SEGNO
DEL DESTINO
If you let me take
your heart
I
will prove to you
We will never be apart
If
I’m part of you.
Open
up your eyes now,
Tell
me what you see,
It
is no surprise now,
What
you see is me.
Big
and black the clouds may be
Time
will pass away,
If you
put your trust in me,
I’ll
make bright your day.
Look
into these eyes now,
Tell
me what you see,
Don’t
you realise now,
What
you see is me.
(Lennon-McCartney,
Tell me what you see)
PARTE 1
HYOGA:
Quando la marea dei ricordi ci assale impietosa, nessuna gioia del presente riesce a distoglierci da pensieri che tornano turbinosi ad avvolgersi su sé stessi e dentro di noi, in labirinti contorti, costellati di volti e istanti destinati a tormentarci per tutta la vita.
Chi più di me può saperlo?
Tanti affetti perduti, uno solo tornato per miracolo dalle valli oscure della
morte… Camus, maestro del mio maestro…
Cristal Saint invece non tornerà mai, come non
tornerà mia madre…
Gli altri dicono di comprendermi, di capire come mi
sento… già… come possono capire? Non sono stati loro a causare la morte dei
propri cari… non come me. Questo mi è toccato, trasformarmi in strumento di
morte per coloro che amavo, in un sadico accanirsi del destino al quale
rispondo con masochistico accartocciarsi del mio spirito su sé stesso, in un
continuo circolo vizioso al quale non so come fuggire.
E in giornate come questa tutto è ancora più
difficile, quando accade qualcosa che riporta indietro, qualcosa che ti fa
pensare… ad una particolare persona…
Ma a chi voglio darla a bere? Il pensiero di lui non
ha mai cessato di torturarmi, ha sempre ostacolato il mio presente, il
susseguirsi dei miei giorni e, forse, mi ha impedito di instaurare rapporti
altrettanto coinvolgenti di quelli che avevo con lui.
E’ per questo che tengo a distanza persino i miei
fratelli? Per timore di tradirlo? O più probabilmente perché non voglio più
perdere nessuno?
Isaac… amico del cuore dei giorni di addestramento,
sacrificatosi per permettermi di raggiungere un traguardo che egli meritava
mille volte più di me… e invece ha dato la sua vita, immolandosi per salvare la
mia che, incautamente, avevo messo in gioco in una dimostrazione di palese
immaturità…
Isaac… ritrovato in campo avverso nel regno dei
mari, da me ucciso… e così l’ho perso due volte, entrambe a causa mia.
Oggi, giorno in cui cade quell’anniversario, lo
scontro con Poseidon che ci ha voluti l’uno di fronte all’altro, mi è capitato
tra le mani un oggetto… non posso credere che non si tratti di uno scherzo del
destino. Era nascosto, sepolto sotto a un mucchio di cianfrusaglie, una
montagna di oggetti inutili dei quali, per un motivo o per l’altro, non sono
riuscito a disfarmi.
Ma c’è stato davvero un momento in cui ho seriamente
pensato di gettare via questo suo regalo di un’alba lontana? Forse,
conoscendomi bene, sarei stato disposto anche a questo per difendere me stesso
dai ricordi… o forse no… non mi ha mai neanche sfiorato l’idea di liberarmi
della Croce del Nord donatami da mia madre.
Eppure non c’è nulla di certo dentro di me, sono una
contraddizione vivente, sono tutto e il contrario di tutto… palese sintomo
dell’insicurezza radicata nel mio animo anche se, per nasconderla, spesso
indosso quella maledetta maschera da spaccone borioso che vuol sempre avere la
soluzione giusta tra le mani… ma quando mai? Una maschera appunto… io non so
nulla, non conosco neanche me stesso, come posso pretendere di decidere per gli
altri e di giudicarli, come posso permettermi di mostrarmi tanto altezzoso? E
come diavolo fanno a sopportarmi ancora, me lo chiedo così spesso che mi
difendo da questo pensiero fuggendo io da loro; mi rinchiudo in questo silenzio
apparente mentre la testa si riempie di voci, quelle delle mie paranoie, delle
mie paure, dei miei rimpianti.
Una fuga continua che tuttavia mi riporta sempre a
ciò da cui tento di fuggire. Anche questo dono… lo volevo nascondere forse, non
certo gettare, chissà perché poi… almeno questo occultarlo ai miei occhi mi
servisse a qualcosa. E invece, lui è un mio pensiero fisso, il suo volto, la
sua angoscia quando l’ho rivisto… il suo odio per me, il suo momentaneo,
straziante odio… è troppo da sopportare, come è troppo il ricordo dei suoi
occhi stravolti dal dolore, quello stesso dolore che mi ha trasmesso, come una
maledizione che mi seguirà fino alla tomba, quel sentimento atroce accumulato
sulla sofferenza che già mi opprimeva, da sempre.
Stringo tra le dita della mano destra il coltellino,
così vecchio e arrugginito che probabilmente, la lama incrostata dal tempo, è
pressoché inutilizzabile, mi chino su di esso e me lo porto alla fronte… e le
memorie si avvolgono, come la pellicola sbiadita di un vecchio film, fluiscono
verso le origini, verso un passato che sembra appartenere ad un’altra vita…
***
Ero da poco giunto in Siberia per l’addestramento, i
miei primi giorni di apprendistato in quei luoghi che mi avevano visto nascere
e che avevo lasciato dopo la morte di mia madre.
Dopo il breve soggiorno in Giappone mi avevano
rimandato lì… e ora so che il destino aveva predisposto tutto, fin da allora,
fin dalla mia maledetta nascita che vorrei rinnegare con tutto me stesso!
Ero un bambino spaventato, non capivo nulla, non
comprendevo cosa quel mondo che sentivo tanto distante volesse da me… perché mi
sballottavano in quel modo, me e i miei compagni, perché si accanivano tanto in
quel gioco assurdo di stelle ed armature?
Ora lo so… so chi sono, so cosa da me si pretende ma
quello che ancora non riesco a spiegarmi… perché proprio io, perché? Come hanno
potuto le stelle trovare in me un loro degno seguace?
Forse sono ancora spaesato e confuso, proprio come
in quei giorni lontani quando, come ancora faccio oggi, camuffavo il mio stato
d’animo sotto una maschera da indomito ribelle, aggredendo per prevenire
qualunque aggressione.
Eppure, con Cristal Saint questo trucco non
attecchiva e probabilmente neanche provavo ad ingannarlo; divenne da subito il
mio idolo, come lo divenne, di riflesso, Camus… e anche Isaac, il mio compagno,
poco più grande di me, che già così piccolo incarnava tutto ciò che avrei
voluto e non riuscivo ad essere… lui… il prediletto di Camus…
Cristal Saint era più imparziale ma era facilmente
intuibile come anche lui desse per scontata l’investitura di Isaac a nuovo
saint di Cygnus. La cosa non mi turbava eccessivamente, in fin dei conti lo
davo per scontato anche io e, per la prima volta, la consapevolezza della mia
inferiorità non mi umiliava.
