai lati opposti del tavolino, che non aveva il benché minimo snack da mordere per fingere indifferenza; neanche una caramella, neanche scaduta.

La donna lo fissò a lungo, e lui ricambiò lo sguardo. Era di bell'aspetto e discretamente attraente, con i capelli azzurri lunghi e il tailleur nero dall'aspetto particolarmente formale; aveva un leggero sorriso stampato in faccia che sembrava completamente indipendente.

“Perché hanno messo te come contatto?”.

“Il vecchio contatto avrebbe dato troppo nell'occhio”.

Un'altra pausa, la situazione si faceva sempre meno piacevole, la voglia di alzarsi e andarsene, anche dalla finestra, anche dal terzo piano, si faceva sempre più netta; la voce naturale della donna era piacevole, e non gracchiante come nell'altoparlante, la sua presenza non lo era particolarmente però.

“Secondo me, tu mi preferisci al vecchio contatto, e non vuoi ammetterlo. E' per questo che sei così rigido”.

“Sono così rigido perché so cosa stai per chiedermi e sai benissimo che mi farebbe fin troppo comodo accettare”.

Lei si sporse in avanti, prendendo il dialogo come un'amichevole sfida, “Allora perché fai finta di non volerlo fare?”.

“Non faccio finta”, sospirò, “La situazione è più complicata rispetto all'ultima volta, e alcuni di questi casi sono... Santo cielo, ti rendi conto di quanti cacciatori sono rimasti in questa organizzazione?”.

Lei fece il sorriso più innocente che fosse mai arrivato in quella parte del mondo, “Quanti?”.

Calcolò la distanza dalla finestra e il tempo in secondi che avrebbe impiegato per gettarcisi urlando e agitando le braccia all'aria. Troppi.

“... Nessuno”. Poi, aggiunse “A parte me, e non sono convinto di voler ritornare in affari”.

“Se nessuno salverà il mondo da queste minacce... Sai bene cosa succederà”.

“Che la situazione si risolverà da sola. Sono convinto che il mio vecchio contatto piantato in un qualsiasi harem sarebbe più che sufficiente a renderlo inefficace”.

“Ma se gli permetti di ottenerlo, hai idea di quanti danni potrebbero causare nel frattempo?”.

Un secondo e otto decimi. Ci avrebbe messo un secondo e otto decimi.

“Ryoko”, fece una pausa per sottolineare che l'aveva chiamata col nome e senza onorifici, “Abbiamo lavorato abbastanza tempo insieme da sapere come funziona. Ho una famiglia, so benissimo cosa succederebbe se le mie figlie finissero in mezzo a una qualsiasi di queste faccende”, sospirò di nuovo, era inutile calcolare il tempo, anche se Ryoko l'avesse lasciato andare, e in effetti non aveva motivo di fermarlo comunque, si era ormai reso conto che non aveva scelta che accettare.

“Allora?”, il sorriso che aveva Ryoko era... Stranamente trionfale. Maledette entità di dati e i loro metodi subdoli.

“Anche se accetto sai benissimo che molte delle taglie sono al di fuori della mia portata. Non so se la mia partner ha ancora voglia di seguirmi in follie simili”.

“Sono sicura che non aspetta altro che di tornare a lavorare con te. Quanto l'hai vista da quando ti sei sposato? So che si è tolta di mezzo per non disturbare la tua vita di coppia”.

“Se stai cercando di farmi sentire in colpa per qualcosa, sappi che viene a visitarmi spesso e mi aiuta a mantenere il tempio, non ci siamo persi di vista né niente”.

“Eppure è un peccato tenere separati spada e fodero, non trovi? Dovrebbero essere fatti per stare insieme”.

Mokuren si alzò, non con scatto rabbioso, ma con la consapevolezza di avere perso una battaglia contro la propria onestà. O di averla vinta, non era sicuro del punto di vista che voleva prendere, “E va bene”, disse lentamente, “Asakura Ryoko, sappi che ti odio”.

“Ne sono lusingata, l'odio del nostro miglior cacciatore di taglie è un tesoro prezioso, non trovi?”.

“Smettila di prendermi in giro”, la trivella della situazione arrivò ben oltre la crosta terrestre, si stava pericolosamente avvicinando al nucleo. Se le cose continuavano così... “A ogni modo, mi rifiuto di ingaggiare una minaccia inferiore al livello minimo da solo, quindi o mi procurate dei colleghi o non se ne parla di ingaggiare piloti di mech, assassini addestrati, h4x0rs della realtà o supersoldati”.

“Bentornato tra noi, Mokuren”.

La fissò per un lungo istante, “Grazie, Ryoko”.



Arrivò al tempio stringendo in mano il fodero vuoto che era rimasto nella stanza da letto per un sacco di tempo, era un fodero metallico di colore blu elettrico con decorazioni blu oltremare in una line art molto simile al technofantasy vecchio stile. La scalinata per arrivare in cima fino al torii del tempio era, come sempre, più lunga del necessario; chiaramente i sacerdoti shintoisti credevano fermamente che spezzarsi le gambe quotidianamente fosse un valido esercizio per temprare lo spirito.

Sicuramente gli aveva ricordato che era fuori allenamento.

Come ogni volta che la vedeva, era come se lei si aspettasse una sua visita e fosse già preparata ad accoglierlo; in un certo senso era così, e il fatto che avessero lavorato insieme precedentemente rendeva le cose solo più facili.

“Non è da te fare visite così improvvise. Immagino che tu abbia portato con té il fodero perché volevi buttarlo e non sapevi se andava nei rifiuti ingombranti o non infiammabili, vero?”.

Lo disse sorridendo, Mokuren non aveva nessuno dei poteri che aveva lei, se non una sensibilità al soprannaturale, comunque meno acuta di quella di lei, ma era in grado di capire quando qualcuno era felice di vederlo.

“Mi hanno voluto far credere che ti sentissi sola. Penso di esserci cascato”.

“Anch'io sono contenta di vederti, senpai. Vieni, ti offro del té”.

Si era abituato a vederla con un chihaya addosso, le calzava esteticamente bene, ma c'era qualcosa di sbagliato nel fatto che ne indossasse uno, era profondamente sbagliata l'idea che ne avesse uno addosso, era come mettere a lavare capi bianchi e colorati insieme alle lenzuola e a un paio di vecchie scarpe in una lavatrice senza detersivo. Era semplicemente sbagliato.

Il té assaporato seduti sull'esterno di un tempio nel pomeriggio aveva un sapore speciale, condiviso con una vecchia amica e compagna di avventure aveva un sapore ancora migliore. Stava diventando sentimentale ultimamente, era la giornata dei bei sentimenti, almeno avrebbe serbato dei bei ricordi di quando aveva deciso di gettarsi in una nuova follia.

“Successo niente di strano al tempio ultimamente?”.

“Niente di che. Ogni tanto quell'uccello viene a cercarti”.

“Ah, Mystia. Sì, le mie figlie la adorano, anche quando estorce soldi al parco la notte con quel suo banchetto abusivo di lamprede alla griglia”.

“E' mica la ragazza della tua penultima figlia?”.

“Sì, anche, ma fai finta di non saperlo”.

Il silenzio che separava i loro brevi scambi di battute non era pesante, era dovuto. Un silenzio pacifico in cui il passare del tempo era indispensabile per assaporare il momento, un'abilità che si sviluppava facilmente quando si rischiava la vita per campare.

“Hae”, disse Mokuren, “Hai mai pensato di trovarti un altro padrone?”.

“Sto seriamente considerando di propormi a tua figlia Kirino. E' ancora giovane però, aspetterò l'età legale prima di farmi avanti”.

“... Non devi mica sposarla”, Mokuren appoggiò il bicchiere vuoto e diede un'occhiata alla ragazza alta dai lunghi capelli verdi raccolti in una coda di cavallo; era virile in modo molto diverso da sua sorella, in un certo senso era meno carina, le mancava un lato di puro moé, ma apprezzava molto le sue altre qualità, sopratutto la sua capacità di ascolto. “Ti mancano le avventure?”.