In quel territorio dove il candido velo di neve e
ghiaccio regna sempiterno e sovrano, ci spostavamo su slitte trainate da cani,
i fieri, maestosi Siberian Husky, coraggiosi, robusti e fedeli corridori dei
ghiacci. Li addestravano i compaesani di Jacov, bimbo piccolissimo a quel tempo
che poi sarebbe diventato uno dei miei più cari amici.
Suo padre allevava i cani e Jacov ha imparato da lui
la medesima attività, ora la sua più grande passione.
Era invece sua madre ad occuparsi del nostro
sostentamento, preoccupandosi con un’ansia eccessiva che noi ragazzini, presi
dall’addestramento, non ci dimenticassimo di mangiare. Non solo Isaac e io
eravamo i suoi “ragazzini”; era una donna comune, per cui anche i nostri
maestri, ai suoi occhi, erano due bambini, nonostante il palese precoce
sviluppo fisico lasciasse presagire il contrario. Non importava, a lei, che
nell’universo dei saint di Athena l’infanzia praticamente non esistesse.
In ogni modo, le sue ansie potevano forse essere
fondate nei confronti di Isaac e dei maestri ma io non mi dimenticavo affatto
del cibo; non avrei mai dato a vedere, in loro presenza, quanto fossi affamato
ma poi divoravo di buona lena tutto ciò che la cara donna mi presentava, sotto
il suo sguardo compiaciuto e materno.
Ero sicuramente il suo prediletto, dopo il figlio,
ovvio… forse perché ero il più piccolo, o forse perché sembravo tanto più
fragile di Isaac?
Tutto quello che posso rispondere è che quelle sue
occhiate mi colmavano il cuore di gratitudine e struggente nostalgia, perché mi
ricordavano altri occhi materni… quel sorriso che mi aveva salutato prima di
affondare per sempre in fondo al mare di Siberia.
Questa gente semplice non faceva domande sullo
svolgimento delle nostre giornate, non chiedevano nulla sulla Scuola Segreta di
Atene; si occupavano semplicemente di noi, con tutto il calore della loro
spontaneità.
Camus era quasi sempre via; si faceva vivo di tanto
in tanto per accertarsi del regolare svolgimento degli addestramenti e per
farsi un’idea sul come procedeva la nostra maturazione, tuttavia era chiaro
come riponesse totale fiducia in Crystal Saint.
Raggiungevamo i luoghi delle esercitazioni con le
slitte e, al mattino presto, quando ci mettevamo in viaggio, la prima cosa da
fare era prepararle e bardare i cani; spesso i maestri non attendevano i
padroni degli animali e si davano da fare da soli e così pure Isaac… io invece
mi mostrai da subito piuttosto imbranato. I cani mi piacevano ma,
effettivamente, il mio rapporto con loro non era dei migliori e forse, col
senno di poi, posso capire perché quei sensibili animali non si sono mai fidati
di me: hanno sempre percepito il mio nervosismo innato, la mia mancanza di equilibrio,
la mia costante insicurezza nascosta.
Crystal Saint e Isaac, al contrario, erano i loro
dei, per loro avrebbero fatto qualunque cosa… se provavo io a farmi obbedire,
quasi non mi ascoltavano.
La mia incapacità mi pesava, sentivo il bisogno di
dimostrare che, con un po’ d’impegno, sarei riuscito sicuramente in un’impresa
semplice come l’approntare una slitta per il tragitto. Così, una mattina, mi
svegliai prestissimo e precedetti tutti nel gelo insopprimibile dell’esterno;
avevo intenzione di nutrire i cani e di farli trovare pronti e bardati,
dimostrando a tutti ma soprattutto a me stesso che ero in grado di farlo.
Non poteva essere così difficile e in effetti, tutto
procedette nel migliore dei modi finchè non venne il momento di aggiogare gli
animali al mezzo che ci avrebbe condotto verso una lunga giornata di
addestramento.
Cominciarono i problemi; lo vedevo fare tutti i
giorni eppure…
Non furono i cani a crearmi guai anzi, ormai avvezzi
a quella routine sapevano perfettamente cosa ci si aspettasse da loro e si
misero da soli in posizione, nell’ordine esatto, davanti alla slitta,
probabilmente intuendo la mia difficoltà e disponibili ad agevolarmi. A me non
restava altro onere se non quello di legarli… un gioco da ragazzi… sennonché,
appena presi in mano le bardature, mi resi conto di non sapere affatto da che
parte cominciare.
I loro sguardi attenti erano fissi su di me, colmi
di aspettativa e vaga curiosità stimolata dalla mia goffaggine, evidentemente
palese persino agli occhi dei cani… abbastanza umiliante!
Provai innumerevoli mosse con quei lacci ma essi
sembravano non avere alcuna intenzione di assecondarmi, erano molto più
recalcitranti dei cani!
E, non so cosa potessi mai avere combinato per
giungere a quel punto, venni improvvisamente a trovarmi in una situazione
assurda: a causa di un mio movimento maldestro, una corda mi si strinse intorno
al polso, imprigionandolo e non riuscivo in alcun modo a sottrarmi a quella
morsa.
Mi si stava fermando il sangue, mi stava facendo un
male terribile; il pensiero che rischiavo di rimetterci la mano si affacciò
prepotentemente, gettandomi nel panico e, tuttavia, non mi risolsi ad invocare
aiuto… volevo essere abbastanza forte da tirarmi fuori da solo da un guaio nel
quale mi trovavo a causa della mia avventatezza.
Seppur tentassi di mascherare la mia agitazione
interna non riuscii a ingannare i cani che compresero subito come qualcosa non
andasse nel verso giusto; presero ad abbaiare come forsennati e io, con
disperazione, pensavo che avrebbero risvegliato il mondo intero. Lottavo tra il
sollievo del probabile intervento di qualcuno e la vergogna, perché questo
avrebbe significato la messa in mostra della situazione ridicola nella quale mi
ero andato a cacciare.
“ZITTI!” tuonò una voce infantile ma fermamente
decisa alla quale i cani obbedirono istantaneamente, scodinzolando festosi in
direzione di colui che ne era proprietario e che stava giungendo a passo
sostenuto verso di me.
Una massa di capelli castani legati dietro la nuca
in un minuscolo ciuffetto, occhi verdi, svegli e grandi, Isaac si fece avanti
nel chiarore dell’alba ormai prossima, le mani sui fianchi, cipiglio da adulto
e sopracciglia aggrondate che si inarcarono non appena mi vide in quella
singolare condizione.
“Che cosa stai facendo?”
Mi sentii avvampare, probabilmente arrossii come una
ragazzina.
“Ecco… io…” borbottai mentre si avvicinava; i suoi
occhi caddero sul mio polso prigioniero:
“Che hai combinato?”
Non osavo guardarlo in faccia mentre riprovavo a
formulare una giustificazione che avesse un senso compiuto:
“Io… ecco… stavo legando i cani…”
La sua risata argentina mi trafisse le orecchie e
ogni successiva parola mi morì sulle labbra:
“Pensavo che stessi provando a legare te stesso!
Volevi assumere tu il ruolo di cane da slitta?!”
Rifugiai la testa tra le spalle, assumendo un’aria
offesa e fissandomi insistentemente le scarpe; avrei voluto seppellirmi sotto
quintali di neve e scomparire… Isaac stava sicuramente per perdere ogni stima
nei miei confronti, avrebbe riso della faccenda con Cristal Saint e ne
avrebbero parlato a Camus quando sarebbe venuto. Egli, con la sua flemma
arcigna, mi avrebbe scrutato senza dire una parola ma ostentando un profondo
disprezzo nei miei confronti.
Il dolore alla mano era relegato in fondo a questo
cumulo di tormenti per me ben più angoscianti, tuttavia non potei fare a meno
di sussultare e di lasciarmi sfuggire un’esclamazione sofferente quando il mio
amico sfiorò appena la morsa che mi stava spezzando il polso.
“Ci vuole una bella dose di abilità per riuscire a
fare una cosa del genere” mi canzonò ancora Isaac.
Avrei voluto supplicarlo di non aggiungere fango
alla mia già infima situazione ma non lo feci; speravo, incassando in silenzio,
di conservare una misera briciola di dignità.
Intanto lui aveva estratto dalla tasca un minuscolo
oggetto, un coltellino tascabile a lama estraibile; lo fece scattare e mi prese
delicatamente la mano intrappolata, ormai gonfia e violacea. Non la sentivo
quasi più: la prolungata assenza di flusso sanguigno era prossima a renderla
inerte e priva di vita.
Con precisione e cura, Isaac cominciò a lavorare con
il coltello sulla corda, finché non riuscì a tagliarla, liberandomi dalla
trappola che, maldestramente, mi ero fabbricato da solo.
Il mio organismo reagì all’improvvisa liberazione
con un fremito di dolore che mi strappò un gemito; serrai le palpebre e strinsi
forte i denti.
Isaac ancora mi teneva la mano e solo quando
riacquistai il controllo del mio corpo mi resi conto che stava attentamente
scrutando la tumefazione a forma di sanguigno bracciale che mi fasciava il
polso:
“Cavoli… se non fossi arrivato io avresti rischiato
grosso… anche così oggi sarà dura allenarti.”
“Non è poi così grave.. non mi fa male!”
Mentii per darmi un tono ma la verità era che non
sapevo come avrei fatto a svolgere gli esercizi della giornata se il dolore non
fosse diminuito.
Isaac si chinò, raccolse una manciata di neve e me
la strofinò sulla parte ingiuriata, massaggiando delicatamente.
Il gelo improvviso rese per un attimo insopportabile
la sofferenza ma, dopo pochi istanti, potei godere del palese sollievo di
quell’anestetico naturale.
Era così gentile la carezza di Isaac sul mio
braccio, mi emozionava la dolcezza con la quale si stava prendendo cura di me…
ero ancora un bambino e non potevo comprendere… forse ora darei un nome diverso
a quelle sensazioni… e forse anche allora arrossii.
Balbettai un “grazie” che venne fuori come poco più
di un sussurro, osando sollevare appena gli occhi per studiare la sua
espressione; proprio in quel momento mi rispose con un sorriso che mi
scombussolò più di quanto già lo fossi.
“Ora rientriamo; anche il maestro e tutti gli altri
avranno sentito i cani. Evitiamo di metterci nella situazione di dover fornire
spiegazioni imbarazzanti” concluse il discorso strizzandomi un occhio “Sarà il
nostro piccolo segreto.”
Finalmente riuscii anche io a sorridere: il mio
amico non avrebbe detto nulla! Resistetti alla tentazione di saltargli al collo
per dimostrargli la mia gratitudine.
Avvezzo a controllarmi molto nelle manifestazioni
affettive, mi limitai invece a stringermi nelle spalle, con una smorfia di
disappunto:
“Il maestro lo scoprirà lo stesso; noterà il mio
problema alla mano e vorrà sapere com’è successo.”
“E noi gli risponderemo che sono stato io mentre ci
allenavamo da soli alla lotta!”
Lo scrutai a bocca semiaperta, per rendermi conto se
dicesse sul serio o meno; mentire al maestro non era cosa da nulla e
soprattutto non era da lui!
Probabilmente intuì i miei dubbi, perché aggiunse:
“Per una volta non accadrà nulla… è una bugia
innocente!”
Annuii, senza riuscire a dominare la timidezza:
“Grazie…” mormorai di nuovo. Era come se, di colpo,
il mio vocabolario fosse stato cancellato di netto, russo, giapponese e anche
il greco antico delle scuole segrete.
Isaac ridacchiò ancora e mi tese la mano con il
coltellino poggiato sul palmo:
“Prendilo” mi esortò vedendo che restavo immobile
“devi averne uno, è indispensabile, può tornare utile in ogni momento. Te lo
regalo, io ne ho un altro!”
Esitai deglutendo un grumo di saliva che mi ostruiva
la gola, quindi sollevai il braccio e strinsi le dita tremanti sul piccolo
utensile bisbigliando l’ennesimo, monotono ringraziamento.
Misi il coltello in tasca e, a testa bassa,
osservavo di sottecchi il mio amico che stava concedendo una parola e una
carezza a tutte le paia di adoranti occhi canini… molto simile a quegli sguardi
doveva essere anche il mio…
***
Le lacrime scorrono tra le mie dita, strette intorno all’inanimato testimone di quella mattina lontana.
E’ questo che provavo, che provo per lui? E’ solo il
dolore che mi dilania, l’atrocità della sua sorte, della mia sorte di omicida
di un amico… o… è amore?
Un amore di bimbo può essere così struggente,
eterno, può sopravvivere alla morte? Perché io ho solo quattordici anni eppure…
quando ne avevo otto lo amavo con la stessa, soffocante intensità!
Come posso continuare a vivere con tale tormento?
Come posso sconfiggere i miei demoni? A chi chiedere aiuto?
No… a nessuno… non lo farei mai, non lo farei per
orgoglio, non lo farei per paura… per terrore… terrore di cosa non so…
In verità, in un subconscio che percepisco appena,
desidero l’appoggio di qualcuno… di una persona sola… di lui, lui che mi
provoca turbamenti molto simili a quelli che ho provato e provo per Isaac.
Ma sto davvero pensando una cosa simile? Ancora
prima di rendermene conto ho formulato questa pazzesca riflessione?