Lei lo guardò con un ghigno comprensivo, era inutile girare intorno ai problemi di chi captava i suoni delle menti altrui come se provenissero da altoparlanti sempre accesi, “Di cosa si tratta questa volta?”.

“Ho parlato con Ryoko”.

“Ryoko chi?”.

“Ryoko Asakura. Non credo tu l'abbia mai incontrata, è stato il mio contatto per questa volta, l'ho sentita un paio d'ore fa”.

Haedonggum appoggiò il bicchiere vicino a quello di Mokuren, quindi li scostò indietro e scivolò sul bordo per avvicinarsi a lui, “Altre minacce all'umanità?”.

“Oltre a quelle che non abbiamo risolto l'ultima volta? Sì. Questa volta la situazione è seria”.

Lei gli arrivò praticamente addosso, aveva quel suo modo di far sembrare ogni sua interazione sociale con lui come delle sfacciatissime avances, “Più forti di quelli dell'ultima volta?”.

“C'é ancora gente estremamente pericolosa e se n'é aggiunta dell'altra. Fondamentalmente però, quelli più forti sono sempre gli stessi”.

La sentì sghignazzare, era un'espressione, peraltro attutita, dell'immensa gioia che quella donna provava nel confrontarsi con gente ridicolmente forte, aveva quel coraggio e voglia di sfida suicida da fiction di samurai pre-telegiornale, “... Dimmi che questa volta non ci tireremo indietro a metà, ti prego”.

Le lanciò un'occhiata, e lei lo fisso con quegli occhi verdi che, in modo più diretto di Suiginto, le facevano capire che a lei quel lavoro piaceva, piaceva tanto, e in questi anni non aveva aspettato altro che un'ulteriore occasione.

“Ho una famiglia, Hae. Non andrò in missioni suicide”.

Poiché lei non si mosse di un millimetro, Mokuren aggiunse “... Ma se troveremo rinforzi, considererò l'opzione di ingaggiare gente normalmente troppo pericolosa”.

“Ricordati che hai promesso!”.

Fu lì per lì per risponderle, ma lei gli prese la mano e rise, e con tutta la buona volontà, gli passò la voglia di discutere.




L'Emporio Balsamico non faceva brutti affari, non era certo in una posizione ideale per farne di buonissimi, ma si era guadagnato una reputazione sufficiente da assicurarsi dei buoni introiti. Visto da fuori era un panificio/pasticceria di squisito stampo locale e con un'aria invitante; non c'era abbastanza spazio da farlo assomigliare a un bar ma era sufficiente da mettere a disposizione un tavolino in un angolo vicino alle vetrate per chi volesse fermarsi un attimo a degustare dolciumi fatti a mano.

Il nome era comunque estremamente fuorviante, sì, ma ogni volta che qualcuno lo faceva notare si giustificava dicendo quanto fosse palese che vendessero pane e dolci lì dentro. Lo era, non c'era ombra di dubbio.

Ma il nome era poco azzeccato.

Lasciò uscire un giovane cliente con in mano una confezione che, a giudicare da forma e dimensioni, doveva contenere quell'elvezia che aveva preparato a inizio settimana; di solito non vendevano granché, Mokuren si chiese se non dovesse farne un'altra.

Entrò, trovando ad accoglierlo una Touka sorridente, “Bentornato”.

“Grazie”, si sporse sul bancone per darle un bacio, “Scusa se ti ho fatto lavorare qui tutto il giorno”.

“Non preoccuparti, non preoccuparti! Me la cavo bene. Ho imparato. Credo di poter fare questo lavoro a tempo pieno”.

“Non è necessario, hai un talento naturale per cose ben diverse dal gestire un piccolo esercizio artigiano”. Fece una breve pausa, doveva essersi accorta della spada, doveva. Non poteva non averla notata. “Hai un minuto?”.

“Certo”.

Il salotto era a portata d'orecchio della porta principale, nel caso fosse entrato qualcuno; Mokuren appoggiò la spada sul kotatsu, si incastrava perfettamente all'interno del fodero rimasto vuoto per anni, e la gemma verde sul piatto della lama sembrava quasi un lucchetto per tenerli insieme.

“Ricordi quando ti parlavo del mio vecchio lavoro?”.

“Dicesti che fu più difficile del previsto, e che sei rimasto da solo”, Touka aveva un'aria seria, era concentrata e attenta ai dettagli come non l'aveva vista da quando si erano separati per guadagnarsi da vivere con la spada. “Hai proseguito finché hai potuto, ma a un certo punto erano diventati troppo forti per te e hai dovuto rinunciare”.

“Le taglie guadagnate sono servite tantissimo per mettere in piedi questo negozio e il tempio, ma mantenere entrambi è estremamente difficile, e sei figlie non sono economiche da crescere”.

“Non ho mai capito ma... Tua moglie non contribuisce molto alle spese, vero?”.

“No”, sorrise, sua moglie era un caso molto particolare e, da molti punti di vista, palesemente suicida come scelta di coppia, ma... “Sfortunatamente, questo non é il centro di Tokyo, e anche se facciamo buoni affari non sono straordinari. Le particolari esigenze del tempio, oltretutto, richiedono spese non indifferenti per alcuni componenti piuttosto poco economici”.

Touka annuì in silenzio, i soldi stavano calando, parecchio. Il tempio ne risucchiava molti, ed era come se avesse addosso una strana maledizione che impediva alla gente di donare, tantomeno di comprare qualcosa, qualunque cosa. Mokuren aveva una mezza idea della natura di quell'influenza, e sapeva di poterci fare ben poco.

“Perdonami”, Touka improvvisamente si inchinò toccando quasi il kotatsu con la fronte, “In questi anni di gozzoviglia ho pensato solo a me stessa, ho trascurato il dovere di aiutare la mia famiglia”.

“... Eh...? N-no, non è colpa tua, non è colpa tua di niente...”, la situazione era appena diventata stranamente imbarazzante, “E poi hai avuto le tue cose da fare, hai una part- collega diversa e tutto quanto”.

“Razionalizzare non aiuterà le cose”, si rialzò, era seria come quando l'aveva conosciuta, e negli occhi aveva la determinazione temprata nell'acciaio e nelle battaglie, “Mokuren”.

“Sì?”.

“Permettimi di aiutarti”.

Silenzio, Mokuren rimase a battere le ciglia sentendosi un perfetto deficiente, un perfetto deficiente la cui unica capacità era di sottovalutare la combattività delle persone che lo circondavano e la loro volontà e probabilità di cacciarsi in situazioni pericolose.

Si sentì anche un grande egoista per non avere pensato a lei abbastanza da permetterle di fare ciò per cui era meglio portata.

Smettila di autocompatirti, idiota, non ti sta mica rimproverando.

Hae aveva ragione. Sorrise.

“No”.

Una sagoma umana cadde rovinosamente dal soffitto, portando con sé una quantità indicibile di polvere e restando spiaccicata a terra a fianco dei due. La cosa che lasciò Touka più di stucco fu tuttavia la risposta del fratello.

“Ma-”.

“Apprezzo moltissimo la tua preoccupazione, e ti sono grato del tuo supporto. Touka-neesama, sei sempre stata un mio grande punto di riferimento, ma anche tu sei in una situazione instabile. Le tue avventure con Karura ti hanno concesso una pausa in cui sono stato felice di rivederti, ma credo che più di ogni altra cosa tu abbia bisogno di tempo per trovare te stessa”.

“Ma-”.

“E poi sarò in grado di cavarmela, mi basterà prendere qualche piccola taglia come l'ultima volta, sarà comunque sufficiente per sostenere le spese di una famiglia numerosa. Certo, sarebbe bello se mia moglie potesse partecipare alle spese ma... Credo sarebbe anche estremamente preoccupante se lo facesse”.

Un attimo di silenzio, la persona che era caduta dal soffitto uscì dai detriti massaggiandosi la testa, “Mokuren-san, il tuo modo di mostrare affetto è perverso come al solito”.