Sussulto al sommesso, timido picchiettio alla mia
porta.
“Chi è?” chiedo con un’agitazione febbrile che non
so spiegarmi né dominare.
“Hyoga-kun… posso entrare?” mi risponde una vocetta
sottile, un po’ incerta, al cui suono le mie labbra si piegano in un accenno di
sorriso come se, dopo la più cupa delle notti, il sole tornasse a splendere per
me, un sole malinconico, arso da innumerevoli tormenti e angosce e, nonostante
tutto, capace di trasmettere un calore sereno e di dare sollievo a chi ne ha
bisogno… a me senz’altro…
“Vieni pure!”
In risposta al mio assenso, l’uscio si schiude,
seguito dall’affacciarsi di un visetto pallido, incorniciato da una cascata
d’oro scuro e una figurina dall’eleganza discreta e fine scivola dentro soffermandosi sulla soglia, salutandomi con
uno di quei sorrisi sognanti che, ogni volta, fanno sciogliere qualcosa dentro
di me… ma non chiedetemi di confessarglielo… è già troppo difficile doverlo
ammettere a sé stessi!
Lo esorto con gentilezza a venire avanti dato che
sembra attendere un mio invito, ma quasi subito distolgo lo sguardo: la sua
profonda empatia con l’anima altrui gli permetterebbe di scorgere
immediatamente la traccia ancor fresca delle mie lacrime.
Anche così, è già troppo tardi; fa qualche passetto,
fino a portarsi accanto al letto sul quale sto seduto:
“Hyoga-kun… tutto bene?”
Se ne è già accorto… non gli si può nascondere
nulla… soprattutto io, che sono così enigmatico per tutti, per lui sono quasi
un libro aperto… è assurdo!
“Perché me lo chiedi?”
Prima di rispondere si siede vicino a me e il
materasso si abbassa appena con l’aggiunta del suo peso lieve:
“Ti conosco Hyoga… e so quanto questo giorno sia
terribile per te…”
Il mio volto si solleva di scatto… è vero, la morte
di Isaac corrisponde al giorno del nostro scontro con Poseidon, quindi è logico
che lo ricordi… però, ciò che mi colpisce è la sua comprensione, il suo saper
immaginare cosa significhi per me.
Eppure non dovrei stupirmi: il cuore del mio
fratellino Shun batte in sintonia con il mondo, è capace di assorbire nel suo
spirito la sofferenza dell’intero universo, come nessun altro e l’ha ormai
ampiamente dimostrato durante la battaglia laggiù nell’Ade.
Il mio stupore deriva dal fatto che sono io stesso a
credere di non meritare la sua comprensione… la comprensione di nessuno e
quindi la rifiuto, anche la sua… il mio unico barlume di luce…
Ecco… ci sto ricascando di nuovo e non deve
accadere, non devo trascinarlo nella tempesta del mio animo sconvolto.
Mi alzo in preda al nervosismo, gettando
distrattamente il coltellino sulle coperte e con le mani in tasca mi avvio,
ostentando tutto il distacco che mi è possibile, verso la finestra aperta sulla
giornata di sole, quel sole tiepido e carezzevole che non ho mai amato
realmente, non ho mai sentito mio, vicino al mio cuore sempre immerso nella
notte nostalgica di terre sulle quali l’astro splende distante, senza riuscire
a scalfire il gelo del manto candido e, a volte, si rifiuta persino di sorgere.
Mi volto mentre, nel medesimo istante, Shun chiude
le proprie dita sottili sul coltellino e lo rigira tra esse, osservandolo
distrattamente, sovrappensiero, perso in riflessioni probabilmente distanti da
quell’oggetto di cui non immagina il profondo significato che riveste per me.
La mia reazione non ha spiegazioni, né
giustificazioni sensate ed esplode, ancor prima che io possa controllarla, in
un’esclamazione brusca, troppo dura, cattiva, un tono che mai nessuno dovrebbe
usare con lui:
“Non toccarlo!”
Sussulta e sgrana gli occhi, fissandomi in preda
all’incomprensione più pura, mentre la sua mano si apre di colpo, lasciando
cadere il coltellino che raggiunge il pavimento con un sgradevole tonfo
metallico…
E io mi sto odiando per lo spavento che intravedo
nei suoi specchi di smeraldo, per l’incredulità e la vaga tristezza che, come
ogni altra emozione, non riesce ad occultare dietro la sincerità del suo
sguardo, molto più forte della sua volontà di controllare i propri sentimenti.
E nonostante tutto non sono neanche in grado di
scusarmi… lo fa lui invece, in un debole, tremolante sussurro, distogliendo il
viso dal mio come se, ora, volesse fuggire il più lontano possibile dai miei
maledetti, gelidi occhi.
Testardamente muto, mi chino per raccogliere il
responsabile di tutto, l’oggetto colpevole del mio odioso comportamento che ha
causato dolore a questa persona che meriterebbe solo il meglio… e invece
accumula solo sofferenza nel suo animo puro…
E’ il mio destino no? Non dovrei rassegnarmi e
accettarlo? Se voglio bene a qualcuno, tutto ciò che riesco a fare è causargli
sofferenza… o ucciderlo… neanche Shun sfuggirà a questa sorte se mi lego troppo
a lui, ne sono terribilmente certo e non posso permetterlo, non voglio, non
lui… deve stare lontano da me, deve salvarsi da me!
E’ immobile adesso, ha posato le mani in grembo e,
con le dita, tormenta il tessuto leggero dei suoi pantaloni… l’ho innervosito,
poverino, è chiaramente turbato e la pena mi dilania l’anima ma sono un completo
incapace nel campo dei rapporti umani e non so che fare, come comportarmi… e
quasi vorrei che lui giungesse ad odiarmi per questo… ma come pretendere da lui
una cosa simile? Se almeno servisse ad allontanarlo da me il mio atteggiamento…
Sta cercando febbrilmente qualcosa da dire, lo
conosco quel tanto che basta per rendermene conto e Shun non è enigmatico
quanto lo sono io… conoscerlo è così facile e lui non chiede altro che donarsi
con tutto sé stesso.
E’ intimidito, la sua emotività non gli permette di
accogliere impassibile gli sbalzi d’umore di chi lo circonda… gli basta così
poco per intimidirsi, per precipitare in quell’insicurezza che è sempre stata
la sua peggior nemica…
Il momento di imbarazzante silenzio si protrarrebbe
in eterno se non fosse proprio Shun a porvi un limite, sfoderando tutto il
coraggio di cui è capace, tutta la forza morale che lo contraddistingue nel
campo dei sentimenti:
“Quell’oggetto dev’essere molto importante per te.”
Mi stringo nelle spalle e continuo a non guardarlo,
semplicemente non ci riesco… non so che rispondere… ma ancora mi toglie
dall’imbarazzo e la sua voce dolce nuovamente giunge a riempire il silenzio:
“Dovresti riservare maggior cura ad una cosa così
preziosa.”
Intanto si alza e si avvicina fino a portarsi ad un
passo da me. Sono rigido come un pezzo di legno; cosa gli passa per la mente
adesso?
Trattengo a stento un balzo quando le sue mani si
chiudono sul mio polso e lo sollevano; sto stringendo quel pezzo di metallo fin
quasi a farmi male.
“Dai… non avrai paura che te lo rubi…”
La sua espressione è una perfetta via di mezzo tra
lo sbarazzino e il supplichevole. Naturalmente non ho paura che me lo rubi,
semplicemente sono come un bambino scioccamente intestardito sulla convinzione
che un compagno non debba toccare una cosa sua.
Riderei di me stesso se non fossi tanto stravolto;
meccanicamente apro le dita e Shun, con fare rassicurante, prende il
coltellino. Non oso oppormi, non so cosa mi accada o meglio, non so quale
strano incantesimo abbia gettato su di me quello strano ragazzino dal cuore
d’oro: il piccolo Shun è una continua sorpresa, un gioiello da scoprire nelle
innumerevoli sfaccettature della sua perfezione, istante per istante.
“Vedi? E’ tutto incrostato ed arrugginito, non hai
mai pensato a pulirlo?”
Se si trattasse di qualcun altro, probabilmente
avrei già reagito con ferocia, intimandogli di farsi gli affari suoi e
sbattendolo fuori dalla mia stanza senza troppe cerimonie ma non c’è nulla da
fare, con lui non ci riesco.
“Io credo che si possa fare qualcosa” prosegue
imperterrito, scrutando la lama metallica, con un cipiglio da esperto studioso
direi se non mi sembrasse al contempo tanto buffa…
Lui è buffo in questo momento, talmente tenero da
strapparmi, mio malgrado, un sorriso… solo lui è capace di tanto… non solo
riesce a non adirarmi seriamente qualunque cosa faccia, neanche quando, al suo
posto, chiunque mi risulterebbe troppo invadente ma riesce perfino a farmi
sembrare ogni mio tormento più facile da sopportare.
“Shun… non è così importante… davvero…”
E’ una timida obiezione la mia e lui praticamente
non vi dà alcun peso:
“Non ci credo neanche se me lo giuri che non è
importante, me lo ha rivelato la tua reazione di prima quanto conti per te.”
“Intendo… non è importante rimetterlo a posto…”
“Hyoga-kun” la sua vocetta è ora lieve come una
carezza che sfiora delicata le mie orecchie “Ogni ricordo va custodito come un
prezioso gioiello e va curato e vezzeggiato come un bambino… ogni ricordo
merita lo stesso trattamento che riservi alla tua Croce del Nord…”
Istintivamente la mia mano si solleva, fino a
sfiorare il ciondolo a forma di crocifisso che mi circonda il collo, dono di
mia madre; Shun non ha ancora concluso il suo gentile rimprovero:
“Non permetteresti mai che la tua croce si
deteriorasse… e così devi fare con ogni ricordo… questo coltellino porta su di
sé le tracce di una memoria tormentata… l’hai lasciato andare così perché ti fa
troppo male, lo so… per questo non ti sei preso cura di lui…”
Memoria tormentata… certo… colui che mi fece questo
dono l’ho ucciso… nientemeno! E non una ma due volte… la prima volta gli ho
rovinato l’esistenza, poi gli ho dato la morte definitiva.
Il suo volto, il volto di Isaac, mi ondeggia
davanti, in tutte le sue successive manifestazioni: i sorrisi ottimisti di un
bambino fiducioso nel futuro, saldo nei propri principi, la sua rabbia ardente
quando gli confidai il motivo autentico, troppo personale, per il quale volevo
diventare un saint, la sua amarezza, la delusione di amico tradito perché non
aspiravo, come lui, a suprema giustizia… e poi la profonda tristezza quando lo
incontrai nuovamente, in fondo al mare, ormai privo di ideali e di sogni,
perché io, proprio io, il suo amico del cuore, glieli avevo strappati dal
cuore… le sue lacrime in punto di morte…
Le lacrime… le mie ora, che non so più trattenere…
No, non voglio! Detesto mostrarle a qualcuno, fosse
pure a Shun, nessuno deve vedermi piangere!
Mi volto, per nascondergli il mio viso, facendo uno
sforzo immane per controllare il tremito delle mie spalle scosse da un pianto
che, non decidendomi a liberarlo, mi ostruisce la gola, rischiando di
soffocarmi.
Non riesco a fare neanche un passo che due braccia
bianche e snelle mi avvolgono il torace e una nuvola morbida di capelli si posa
sulla mia schiena; percepisco chiaramente il tocco vellutato di quella soffice
chioma. Maledizione Shun, perché ti comporti così, cosa hai in mente adesso?!
Le sue parole giungono a me leggiadre, messaggere
del conforto di un angelo:
“Lasciati andare Hyoga-kun, non devi vergognarti di
me, non devi vergognarti di piangere per chi ami e ci sarà sempre qualcuno che
accoglierà le tue lacrime come doni preziosi… anche lui sai? Preferisce che tu
tiri fuori tutto ciò che hai dentro, piangendo liberamente per lui, piuttosto
che sentirsi piovere addosso tutto il tuo tormento.”
Shun… come devo fare con te?
I miei singhiozzi esplodono prima che io possa
ascoltare la fine del suo discorso e il mio strazio si traduce in frasi
sconnesse:
“Shun… io… gli ho rovinato la vita capisci? E come
se ciò non bastasse… l’ho ucciso… Perché io devo uccidere tutti quelli che amo?
Perché sono un tale mostro?!”
Sono caduto in ginocchio e Shun si è accovacciato a
terra con me, senza sciogliermi dalla sua stretta ancor più salda di prima… e
io sento liberarsi, da quelle braccia, tutta la forza morale del suo
proprietario.
“Non tu li hai uccisi, Hyoga-kun ma il destino… il
destino si è accanito contro di te, amico mio… mi dispiace tanto… ma tu devi
essere più forte del destino, puoi combatterlo… e se non ce la fai da solo, io
ci sarò sempre, il mio aiuto non ti mancherà mai!”
Ma perché? Cos’ho da spartire io con la più perfetta
delle creature? Perché si impegna così tanto per me?
E’ vero, farebbe lo stesso per chiunque avesse
bisogno di sostegno e calore ma con me è talmente insistente da risultare
spesso soffocante… e la cosa più assurda di tutta questa faccenda è che ancora
non ho capito se mi dispiaccia o meno… la verità è che è talmente adorabile…
Caro amico mio, fratello mio, io non sono in grado
di accogliere la tua generosità e non voglio assolutamente farti del male, non
a te!