Lui la guardò, “Toh, un angelo caduto”.

“Eeeeeh?”, la... Quasi illegalmente giovane ragazzina si ritrasse, aveva un carinissimo vestito bianco purissimo, dei capelli biondi lunghissimi e liscissimi, e un paio di dolci occhietti rossissimi, “Che battuta orrenda, Mokuren-san. Ti costerà tanti anni d'inferno”.

Ignorando completamente Touka che stava tentando di dire la sua, lui incrociò le braccia, “E tu da quanto tempo sei qui?”.

“Da abbastanza per sapere che stai per fare di nuovo l'eroe ferendo i sentimenti di chi ti sta intorno”.

“Non sto ferendo i sentimenti di nessuno”.

“Sì invece”, e persino Touka cercò di smettere di attirare la loro attenzione mentre l'angelo caduto si alzava in piedi, puntando un dito accusatore contro Mokuren, “Stai ferendo i MIEI sentimenti!”.

“... I tuoi?”, il morale di Touka aveva appena subito un danno a tre cifre, ma essendo sullo sfondo nessuno se ne accorse.

“Credi che mi faccia piacere sapere che il mio fratellone si sta imbarcando in un'impresa così pericolosa da solo dopo averla ignobilmente lasciata a metà la prima volta?”.

“Ero rimasto da solo, non è stata colpa mia!”.

“E allora perché pensi che continuando da solo questa volta ti andrebbe meglio? Mokuren-san, avere preso troppe spell card in faccia da tua moglie ti ha reso stupido!”.

Lui sospirò, perché non c'era assolutamente alcun modo di negare la sua colpevolezza, non di fronte alla sua sorellina Flonne, che di coscienza e amore se ne intendeva parecchio. Vedendo che la situazione era favorevole per un inserimento, Touka si fece avanti.

“Nii-san. Quello che volevo dire, è che l'unica cosa che ho sempre fatto nella mia vita è stato combattere il male. Mi rendo conto che la situazione non sia così semplice in questo caso, ma se come hai detto tu io devo trovare me stessa, dovrò farlo nel solo modo che conosco. Impugnando una spada contro le persone malvagie”.

Avendo perso il combattimento sociale sotto tutti i punti di vista, Mokuren fu costretto a cedere, “... Grazie Touka, apprezzo tantissimo questo tuo gesto. Purtroppo ci sono comunque dei problemi”.

“Eh?”.

“Se io vado a caccia di taglie portando con me sia te che la mia partner, chi resta al negozio?”.

Lungo momento di silenzio. Entrambi guardarono Flonne, ma lei scosse la testa, “No, anzi: è meglio che me ne vada prima che Etna inizi a chiedersi che fine ho fatto”, quindi strinse le mani ai suoi consanguinei, “Mokuren-san, Touka-san, ci rivedremo appena possibile. Tenetemi informata su quello che intendete fare”.

Quindi si alzò, fece un inchino, e se ne andò silenziosamente come si era intrufolata, lasciando intatto il buco sul soffitto.

“Anche il tempio è un problema”, riprese Mokuren, “Buona parte dei turni li faceva Haedonggum”.

“... Chi é questa Haedonggum, poi?”.

“Io”.

Fu una mossa fulminea, che però trovò il nulla, in quanto Touka non usava più portare una spada al fianco, se ne accorse dopo essersi alzata in piedi e aver stretto le mani intorno al nulla. Haedonggum aveva un ghigno di approvazione sulla faccia.

Non indossava più il chihaya, aveva una mezza tunica azzurra e dei pantaloni marroni, con alcune placche di cuoio rinforzato a proteggere il petto e la spalla e il braccio destro, oltre alle ginocchia. Sembrava uscita da un JRPG medio, quando in verità era semplicemente comparsa dal nulla a fianco di Mokuren.

“Touka, ti presento Haedonggum. Haedonggum, questa è Touka, mia sorella”.

“Piacere”.

Touka ci mise un po' a capire, quindi si risedette, stringendole la mano sovrappensiero, “... Sei la kohai di mio fratello. Non sapevo il tuo nome fosse Haedonggum”.

“Di solito mi chiama Hae. E' brutto, ma è corto e comodo”.

“Hae e io ne abbiamo passate parecchie insieme nell'ultima caccia”, spiegò Mokuren, “E non sarei qui se non fosse stato per lei, quindi non intendo ritornare senza”.

“E' stata lei a tenere con sé la spada per tutti questi anni?”.

“Lei è la spada”.

Silenzio.

“Hae”, Mokuren le diede delle pacche sulla spalla per fare notare che era corporea e reale, “Haedonggum, è la spada”, quindi diede una pacca al manico della spada appoggiata sul kotatsu, “E' in grado di materializzarsi. Per questi anni, ha sostanzialmente portato in giro se stessa per il mondo”.

“Non posso stare troppo lontana da me stessa”, spiegò lei, “Quindi mi ha gentilmente concesso di tenermi la spada per potermene andare in giro. Si è tenuto il fodero, così che quando avrebbe avuto di nuovo bisogno di me mi avrebbe trovato più facilmente”.

“Capisco”, Touka la prese particolarmente bene, “Hai un notevole rapporto con la tua spada, è ammirevole”.

“G-grazie...”, fece Mokuren mentre Hae ridacchiava, con lei intorno era già più facile del normale assistere a maliziose incomprensioni, anche senza bisogno di servirle su un piatto d'argento.

“Nii-san”, disse quindi Touka, con un tono deciso che accentuava la sua voce adorabilmente mascolina, “Quanto tempo abbiamo per prepararci?”.

“Tutto quello che vogliamo. Sempre che non stiamo parlando di anni naturalmente, alcuni casi sono... Più sensibili di altri”.

“Dobbiamo trovare qualcuno a cui affidare l'emporio e il tempio, io ho bisogno di allenarmi per recuperare l'abilità che ho sicuramente perso a forza di gozzovigliare, anche tu avrai bisogno di togliere la ruggine. Suggerisco di impostare da subito un regime di addestramento per ritornare in forma adatta al combattimento quanto prima possibile”.

Era adorabile quando prendeva l'iniziativa in quel modo. Un po' era preoccupato dalle prospettive di enorme fatica ed estrema quantità di sudore a cui sarebbe stato sottoposto in breve tempo, Touka aveva un fisico molto più allenato del suo nonostante si sentisse impigrita e persino ingrassata, aveva anche un potenziale molto maggiore, almeno sul versante fisico. Non sarebbe stata una passeggiata.

“Una cosa per volta”, disse lui cercando di frenare un po' il suo entusiasmo, “Prima fammi trovare qualcuno per sostituirci. Credo di sapere a chi chiedere, gli telefonerò più tardi, ma non riuscirò a vederla prima di domani”.

Touka annuì, “Va bene, aspetteremo i sotituti prima di iniziare”.

In quel momento, suonò il campanello attaccato alla porta dell'emporio, seguito subito dalla voce pimpante di Kirino che annunciava “Siamo a casa!”, seguito da un “Eh? Dove sono? Non c'é nessuno?”.

“Incesto a quest'ora del pomeriggio?”, era la voce ben più flebile di Megu, e anche se non la vedeva era sicuro di sapere esattamente con che sorriso lo stesse dicendo. Il modo in cui Touka esprimeva il suo lievemente irritato imbarazzo arrossendo rischiava seriamente di fare esplodere Hae per le risate soffocate.

“... Ne riparliamo domani, eh?”, fece Mokuren con un sorriso.


La faccenda invece saltò fuori la sera stessa, mentre la famiglia era a tavola. Sembrava una normale cena in una famiglia numerosa, ma c'era una lieve aria di tensione, come se tutti sapessero che qualcosa stava per succedere, ma nessuno voleva fare la prima mossa.

Il tavolo era abbastanza largo perché tutti ci stessero intorno senza che si urtassero i gomiti, e il pesce era sufficiente per tutti, insieme alle verdure grigliate e al riso. C'era il triplo di riso del normale, e normalmente ce n'era abbastanza per sei persone.