E tuttavia sembra non importarti di questo;
qualunque cosa io faccia, tu torni da me, sempre e la cosa mi irrita e, al
tempo stesso, ogni volta lo spero e inconsapevolmente ti attendo… dimmi se non
è follia questa ma di che stupirsi in fondo? Io sono l’emblema stesso della
paranoica incoerenza e a farne le spese sono coloro a cui tengo.
Shun però non mi fa pesare nulla… sono io a far
pesare a lui l’affetto che mi dimostra… o quello che io provo per lui e che a
me stesso non posso nascondere… a lui ne faccio una colpa e per questo mi sento
terribilmente colpevole… non sono forse colpevole della mia stessa nascita?
Mi sforzo di non pensare questo, di non crederlo,
perché significherebbe criminalizzare la persona che mi ha messo al mondo,
colei che amo fino a struggermi di nostalgia nei suoi confronti fin da quando,
io bambino, mi ha lasciato.
Ecco… tutto in funzione loro; ogni mio pensiero,
ogni emozione, gravita intorno ai morti che costellano la mia esistenza e so di
non onorarli in tal modo ma come diavolo posso strappare me stesso da questo
circolo vizioso?
L’abbraccio che ancora mi avvolge è reale, consistente, vivo e io, in preda a singhiozzi che mi scuotono l’anima, mi sto lasciando andare come mai prima d’ora, come non ho mai fatto con nessuno. La sua stretta salda e gentile accompagna il mio sfogo ma la sua bocca non ha detto più nulla: il suo silenzio è come il rassicurante canto di un angelo che mi tiene per mano, conducendomi lungo la strada di luce da lui creata, una strada di puro splendore che attraversa, solitaria, un universo di tenebre.
Lentamente il mio pianto dirotto si placa e ritorna
a galla, impietoso, l’imbarazzo per un crollo emotivo che non ho saputo
prevedere; la parte inguaribilmente orgogliosa di me non mi può perdonare di
avere mostrato a qualcuno la mia debolezza e non può perdonarlo a questo
qualcuno che è riuscito, tramite i misteriosi incantesimi del suo animo
incorrotto, a condurmi a questo punto.
Lo so che voleva solo farmi del bene, perché
sfogarsi con le lacrime tra le braccia di chi è disposto a raccoglierle e a
sostenerti, non chiedendo altro che poterti stare vicino, è da sempre uno dei
rimedi infallibili per combattere i nostri demoni, per lasciarli fluire al di
fuori di noi, in modo che non possano più tormentarci il cuore con i loro
artigli strazianti.
Forse davvero Shun c’è in parte riuscito, forse mi
sento davvero più leggero e libero eppure… non sono dopotutto una persona
assurda? Non sono io stesso a rifiutarmi di stare meglio? E poi c’è quel
maledetto orgoglio che mi costringe a strapparmi un po’ malamente alle sue
braccia e mi impedisce di guardarlo in viso dopo ciò che è appena accaduto…
quello stesso orgoglio che ora vorrebbe veder scomparire da questa stanza il
testimone della mia debolezza e che mi impone di ricacciare fino in fondo al
mio animo nero ogni semplice parola di ringraziamento che il suo gesto
richiederebbe… e tuttavia, se lo conosco bene, il piccolo Shun neanche se lo
aspetta né lo pretende.
Non se l’è presa neanche per il modo sgarbato con il
quale mi sono sottratto al suo abbraccio; l’essenziale, per lui, è che io mi
senta almeno un pochino meglio, un po’ più sollevato.
Come si fa a provare imbarazzo di fronte ad una
persona simile che, con naturalezza estrema, ti invita a condividere con lui i
tuoi pesi?
Ma io sono un essere strano… gli voglio bene e gli
sono grato ma non lo ammetterò mai, non glielo dirò mai e non lo ammetterò
neanche a me stesso… o forse questo l’ho appena fatto?
Riecco la mia colossale follia, incomprensibile
persino per me che, da solo, erigo i miei castelli mentali per raderli al suolo
l’istante successivo.
Percepisco un movimento dietro di me, così leggero
che me ne accorgo appena; Shun è delicato qualunque cosa faccia, i suoi passi
sono lievi come il volo di una farfalla tra i fiori. So che ha fatto quei passi
perché, all’improvviso, sento la sua presenza alle mie spalle. Me ne sfiora
lievemente una, senza toccarla, quasi come se volesse avvisarmi che lui è sempre
lì, pronto a sostenermi ancora e non parla… ma non è un silenzio che mi mette a
disagio, il flusso della sua tenerezza infinita vuole assicurarmi che lui è
sempre al mio fianco… non ha bisogno di parole per esprimersi, per rendere più
efficace la sua positiva presenza.
A mia volta resto muto… tra noi si viene a creare un
lunghissimo istante di sospensione…
SHUN:
Il mio cuore si spezza… so quanto soffre, il suo
dolore scende in me come tenebra liquefatta e bruciante, fa paura l’oscurità
che si porta dentro.
Mi sento così inutile, vorrei fare di più per lui ma non so come comportarmi, le mie risorse stanno per esaurirsi; è così sfuggente, schivo, non vuole che gli stia vicino e questa consapevolezza contribuisce ad aggravare il mio malessere.
Eppure, al tempo stesso, ho la sensazione che con me
si comporti diversamente di come fa con tutti, quasi fossi un privilegiato…
perché? Sono molto confuso, non per i miei sentimenti; io so benissimo cosa
provo e ho imparato ad accettarlo ormai da tempo…
E’ lui a confondermi, il suo atteggiamento così
contorto, complesso; vorrei entrare dentro al suo cuore, fino in fondo ed
estirpare da esso tutto ciò che lo fa soffrire.
E’ convinto di voler stare da solo ma non può, non
può stare da solo, precipiterebbe inesorabilmente verso l’autodistruzione,
senza possibilità di tirarsi fuori dal baratro! Non lo accontenterò, non ho
nessuna intenzione di abbandonarlo a sé stesso, anche se dovesse supplicarmi di
farlo, anche a costo di farmi insultare o di diventare insopportabile ai suoi
occhi!
La cosa essenziale è che lui sia al sicuro e non lo
sarebbe stando da solo… io voglio proteggerlo…
Ho ottenuto che sciogliesse in lacrime un po’ della
sua oppressione e, benché io sia ben consapevole che non è abbastanza, ora devo
rispettare il suo silenzio. Non sta ancora bene, lui non potrà mai stare bene
ma ora non c’è altro che io possa fare e non voglio farmi odiare da lui… come
farei, poi, ad aiutarlo, se lui cominciasse a respingermi con insistenza?
Rimango qualche istante alle sue spalle, fissando la
sua schiena; sono contento che non mi guardi, altrimenti come potrei
giustificargli il mio sguardo? So benissimo cosa c’è adesso nei miei occhi e
non lo posso controllare… non posso controllare tutto l’amore che provo per
lui…
Le lacrime di commozione che non ero riuscito a
trattenere per la sua condizione, si uniscono ora a quelle imputabili al mio
sentimento impossibile, un sentimento che dovrò soffocare, per sempre, sotto la
contraffazione della più profonda amicizia… e ho paura perché non so quanto a
lungo ci riuscirò; fingere non è mai stato il mio forte.
Devo resistere però… non voglio perdere tutto, non
voglio perdere lui!
Soffocando a stento un singhiozzo mi volto e, in
punta di piedi, mi avvio verso la porta, lanciando ancora un ultimo sguardo
indietro quando sono sulla soglia: è rimasto immobile, lo sguardo perso oltre
la finestra, le mani in tasca… non si è accorto del mio movimento o, più
probabilmente, l’ha accolto con indifferenza… si è nuovamente rifugiato nel suo
universo di ricordi che esclude tutto il resto… quell’universo dal quale io
sono e sarò sempre escluso…
Be’… non importa… a me va bene così; non ho mai
preteso nulla di più, non oserei neanche pretenderlo… come potrei? Non lo
merito… tutto ciò che spero è che continui a permettermi di alleviare almeno un
poco le sue angosce… se solo potessi fare di più!
Sorrido, sperando che il mio sorriso, anche se non
può vederlo, possa almeno essere recepito dal suo organismo e che porti un po’
di calore alla sua anima fredda.
Chiudo la porta e, trovandomi solo, il desiderio di
piangere si fa incontenibile; appoggio la schiena al muro e mi lascio scivolare
a terra, raccogliendo le ginocchia sul petto e soffocando tra esse le mie
lacrime.
Mi rialzo quasi subito per raggiungere la mia stanza;
non devo assolutamente rischiare di farmi udire da lui, è essenziale che non mi
veda crollare, ho imposto a me stesso di essere forte per lui. Solo oltre la
soglia della mia camera, in completa solitudine, lascerò via libera alla mia
fragilità.
HYOGA:
Lo so che ha sorriso prima di uscire; ho sentito
quel calore scendermi dentro come miele benevolo e dolce… poi è uscito, senza
che io riuscissi in alcun modo a ricambiare quella dolcezza.
A volte il desiderio di stringerlo, di essere io a
donargli quella protezione e quella sicurezza di cui sono certo che ha bisogno,
è forte, perché lui non è più sereno di me, io lo so, posso intuire quali pene
si celino in quel cuore che, senza sosta, batte per il prossimo e mai per sé
stesso. Ma lasciare libero questo impulso è fuori discussione anzi, quando osa
affacciarsi al mio animo, mi affretto a cacciarlo via, con tutta la rabbia di
cui sono capace, fosse pure rabbia nei suoi confronti. Non saprei neanche dire
se si tratta di egoismo o della semplice volontà di non vederlo troppo
coinvolto con la mia persona…
Sento sorgere sul mio viso un ghigno di autoironia;
quando mai io mi sarei preoccupato dei sentimenti altrui? E’ unicamente
un’odiosa alterigia la mia.
Mi chiedo solo perché non la dimostrassi con Isaac,
perché con Shun sia tanto più difficile accantonarla.
Credo di poter spiegare almeno questo; Isaac sapeva
dominarmi con la sua forza, mentre Shun nasconde la sua sotto un velo di umiltà
che, nonostante io sappia di non averne il diritto, mi spinge ad assumere un
atteggiamento di superiorità, ad approfittare della sua timidezza, per sentirmi
più forte… e tutto perché sono un debole vigliacco!
Ho dato le spalle al suo sorriso, eppure ancora
adesso che è uscito lo vedo, davanti ai miei occhi, così bello, amorevole,
buono… in esso leggo tutto il suo desiderio sincero di vedermi felice…
Perché, Shun?
Rimango a fissare la finestra finchè non sono sicuro
che lui abbia chiuso la porta alle sue spalle. Ho l’impressione di udire un
singhiozzo poco dopo, ma credo sia solo una mia impressione… o forse è il mio
cuore a piangere… in fondo sono un egoista che pensa di essere l’unico al mondo
a soffrire, non è così?
SHUN:
E’ strano che questa volta mi faccia così male; ha
annunciato la sua partenza poco fa, a tavola. Attendevo questo momento con
angoscia, sapevo che sarebbe venuto… da troppo tempo, ormai, non manifestava
questo desiderio di tornare in Siberia.
Non so neanche perché sto tanto peggio del solito…
forse perché temo che, ogni partenza, sia quella definitiva? Se un giorno
Athena non avesse più bisogno di noi cosa succederebbe? Arriverebbe il momento
in cui Hyoga non tornerebbe più qui in Giappone?
In fin dei conti sarebbe normale, stiamo crescendo
e, quando non dovremo più combattere, finiremo per prendere ciascuno la propria
strada… è normale, già… e allora perché il solo pensiero mi terrorizza?
Lo so perché… la mia strada è con loro, solo al loro
fianco e, per quanto brami la fine delle battaglie, non posso immaginare un
giorno in cui la mia vita non sarà a loro consacrata… non accadrà mai per quel
che mi riguarda ma per loro temo sia diverso… per Hyoga lo è di sicuro e io ho
tanta paura di perderlo… e ho paura di lasciarlo solo, io devo restargli
vicino, devo proteggerlo da sé stesso ma come fare se lui va via?
L’illuminazione arriva tempestiva, come il sorriso
che mi compare sul volto, sostituendosi al tormento; come ho fatto a non
pensarci prima? Andrò con lui e non potrà impedirmelo… so che ci proverà ma la
mia decisione è talmente ferma che sono disposto a tutto, sono pronto ad
affrontare anche la sua probabile ira… per lui sarà un’intromissione illecita,
quasi una violenza perché andrò ad invadere quell’intimità di cui è tanto
geloso, lo so e mi dispiace, non vorrei creargli questo problema ma sento che
devo farlo!
Ho appena preso la decisione che già sono in piedi,
attraverso di corsa il corridoio e mi fermo solo davanti alla porta della sua
stanza; e a questo punto la mia proverbiale timidezza si fa sentire, offuscando
per qualche istante la determinazione di poco prima… ma non mi lascerò
sconfiggere dalla mia emotività, non questa volta!
Chiudo gli occhi inspirando profondamente e
deglutisco il grumo di saliva che l’emozione ha bloccato in fondo alla gola
quindi, sollevando il pugno, busso alla porta, dapprima lievemente poi,
acquistando coraggio ad ogni secondo, con più forza e attendo febbrilmente che
mio fratello mi risponda dall’altra parte.
E’ interminabile l’intervallo che intercorre tra la
mia attesa e l’alzarsi di quella voce che mi invita ad entrare, forse un po’
seccata ma a questo punto più nulla mi spaventa.