Il chiacchiericcio era stranamente basso, generalmente Kirino iniziava con un discorso e poi questo discorso prendeva vita e si autoevolveva anche se il resto della famiglia non vi faceva caso, ma questa sera era come un discorso di sottofondo, in combutta con Megu, che lanciava frecciatine oculari al padre (e alla zia) come per ricordare a entrambi che lei sapeva che qualcosa non andava e che li avrebbe fatti parlare fosse stata l'ultima cosa della sua vita.

In effetti, Mokuren stava giusto pensando che una figlia in meno da mantenere avrebbe risolto parecchi problemi...

“E allora io e Saya abbiamo deciso che per aumentare la nostra popolarità dovremo fare un calendario del club di kendo da vendere al prossimo festival del fondatore”, Mokuren tendeva a trasalire ogni volta che sentiva nominare Saya, ma non era la persona a cui pensava lui. Lo sapeva benissimo, la conosceva anche, ma il riflesso era duro a morire, “Stavamo pensando se fare le foto tutte nel dojo o anche all'esterno, e di come distribuire i mesi... Ah, Kotomi, le mangi quelle zucchine?”.

Kotomi non aveva toccato cibo, era immobile con le bacchette in una mano e la ciotola del riso nell'altra. Stava fissando quella strana donna coi capelli verdi che mangiava come se fosse il suo ultimo pasto prima di morire; la stava fissando come si fissa un mostro informe che solo lei può vedere e da cui nessuno la può proteggere, come un brutto film horror da seconda serata di una TV pubblica. Non aveva sentito la domanda, e aveva delle lacrime ferme ai bordi degli occhi come se le venisse da piangere senza che se ne rendesse conto.

“... Kotomi?”, Kirino provò a darle qualche colpetto sulla spalla, ma non sortì molto effetto, “Kotomi? Kotomi scritto con tre hiragana? Ci sei?”.

“Lascia stare”, Megu sorrise, ed era un sorriso rivolto a Mokuren e Touka, “E' stata rapita dal fascino esotico dei misteriosi stranieri”.

Touka appoggiò la ciotola di riso (vuota) e sospirò, “E va bene. Ragazze, c'é una cosa che dovete sapere”.

Il silenzio mutò, era diventato da carico di tensione a traboccante di curiosità, gli occhi di Kirino stavano scintillando, quelli di Megu anche, Suiginto non stava aspettando altro, Kotomi si era lentamente spostata come per nascondersi dietro Kirino, Wriggle sembrava cascare dalle nuvole e Rumia... Rumia stava continuando a mangiare senza curarsi di un bel nulla, beata nella sua ignoranza.

Dopo un lungo respiro, mentre Mokuren la fissava come se non sapesse cosa aspettarsi e Haedonggum la fissava come se fosse dalla parte di Megu e le altre, Touka disse, molto chiaramente: “Io e vostro padre abbiamo deciso di riprendere il nostro lavoro di cacciatori di taglie”.

Le bacchette di Kirino caddero sul tavolo e la sua espressione poteva essere riassunta in... Era difficile da descrivere, semplicemente i suoi occhi e la sua bocca la esprimevano molto bene, ed esprimevano il modo in cui non si curava di quanto fosse stupida la sua espressione in quel momento; dietro la sua schiena spuntavano i codini blu di Kotomi, che stava nascondendo la faccia e cercava di sforzarsi di non piangere.

Megu... Megu aveva un'espressione simile a quella di Kirino, solo che era più palesemente adorante, i suoi occhi scuri le scintillavano e i suoi lunghi capelli neri avevano acquisito un'adorabile brillantezza; Suiginto aveva a sua volta un'espressione particolarmente orgogliosa, mentre Wriggle continuava a non capire, e guardava le altre come se sperasse che qualcuno la mettesse al corrente della situazione-

Rumia continuava a mangiare.

“Siete abbastanza grandi per capire le nostre scelte. Vi prego di perdonarci per il modo improvviso”, fece un inchino sulla tavola, come a scusarsi, “Se vi lasciassimo orfane, la kohai di vostro padre si prenderà cura di voi”.

“A-Aspetta un attimo!”, Mokuren intervenne prima che la situazione potesse degenerare ulteriormente, “Non dirlo in modo così drammatico! Ah... Kotomi non piangere, non é così brutto come sembra...”, si girò verso Haedonggum nel disperato tentativo di cercare un supporto, “Dì qualcosa anche tu...”.

Lei sorrise, “E' vero. Ho lavorato molto tempo con vostro padre, e vi posso assicurare che é bravissimo a fare cose incredibilmente stupide e sopravvivere per raccontare. Non é facile da ammazzare”.

“Grazie... Suppongo”.

Due paia di mani si abbatterono contemporaneamente sul tavolo, Kirino la bionda vivace e Megu la mora inquietante avevano, per una volta, lo stesso volto da assolute fangirl.

“Papà! Zia! Siete due cacciatori di taglie? Che FIGO! Perché non ce l'avete mai detto?”.

“Posso vedere le teste delle persone che ammazzate prima di riscuotere le taglie? Per favore? Per favore?”.

“Vuol dire che diventeremo ricchi? Saremo pieni di soldi e vivremo a nostro agio in una casa alle Hawaii?”.

“Andremo a trovare i nostri parenti che vivono lontani? Assumeremo qualcun altro per lavorare a questo forno e al tempio?”.

“Ci saranno... Ci saranno tanti bulli dove andrete?”.

Mokuren e Touka sospirarono insieme. Avevano contagiato anche Kotomi, che sembrava sempre sul punto di scoppiare in lacrime e aveva una voce che tremava notevolmente.

“Se trovate che sia così eccitante”, disse Suiginto col tono invitante di chi conosce i propri polli, “Perché non entrate anche voi nel business?”.

Una breve pausa, in cui sia Touka che Mokuren furono sul punto di colpire violentemente Suiginto con qualcosa di molto, molto pesante, poi Kirino e Megu scoppiarono a ridere.

“Ah, no, cosa dici, é figo ma io devo prepararmi, ci sono i campionati nazionali di kendo che mi aspettano! E poi... Non me la sento di fare qualcosa di così pericoloso”.

“Eh, é vero”, concordò Megu, “E' figo a vederlo, ma non ho voglia di fare io una cosa così pericolosa, sono anche disposta a rinunciare all'idea di sfogare il mio stress su qualcuno che non conosco”.

“A me non piacciono i bulli...”, persino Kotomi sembrava sollevata da come giravano gli eventi. Continuava a fissare Hae, che a un certo punto le sorrise, facendola tornare ben nascosta dietro Kirino.

Wriggle si decise a parlare, vincendo l'imbarazzo e chiedendo un semplice: “Scusate, cos'è questa storia?”.

Mokuren e Touka si fissarono, quindi si schiarirono la gola e lui proseguì dicendo: “A ogni modo, prima di metterci a dare la caccia ad alcunché, dobbiamo trovare dei sostituti per il negozio. Ci vorranno un paio di giorni, quindi non aspettatevi nulla di particolarmente eccitante”.

“Vi prego di proseguire la vostra vita normalmente e di non preoccuparvi per noi. Sappiamo badare a noi stessi”, Touka lanciò un'occhiata alle sue nipoti, e iniziò a intuire perché suo fratello fosse titubante nello spiegare tutto apertamente. “Kotomi, per favore, mangia qualcosa... Non c'é più motivo di essere allarmata”, disse per distrarsi da quei pensieri.

“Sull'orlo dei profondi abissi, il sentiero di sangue di dipana verso la luce”, tutto il rumore cessò improvvisamente mentre l'attenzione fu portata su Mego, il cui sorriso a malapena accennato, carico della sua anima yandere, riempiva i suoi occhi scuri, “E' giunto il momento per i cuccioli degli sterminatori di uscire dal proprio nido”.

Kotomi, che capì al volo, iniziò a singhiozzare sulla spalla di Kirino, “... Non voglio diventare una sterminatrice!”.

“Non piangere Kotomi-neesan, siamo legate dallo stesso sangue, condividiamo insieme il nostro destino fino al suo compimento”.

“A-Aspetta!”, Kirino non era sicura di aver bene capito i collegamenti ma conosceva sua sorella e intuiva che non aveva detto qualcosa di troppo rassicurante, “Non scherzare, Megu! Solo perché abbiamo dei parenti violenti che uccidono la gente per soldi non significa che ci tocchi lo stesso destino!”.

“EHI!”, fecero i due all'unisono, schiantandosi contro la barriera metaforica che li divideva dalle bambine e dal loro mondo parallelo.

“Megu-chan ha ragione”, fece Suiginto con l'aria severa della tragica eroina, tradita solo dal sorriso di chi si divertiva immensamente a recitare una simile parte, “Dobbiamo prepararci per quando nostro padre morirà cercando di procurarci i soldi per mantenerci quanto basta perché anche noi diventeremo come loro. Un infinita spirale di sangue che finirà soltanto quando di noi ne resterà soltanto uno...”.

“Su-Suiginto... Stai mischiando i generi...”, Kirino era troppo impegnata a consolare Kotomi per fare troppo caso a quello che veniva detto, “E comunque, come si diventa cacciatori di taglie? Voglio dire, ci serviranno dei contatti, io non conosco nessuno nel giro”.

Suiginto si appoggiò comodamente sul tavolo, dando le spalle ai genitori come se non esistessero e rivolgendosi invece a Wriggle, “La cosa più importante per un cacciatore di taglie è tenere gli occhi bene aperti, sono sicura che qualcuno con le tue abilità sarebbe in grado di svolgere questo compito”.

“Non...”, Wriggle aveva finalmente capito il discorso, ma non aveva afferrato comunque il senso, “Gli youkai non sono abitualmente cacciatori di taglie”.

“Non coinvolgerci così liberamente! E i miei campionati nazionali?”.

Megu si girò verso Kirino con l'espressione scintillante che tradiva l'ardente fiamma del coraggio, sufficiente a muovere un robot gigante, “Non capisci, Kirino? Questa é l'ultima possibilità che i nostri genitori ci daranno col loro sacrificio! Devi sfruttarla bene e vincere i campionati, così potrai lasciare questo mondo in battaglia senza nulla da rimpiangere!”.

“Davvero?”, chiese Rumia di punto in bianco come se avesse seguito tutto fin dal principio.

Kirino sorrise poco convinta, “Mi... Immaginavo una vita diversa...”.

Al di fuori dell'invisibile e metaforica barriera, in un mondo alternativo, Touka e Mokuren fissavano la scena come se fosse un brutto film, girato da un regista privo del concetto di continuità di trama; Hae, dal canto suo, sghignazzava con l'aria di chi si stava divertendo un mondo.

“... Beh, l'hanno presa bene”, commentò Mokuren.

“... Eh, immagino di sì”, rispose Touka.

“Perché non mi hai detto che hai una famiglia così spassosa?”, e mentre Hae continuava a ridacchiare, i due sospirarono. Era una vita difficile.


Ripensando agli avvenimenti, era difficile rendersi conto che era successo tutto quanto in una sola giornata.

La lettera consegnata dal postino poco prima dell'alba. Tutto era iniziato da lì. All'inizio non ci aveva dato peso, aveva fatto finta di niente, era andato a controllare più per curiosità che altro.

Poi si era reso conto che i lavori che aveva lasciato in sospeso anni fa sarebbero sicuramente tornati a perseguitarlo; aveva avuto la stessa sensazione al tempo ma con il matrimonio e la famiglia se n'era scordato.

E un giorno tutto gli era tornato sulle spalle, all'improvviso.

Fissando il soffitto nella stanza buia gli venne naturale il paragone con la sua casa; era bella, era viva, era il focolare di tutto ciò a cui più teneva al mondo, ma stava per essere scossa da un terremoto per il quale non era stata progettata.

“... C'é qualcos'altro che devo sapere, nii-san?”.

Nemmeno Touka riusciva a prendere sonno. Comprensibile, era successo tutto troppo in fretta, e tra capo e collo si era ritrovata coinvolta in una storia di cui suo fratello aveva accennato solo molto vagamente.

“No. Niente che io non ti abbia già detto”.

Erano quasi attaccati sotto le coperte del loro futon, ma non percepivano la loro vicinanza come tale, ognuno era immerso nei propri pensieri e intento a sforzarsi di trovare un ponte, un collegamento, qualcosa, per rapportarsi all'altro.

Non veniva in mente niente a nessuno dei due, il silenzio continuava e il sonno non arrivava.

Poi il silenzio diventò imbarazzante. Poi diventò irritante.

Poi Mokuren disse “Hae...?”.

“Sì?”.

“Togliti”.

Haedonggum ovviamente non si tolse, restò appiccicata per metà sopra Mokuren come se fosse la sua concubina ufficiale e non avesse intenzione di farlo dormire, tutto questo sotto lo sguardo di Touka, bruciante come mille soli.

“Sai, pensavo che forse se portiamo tutta la famiglia con noi, non avremmo bisogno di cercare altri collaboratori”.

“Siamo gli Inaba-Kazami, non i Takamachi”.

“E poi io non porto le mie nipoti a dare la caccia a ricercati pericolosi”, constatò Touka con un tono fermo che non ammetteva repliche, “Molte di loro non sono in grado di combattere abbastanza bene”.

“Uh... Credo tu stia sottovalutando le mie bambine...”, ammise Mokuren come se la cosa un po' lo preoccupasse, quindi sospirò, “E sopratutto, Hae, ti dispiace non infilarti nel letto di un uomo sposato?”.

Haedonggum sospirò, ma non si mosse di un millimetro, “E dove vuoi che vada? Non ho nessun luogo dove riposare”.

Mokuren si alzò, andò verso l'armadio, lo aprì, poi prese un cuscino e lo appoggiò sul ripiano in basso, “Ecco”.

“Non sono una DearS!”.

“Allora dormi sul divano! O comunque fuori di qui!”.

E la sbatté fuori dalla stanza.

Tornò sotto il futon, ora sì che si sentiva abbastanza stanco per cercare di dormire, “Scusala, é il suo modo di essere gentile”.

“Non fa niente, mi sono abituata al fatto che tu abbia colleghi strani”, lei sorrise, “Mi ricorda un po' Karura”.

“Eh, sì, proprio nei tratti peggiori”.

I due ridacchiarono insieme per un po', quindi Mokuren disse: “Ah, vale anche per te”.

“... Eh?”, Touka sembrò colta in contropiede, “Non vorrai farmi dormire nell'armadio?”.

“No...”, sospirò, “Santo cielo, hai la stanza degli ospiti, ma sul serio... Dormire qui con qualcuno che non sia Yuka è... Mi mette a disagio”.

“Ma... Ero solo preoccupata per il mio fratellino. Ce la farai a dormire da solo?”.

“Non sono un bambino!”, e sbatté fuori anche lei.

Sentendosi sufficientemente stanco per poter andare a dormire senza passare dal via e senza ritirare i 2000 yen, Mokuren tornò sotto il futon, perdendosi nei suoi pensieri finché si accorse che qualcuno bussava alla sua stanza. Doveva essere un po' che succedeva, ma era un tocco così lieve che faticava a sentirlo.

Si alzò e andò ad aprire, trovandosi davanti una Kotomi con i capelli blu sciolti, e gli occhi violacei umidi e lucidi che la fissavano da sopra un cuscino stretto al corpo (peraltro in buona salute).

“Non...”, aveva la voce insicura di sempre, ma sembrava che avesse pianto tutto il tempo, “Non ci lascerai orfane, vero?”.

Sul punto di rischiare complicazioni al diabete che non aveva, la prese quasi senza pensare e la strinse gentilmente al petto, “No, tesoro, no. Non pensarci, non é così pericoloso come sembra... Non prendere sul serio le tue sorelle, esagerano sempre. E poi, dobbiamo catturarli vivi. Non uccideremo nessuno”.