Infatti balzo dentro senza la mia solita
discrezione, anzi con una certa urgenza che non riesco a mascherare; Hyoga mi
osserva con più attenzione del solito, forse rendendosi conto che non sono lo
stesso Shun di sempre e che, in ogni mio atteggiamento, si nasconde qualcosa di
particolare che non riesce a comprendere… ed è ben lungi anche dal semplice
immaginarlo.
Intreccio le mani dietro la schiena ed assumo
l’espressione più innocente che riesco a trovare, sorridendogli con tutto il
candore che posso, con naturalezza, come se non avessi in mente niente di
strano… ma siccome in realtà mi sento davvero poco spontaneo in questo momento,
temo che ogni cosa, in me, risulti molto forzata… e misteriosa, tanto che Hyoga
si sente portato ad interrogarmi, ben strano comportamento da parte sua:
“Va tutto bene, Shun?”
Annuisco, senza abbandonare la mia espressione da
bimbo ingenuo… o terribilmente furbo, a seconda della prospettiva da cui mi si
voglia osservare:
“Volevo vedere a che punto eri con i preparativi e
se avevi bisogno di una mano.”
Intanto getto un’occhiata al letto, sul quale
troneggia una valigia aperta, già piena per metà; intorno vestiti e tutti gli
oggetti indispensabili ad un viaggio, compresi libri, fumetti e compact disc…
ma tutto sommato è a buon punto.
“Non mi serve nessun aiuto Shun; come vedi ho quasi
finito.”
Annuisco ancora e getto fuori dal nulla una frase
che ha lo scopo di risuonare alle sue orecchie come fatto compiuto, al quale
non gli sia possibile ribattere:
“Meglio così… almeno potrò dedicarmi a preparare i
miei bagagli.”
Smette di colpo di armeggiare sulla camicia che
stava ripiegando e mi scruta, con una vaga curiosità:
“Parti anche tu?”
Mi mordo le labbra; un’ondata di panico mi assale,
per quanto mi fossi psicologicamente preparato, questo momento è terribilmente
difficile da affrontare. Per cui la mia voce esce un po’ esitante quando
rispondo:
“Credo… che verrò in Siberia con te…”
HYOGA:
Io credo che il gelo sarebbe meno freddo della mia
reazione di fronte alla colossale scemenza che Shun ha appena avuto il coraggio
di dire.
Penso se ne renda conto anche lui, perché rimango
pietrificato a trapassarlo con uno sguardo più affilato di un pugnale… davvero,
non vorrei ferirlo ma questo è veramente troppo!
Ci sono solo due possibili spiegazioni a questa sua
trovata assurda: o è completamente impazzito o sta scherzando.
Sto per chiederglielo quando lui mi dà le spalle e,
con un gesto di saluto, si avvia risoluto verso l’uscita, rivolgendomi ancora
alcune parole che, stralunato come sono, fatico a recepire:
“Vado a darmi da fare, ci vediamo più tardi!”
Non ho il tempo di ribattere; lo stupore sembra aver
bloccato ogni mia capacità di reazione. Rimango immobile, inebetito, ad
osservare la sua silouhette che sguscia oltre la porta, richiudendola alle sue
spalle. Dove prima c’era lui, ora c’è solo la porta chiusa che si fa beffe del
mio organismo annichilito.
Quando riesco a sottrarmi all’incantesimo che mi
intorpidisce, la prima reazione che mi viene spontanea è lasciarmi cadere sul
letto, investendo in pieno la custodia di un compact disc che si spezza di
netto, senza che io me ne renda conto… ancora non connetto, la mia mente è
obnubilata dalla più totale confusione.
Cosa dovrei fare adesso? La risposta che mi salta in
testa è la più ovvia: alzarmi, raggiungere la stanza di Shun e chiedergli
immediati chiarimenti… sentirmi rivelare che si trattava solo di una battuta
per prendersi gioco di me, di questo sento il bisogno anche se mi sfugge il
motivo per cui, proprio lui, dovrebbe essersi messo in testa di farmi un simile
scherzo.
Contorcendomi in tali elucubrazioni, finisco per
ritrovarmi, quasi senza essermi reso conto di essermi mosso, davanti alla porta
di Shun e la mia mano è stretta sulla maniglia; ho persino dimenticato di
bussare e Shun sussulta nel sentirmi entrare di colpo. E’ impegnato davvero nei
preparativi per un viaggio, questo significa che non era uno scherzo… ma forse
il fatto di venire in Siberia con me… lo scherzo era quello.
“Shun senti…” esordisco mentre lui mi guarda, con un
vago alone di panico che gli ombreggia il volto dai graziosi lineamenti… e
tutta la mia decisione, davanti a quel viso, si scioglie… se davvero volesse
venire e opponendogli un netto “no” lo ferissi più di quanto vorrei? Perché
improvvisamente mi sento così debole di fronte alla sua tenerezza?
“Senti… quando dicevi che saresti venuto in Siberia
con me… tu… eri serio?”
Non riesco neanche a completare la domanda che, con
un balzo, si porta davanti a me e mi afferra convulsamente le mani; nei suoi
occhi ora si palesa la pura disperazione. Le sue suppliche mi piovono addosso
senza che io riesca a conferire loro un ordine logico, le parole si accavallano
le une sulle altre con un’ansia febbrile… raramente l’ho visto così:
“Hyoga, so cosa pensi, so che non dovrei permettermi
neanche di chiedertelo, per questo non te l’ho chiesto ma non voglio lasciarti
andare da solo e poi io ho sempre desiderato visitare i luoghi che ti hanno
visto nascere, per questa volta non dirmi di no, ti prego, solo questa volta
lasciami venire, giuro che non te lo chiederò mai più!”
Ecco… mi ha totalmente sconfitto, ne sono
improvvisamente consapevole… ora so che non riuscirò a formulare alcun rifiuto…
e perché poi? In fondo perché la sua presenza con me in Siberia dovrebbe
infastidirmi tanto?
E’ il solo fatto che non voglia saperne di lasciarmi
da solo forse che mi irrita profondamente, perché non riesco a capire… non
riesco assolutamente a capire quali realmente siano i suoi intenti… e poi i
miei viaggi in Siberia sono da sempre un rito che richiede assolutamente la mia
completa solitudine… ovviamente è una mia costruzione mentale…
Maledizione a Shun, mi ha gettato in una confusione
imbarazzante! La mia ultima battuta prima di lasciarlo solo è rassegnata ma
gelida:
“Sbrigati a preparare, abbiamo l’aereo prima
dell’alba…”
Mi sarei aspettato un’espressione infelice in
risposta a questo mio tono privo di calore… invece il suo viso si irradia di
una luce colma di gratitudine e felicità… e un po’ di quella luce la sento
scendere nel mio cuore… gli voglio bene ed è terribile, gliene voglio troppo!
Scappo da quella stanza senza aggiungere altro,
chiedendomi in quale guaio mi sia andato a cacciare.