Questo non fece svanire l'immensa tensione sulla ragazza, ma la spinse molto chiaramente sulla via del sollievo.

Mokuren fece un profondo respiro, quindi staccò Kotomi da se e la guardò molto intensamente, “Kotomi, devi promettermi una cosa”.

Lei annuì, era l'unica cosa che riuscisse a fare.

“Capisco come ti senti, ma come le tue sorelle, tu fai parte di una famiglia sgangherata, hai parenti strani e non del tutto umani, compresa tua madre che è una youkai e tuo padre che è un coniglio meticcio; quando diventerai una donna adulta, voglio che tu faccia tesoro di queste esperienze, così che tu possa a tua volta proteggere dal male le persone a cui tieni”, le arruffò i capelli e le sorrise, “Non preoccuparti, resterò vivo, così da poterti insegnare come si fa”.

Era il genere di discorso che non avrebbe dovuto attaccare su Kotomi, il GAR non le si addiceva per niente, però la prese piuttosto bene, se non altro per fare contenti i propri genitori, o per gratitudine.

Comunque, le cose andarono bene. Kotomi tornò a dormire.

Mokuren tornò al suo futon, guardò lo spazio a fianco, vuoto da un paio di mesi, quindi sorrise, “Yuka-chan, le nostre figlie stanno diventando grandi, eh?”.

Quindi si addormentò come un sasso.




Prima ancora di riprendere in mano la propria carriera di cacciatore di taglie, Mokuren si trovava già nei guai.

Era tornato all'organizzazione per chiedere dei sostituti che gli tenessero il negozio mentre lui era in giro in missione, trovandosi invece a conoscere meglio Ryoko Asakura, in senso biblico.

Della bibbia di lei.

Il che significava che si trovava in una stanza intrappolata in un campo di realtà alternativa dove era impegnato a tentare di non essere colpito da lunghe e affilate barre di acciaio, o un qualche materiale simile che comunque sarebbe stato poco salutare per il suo organismo.

“Non vedo la tua partner”, disse lei sorridendo mentre dal suo cancello di babilonia personale estraeva altri oggetti metallici da lanciare contro l'amico.

“E' impegnata a tenere il negozio mentre mia sorella riprende gli allenamenti”.

“Ah, la porterai con te?”.

“Non ho avuto molta scelta!”, replicò mentre sfruttava il muro come trampolino, cercando di non pensare a quanto quei pali si fossero piantati vicino ai suoi piedi. Piantati di una trentina di centimetri. Nel muro.

“Immagino che anche lei sia... Un po' arrugginita”, sorrise mentre disponeva le sue armi a galleggiare nell'aria in una formazione a falange, “Sai, dicono che le donne innamorate siano in grado di toccare l'intoccabile e rompere l'infrangibile”.

“Ah, sì. Ti riferisci a Karura? Lei sì, è in grado di fare questo e altro”, aprofittò del momento di pausa per valutare la situazione. Della stanza accogliente non era rimasto molto: il tavolino sgombro era stata la prima cosa a saltare, le sedie la seconda nel momento in cui Mokuren si accorse che non fornivano nessun riparo, e ora lo scenario alle sue spalle era così macabro che se l'ente di protezione edifici inanimati l'avesse vista, avrebbero rischiato guai seri.

Fortunatamente, pensò Mokuren, l'ente di protezione edifici inanimati non esisteva.

“Beh, sono sicura che in tre riuscirete a risolvere questa nuova emergenza. Spero non abbandonerai di nuovo a metà strada, vero?”, lei sorrise, e la falange di pali partì a velocità ridicola verso di lui.

Con un lampo, la parte che avrebbe dovuto ridurlo in colabrodo rimbalzò sonoramente contro una barriera azzurrina con un forte lampo, e sotto i piedi di Mokuren si formò un cerchio magico in tre gironi, il cui nucleo era diviso in tre parti; i simboli erano chiaramente leggibili, ma in una lingua sconosciuta ai più e che avrebbe richiesto più tempo per essere letto e decifrato di quanto ci si potesse permettere durante un combattimento.

“Beh Ryoko”, disse quindi lui come rassegnato all'idea di dover tirare fuori le unghie, “E' un sacco di tempo che non lo faccio, quindi perdonami se sembrerò un dilettante”.

Lei sorrise, “Nessun problema”.

Mokuren liberò due dei satelliti del suo cerchio magico, sotto forma di piccoli pentacoli cerchiati e collegati al girone più esterno di tutta la trama; ne aveva sette in tutto, ed è bene specificarlo perché ha l'abitudine di non parlarne molto con nessuno, rendendolo un pessimo narratore.

“Ora, Ryoko, ti prego di schivare questo attacco”, quindi puntò un dito contro di lei, e come esigeva l'etichetta formale dei Maho Shonen, dichiarò l'attacco con un: “Mirage pierce!”.

L'attacco era difficile da osservare, una specie di striscia di colore spiraleggiante che si muoveva a velocità ingannevole. Ryoko si spostò sorridendo, avendo intuito la speronata di energia magica che le sarebbe arrivata ben prima del previsto, abilmente nascosta dalla spirale colorata, “Non puoi ingannare un'appendice dell'entità di dati con un trucco simile, credi che non me ne sarei accorta?”.

Quindi dal nulla comparvero dei fulmini globulari, in svariati punti del soffitto, che si schiantarono dov'era Mokuren poco tempo fa, prima che scattasse in avanti e piantasse saldamente i piedi per terra, in una posizione che ricordava moltissimo l'attacco speciale del protagonista generico di un gioco di combattimenti 2D, “Crimson...”.

Prima che potesse completare la formula, i pali che avevano riempito il muro dietro di lui si staccarono e dimostrarono di essere non solo affilati da entrambi i lati, ma anche riciclabili per essere sparati di nuovo contro di lui.

Lui però scomparve, e quando Ryoko se ne accorse fu perché aveva sentito il tuono sordo di un sigillo magico formarsi sotto i suoi piedi al tocco di Mokuren; riuscì a voltarsi solo a metà prima che lui tornasse in piedi urlando “...BIND!!!”.

I raggi che partirono dal sigillo si fusero come pongo intorno ai suoi polsi e alle giunture degli arti, tenendola saldamente ancorata sia al pavimento che al soffitto mentre i pali affilati erano a pochi istanti dal perforarla.

Ovviamente si fermarono qualche centimetro prima.

“Vedo che non hai dimenticato come nascondere le tue carte migliori”.

“Per fortuna non hai mai visto tutti i miei trucchi, posso ancora usarne qualcuno”.

Si sorrisero, e Mokuren sciolse l'incantesimo nel momento in cui il campo di realtà alternativa svaniva, riportando la stanza a com'era prima che i due dessero inizio al loro amichevole duello.

“Allora, credi di potermi procurare degli assistenti per tenere l'emporio?”.

“Sarà più facile di quanto credi. Abbiamo, come si suol dire, le mani in pasta in molti luoghi”.

Lui sospirò sollevato, “Bene, solo ricordati che ci serve sia la mattina che il pomeriggio, quindi non portarmi solo scolarette”.

“Non preoccuparti, fidati di me”.

E Mokuren decise di fidarsi delle sopracciglione azzurre che incorniciavano il sorriso di lei. Si ritenne fortunato di non avere le sopracciglia tra i suoi numerosi fetish, il che gli fece ricordare quanto il suo lavoro fosse pericoloso.

Forse stava perdendo il tocco, l'idea di lasciare un tracciante sul suo primo attacco gli era venuta per abitudine, non aveva razionalmente pensato di usare incantesimi di movimento.

Doveva rimettersi in forma. E ricontattare vecchi amici.


Ciò che l'aveva portato a chiamare da un telefono pubblico era la pura abitudine. Nonostante il tempo passato, si stava rendendo che molti dei calli che si era fatto nella carriera non erano andati via, nel bene e nel male.

Non era sicuro se questo fosse un bene o un male, non c'era assolutamente bisogno di usare un telefono pubblico, poteva usare quello di casa, oppure il suo telefono mobile, e sopratutto non c'era bisogno di andare fino a un parco pubblico per cercare una cabina.

Ma tant'è.

In ogni caso, riappoggiò la cornetta con l'aria di non essere molto soddisfatto di non aver trovato nessuno a casa, in nessuna delle tre case. Era parecchio tempo che non aggiornava quel contatto, forse i vecchi indirizzi non esistevano più?

Cancellò anche il terzo numero dalla sua lista scritta a mano su un foglio di carta a quadretti, la cui età era testimoniata dal numero di macchie di unto e quant'altro presenti a distanze e dimensioni irregolari. Non ne aveva avuto molta cura, più che altro era convintissimo che non gli sarebbe mai servito a granché, non solo perché pensava che non l'avrebbe mai riutilizzato ma anche perché era sicuro che sarebbe successo esattamente questo: che quando ne avesse avuto bisogno, tutti i numeri sarebbero stati irreperibili.

Dopo altri cinque minuti buoni di un telefono che squillava a vuoto, cancellò anche il quarto numero.

Ne restava solo uno.

Era il genere di situazione in cui era sempre l'ultimo a funzionare contro ogni aspettativa, anni di esperienza avevano insegnato questo al cacciatore di taglie, e fedele a ciò in cui credeva, si accinse a tentare.

Fu più sollevato che stupito nel sentire una risposta.

“Qui è la base Excelcisor della marina dell'impero di Transbaal, con chi parlo?”.

Era tempo che non sentiva quella voce così piena di vitalità, che rispondeva al telefono come se fosse la cosa che più agognava fare nella propria vita. Sentiva anche in sottofondo un rumore pericolosamente familiare, ma non ebbe modo di farci caso.

“... Con chi parlo?”, ripetè mentre Mokuren restava basito dai ricordi.

“Ah... Milfie-san?”.

“Sì, sono io”.

“Sono Mokuren Inaba, ti ricordi di me?”.

“No”.

Un'automobile sbandò sonoramente e si andò a schiantare roteando contro un albero appena davanti alla cabina telefonica, prendendo fuoco subito dopo. Mokuren dovette battere le ciglia tre o quattro volte prima di rendersi conto della risposta.

“... Eh?”.

“Temo di non ricordare il tuo nome, Mokuren-san, forse la persona di cui hai bisogno ti potrebbe aiutare”.

Voleva sottolineare quanto fosse lei la persona di cui aveva bisogno, ma aveva come la sensazione di dover misurare bene le parole con quella donna, se voleva che quel discorso avesse una qualche parvenza di senso logico.

“Cercavo... A dire il vero cercavo tuo marito, Milfie-san. Proprio non ti ricordi di me? Mokuren Inaba? Quello dello spettacolo di manzai di fine anno?”.

“Manzai di fine anno?”, cadde un po' di silenzio e Mokuren si chiese se quella donna stesse pensando a quello a cui avrebbe dovuto pensare invece che a qualcosa di completamente scollegato.

“Ah! Ora ricordo!”, l'albero contro cui l'automobile si era schiantata prese fuoco a sua volta, bruciando con un'intensità ridicola, “Eri quello che imitava il richiamo del polipo spaziale viola a guscio duro!”.

“Sì, sono proprio io, Milfie-san, ero quell'amico di tuo marito, al tempo ero ancora scapolo”.

“Sì, sì, ricordo benissimo”, era passata ad una modalità di conversazione, se possibile, ancora più familiare, il genere di modalità a cui passavano le casalinghe per le telefonate i cui minuti andavano misurati con tre cifre, “Ricordo che nessuno aveva capito bene che cosa stessi imitando, poi è arrivato un polipo vero contro la base e ha causato un blackout”.

Mokuren fissò il rogo a un paio di metri oltre il vetro davanti a sé e ridacchiò con una lieve tinta di imbarazzo al ricordo, “Sì, che poi Ranpha-san mi ha costretto ad andare a ripristinare la corrente e io l'ho costretta ad accompagnarmi perché non sapevo la strada”.

Con una fragorosa esplosione, la marmitta dell'auto bruciante schizzò verso la cabina, bucando i vetri da una parte e dall'altra, costringendo Mokuren ad abbassare la testa per schivarla, “E' vero, mi ricordo anche che vi siete persi e vi abbiamo trovati nel nucleo di comando che stavate per innestare il processo di autodistruzione della base”.

“Eh, sì, non vado molto d'accordo con i processori complicati”, oltre al bruciore e alla gente che urlava, che ora sentiva piuttosto forte poiché la cabina era bucata, sentiva comunque un qualche strano ronzio di sottofondo venire dalla cornetta, un ronzio che stava lentamente montando.

“Mokuren-san, non ci siamo più visti da allora, mio marito ha detto che ti sei sposato”.

“Eh... Sì, alla fine mi sono sposato anch'io”, diamine, quanto accidenti di tempo era che non si vedevano? “Ho anche una famiglia. Ho aperto un panificio”.

“Eh? Davvero, Mokuren-san? Allora ci dovremmo trovare uno di questi giorni!”.

“Sì, era mia intenzione”, sorrise. Non era proprio vero, non era sua intenzione fare un ritrovo di famiglie, ma dato che sarebbe servito allo scopo, perché no? “Era per quello che volevo contattare anche tuo marito, volevo mettermi d'accordo con lui per trovarci un qualche giorno”.

“Ah, mio marito adesso è difficile da trovare, è in ritiro”.

Per diversi secondi, tutto ciò che si poteva sentire era il rumore di ambulanze e vigili del fuoco che si precipitavano sul luogo dell'incidente, la polizia aveva già messo dei paletti intorno alla zona e recintato il tutto con un nastro giallo. Lo sapeva perché ci era dentro.

“... In ritiro?”.

“Sì, in ritiro. Da quando la vostra ditta si è sciolta sente la necessità di andare in ritiro ogni tanto, è molto difficile da contattare in quei periodi”.

“Molto difficile o impossibile?”.

“Beh, direi proprio-”. Poi qualcosa esplose, il ronzio di sottofondo fu sostituito da un'ondata di rumori scoppiettanti e come di polistirolo riversato in una stanza da un camion per trasporti speciali; continuò per parecchio tempo.

“Milfie-san?”, i pompieri avevani iniziato a gettare acqua per spegnere l'incendio, e poiché la cabina era bucata era come se stesse piovendo dentro, “Milfie-san?”.

Sentì come se la cornetta venisse recuperata da sotto un pesante strato di polistirolo, “Ah, Mokuren-san? Scusami! Stavo facendo dei pop-corn e credo di avere sbagliato qualcosa”.

Era esplosa la macchina. Ne era certo. Faceva sempre esplodere la macchina dei popcorn. La parte divertente era che faceva esplodere le macchine particolarmente capienti come se quelle piccole non fossero alla sua altezza. “Ah, non c'è problema, Milfie-san. Dicevo, per contattare tuo marito?”.

“Beh, direi proprio che non saprei come fare. Non ci dice mai dove va”.

Ottimo.

“Ho capito. Beh, ti ringrazio, Milfie-san, ti chiamerò ancora per farti sapere di un'eventuale rimpatriata”.

“D'accordo, aspetterò tue notizie, Mokuren-san!”.

E riattaccò la cornetta senza aver scoperto nulla di utile. Guardò il foglietto con i numeri, e si accorse che con l'acqua si era irrimediabilmente disintegrato. Ottimo.

Uscì dalla cabina, un po' bagnato come se avesse fatto una doccia irregolare, e scavalcò la linea gialla della polizia che dalla sua parte non diceva che non sarebbe dovuto uscire, quindi si avviò pensieroso verso casa.


Con fiduciosa tranquillità, si avviò per il ruscello a piedi nudi, tirandosi su le maniche della sua camicia bianca. Per evitare di bagnare inutilmente i vestiti, aveva deciso di togliere anche gonna e gilet.

L'acqua era abbastanza limpida da poter vedere chiaramente il fondo in qualsiasi punto, non che le arrivasse più che a metà tibia comunque.

Il fondale non era ruvido, né particolarmente ricco di detriti, la sensazione che dava al tatto era molto piacevole; all'inizio la sua presenza spaventò i pesci, che schizzarono via in tutta fretta, ma una volta ferma iniziarono ad abituarsi.

Era il periodo dei salmoni, quello in cui risalgono la corrente per cercare di riprodursi nel modo più scomodo e suicida possibile, le loro squame rilucevano debolmente alla luce del sole.

Inalò profondamente l'aria fresca di mezzogiorno, la civiltà era così lontana che non se ne vedeva traccia, né se ne sentivano i suoni. Intorno a lei c'erano solo alberi e, seguendo la corrente, un campo di fiori selvatici.

Dopo essersi rilassata a sufficenza, diede un colpo secco sotto la superficie dell'acqua e un salmone volò a riva con la traiettoria a parabola di chi faceva queste cose da un sacco di tempo.

Il suo occhio da pescatrice le fece capire che era una buona giornata per del sashimi fresco, ma forse si sarebbe dovuta procurare del riso e della salsa di soia appena possibile, davano un notevole tocco in più.

E del wasabi. Mai dimenticarsi del wasabi.

Sorrise tranquilla al pensiero di quanto bene avrebbe mangiato, era particolarmente di buonumore anche per cose così semplici. Salutò un orso che era venuto a pescare nello stesso punto con un “Ciaaaaoooo!”, e un ampio gesto con il braccio; l'orso rispose cordialmente.

Quando si ritenne soddisfatta della quantità di pesce ottenuta, guadò le basse acque fino a tornare a riva, dove il sole di mezzogiorno iniziò da subito a provvedere ad asciugare piacevolmente le sue gambe. Sistematasi quindi vicino a dove aveva lasciato le cose, provvedette a recuperare un lungo coltellaccio che usò per tagliare la testa ai pesci canticchiando tranquilla.

Mentre puliva salmoni, sentì delle voci aldilà della bassa vegetazione che aveva davanti, alzò solo distrattamente la testa per vedere di chi si trattasse, ma non erano altro che due ragazzi in lontananza.

Sottovalutò l'importanza del fatto che in realtà fossero un ragazzo e una ragazza, ma d'altro canto i due sottovalutarono la portata dell'udito di lei, e la sua scarsa propensione a farsi gli affari propri.

“Ken-kun, è ancora molto lontano?”, sentì chiedere da lei, con la voce carica di giovanile imbarazzo.

“Non preoccuparti, siamo quasi arrivati”, sentì dire dalla fiduciosa voce carica di giovanile innocenza di Ken-kun.

Poiché erano molto lontani, trovò difficile definire le loro caratteristiche, o persino come fossero vestiti; posò una fetta di salmone crudo su una foglia e la mise in bocca.

Mmmmmh, delizioso.

Poteva permettersi di non guardare la scena (non essendo comunqe in grado di distinguere granché), ma continuò ad ascoltare comunque, non aveva nulla di meglio da fare in fondo.

“Ken-kun, questo è...”.

“E' bellissimo, non è vero?”.

Si stavano chiaramente riferendo al panorama; un piacevole vento iniziò a soffiare da valle.

“Mi hai portata fino a qui solo per- Ken-kun, non era necessario”.

“Mi sei sembrata un po' giù da quando il consiglio scolastico ha rimosso il club di giardinaggio, volevo farti un piccolo regalo, so quanto ami i fiori”.

Ci fu un momento di silenzio, immaginandosi mentalmente la scena decise che la ragazza in questo momento si stesse voltando incrociando le braccia con imbarazzo da tsundere, “C-che dici Ken-kun, dovresti essere più preoccupato della tua compagna di classe, sono addirittura due giorni che non uscite insieme”.

“E' stata lei a dirmi dov'era questo posto”, rispose lui per nulla intimorito dalle ardue scelte da dating sim, “Volevamo fare qualcosa per te e a forza di cercare abbiamo trovato questo posto. Pensavo ti avrebbe fatto piacere”.

A naso, intuì che la ragazza dovesse essere passata alla modalità dere, “Ken-kun...”, ci fu un attimo di pausa in cui se la immaginò arrossata e con lo sguardo fisso nel vuoto dieci centimetri sotto il naso, “Ken-kun, grazie, non era necessario...”.

Ma lui continuò, come se stesse giocando con il walkthrough stampato a fianco per arrivare al finale di... Comunque si chiamasse la ragazza con cui era, “Questi fiori ti somigliano molto, sono cresciuti e diventati bellissimi senza avere il permesso di nessuno, e lo sono diventati mentre nessuno era qui a guardarli”.

Sorrise mentre preparava altre fette di salmone; lei era stata lì a guardarli, ma nessuno l'aveva mai vista farlo. Il ragazzo nel frattempo continuò imperterrito: “Da quando ti ho conosciuta sei maturata molto, all'inizio pensavo fossi una ragazza disonesta e presuntuosa, non mi ero accorto che sotto questa impressione si celasse una creatura così radiosa”.

Una creatura così radiosa. Questa se la doveva segnare.

“E' per questo che ho insistito perché ci fossimo solo noi due. Volevo scusarmi con te, mi rendo conto di non averti mai considerato come avresti meritato”.

Bam, flaggata fino al finale. Era convinta che ora la ragazza non sapesse cosa dire, che si fosse sbloccato un particolare set di CG con questo dialogo, e che fra poco ci sarebbe stata una scena non adatta ai bambini.

“Guarda, c'é un campo di girasoli. Quando è iniziata la scuola, mi hai detto che prima di uscire dalle superiori avresti voluto piantarne qualcuno nel giardino della scuola”.

“Ma... Il consiglio studentesco...”

“Le piante crescono anche se nessuno glielo ordina, il consiglio studentesco non potrà farci nulla se capiteranno dei semi di girasole nelle aiuole, no?”.

Ora non c'era più nessuno a origliare da lontano, seduta su una roccia mentre con un coltello tagliava abilmente ottime fette di salmone da mangiare crude. Quella donna ora era di fronte a loro, come se fosse spuntata dai girasoli, come se fosse sempre stata lì. Era di ottimo umore, perché stava mangiando bene e avrebbe continuato a farlo fra poco, così fu talmente gentile da fare un lieve inchino di fronte ai due ragazzi.

Quindi, un'altra se stessa spuntò dai girasoli, come se fosse sempre stata lì, ed entrambe puntarono un ombrello di seta bianco verso i due ragazzi; nessuno di loro sembrava veramente capire, ma la ragazza aveva visto qualcosa negli occhi di lei, di quella donna dai capelli verdi spuntata dal nulla (e ce n'erano due?). Era qualcosa di molto strano, nonostante sorridesse, il suo sorriso non sembrava onesto.

L'istante dopo, i ragazzi furono travolti da due ondate di energia magica che squarciarono l'aria con forza tale da appiattire l'erba fino a valle e spostare le nuvole, creando due tagli come se un enorme artiglio avesse squarciato il cielo e illuminando la zona a giorno. Nonostante fosse già giorno.

Poco prima di essere atomizzata per un Bad End a sorpresa, la ragazza si rese conto di cosa non andasse nel sorriso della donna (o donne?) dai capelli verdi. Non era disonesto, non era il genere di sorriso che nascondeva le intenzioni. Era tutto il contrario, quella donna era onesta, onestissima.

Troppo onesta per essere sana.

Anche dopo che l'attacco si fu concluso, l'aria impiegò un po' di tempo a riempire il vuoto che era stato lasciato in mezzo, come se fosse restia a tornare sulla traiettoria. La donna dai capelli verdi, sempre in camicia e senza nient'altro addosso, salvo l'ombrello che teneva in mano, si incamminò tranquilla, da sola, per ritornare a dove aveva lasciato il suo sashimi.

Adorava il salmone, si chiese se non avesse dovuto pescarne altro, ma decise che le piaceva di più il sushi con il condimento giusto.

Sperava, la prossima volta, di trovare una giornata bella e tranquilla almeno quanto quella.

  
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