Lo duca e io per quel cammino ascoso
Intrammo
a ritornar nel chiaro mondo;
e sanza cura aver d’alcun riposo,
salimmo sù, el
primo e io secondo,
tanto ch’i’ vidi de le cose belle
che porta ‘l ciel, per un pertugio tondo.
E quindi uscimmo a riveder le stelle.
(Dante Alighieri – Inferno, XXXIV 133-139)
L’ingannevole fragranza delle illusioni
Bardack aveva freddo.
O forse stava bruciando.
Oltre due secoli di permanenza nel buio
fuligginoso del Regno degli Inferi avevano fatto sì che i suoi acutissimi sensi
di saiyan si atrofizzassero, senza che il guerriero
fosse più in grado di capire quali torture stesse davvero subendo il suo corpo.
Ma quale importanza poteva avere, in fondo, tutto ciò? La sofferenza non si era
spenta insieme alla sensibilità dell’epidermide: a volte, aveva persino
l’assurda certezza che il suo cuore battesse e pompasse sangue a una velocità
mille volte maggiore rispetto a quando era ancora in vita. E quello era
senz’altro male: era male perché si sentiva come se le sue debolezze fossero
state messe a nudo; era male perché la sofferenza non era un concetto che
doveva prendere stabilmente posto nella mente di un saiyan;
era male perché mai, in vita sua, si era preoccupato del fatto che il suo cuore
battesse. Ma ce l’aveva mai avuto davvero un cuore? Prima di morire, Bardack non aveva nemmeno idea del fatto che alcuni popoli
sperduti in giro per l’universo attribuissero a quell’inutile muscolo un valore
sentimentale tanto forte. Gli pareva che quelle sciocche creature che si erano
rivolte a lui con quel ma tu non ce l’hai
proprio un cuore? fossero in realtà dei poveri smidollati destinati
all’eterna sconfitta.
Peccato che lui avesse poi subito
quella stessa sorte, e, una volta messo piede in quel funesto regno
ultraterreno, non avesse mai avuto occasione di uscirne fuori.
Come al solito, Napa
era piegato in due dal dolore.
Le urla disperate che uscivano dalla
sua bocca avevano per Bardack il terribile sapore
della sconfitta. Possibile che un guerriero saiyan
non trovasse la forza di reagire a quelle insane torture? Perché non si
rimetteva in piedi da solo, quello sciocco guerriero d’elite?
Le tre campane che annunciavano la
venuta dei messi del Paradiso avevano da qualche minuto dato avvio ai loro
rintocchi.
Era patetico il modo in cui le anime
dannate reagivano ogni volta a quel maledetto evento: urla, grida, corpi
insanguinati che si strusciavano sulle pietre roventi, demoni che si gettavano
tra i ghiacci alla ricerca di un inutile rifugio.
Tutto era inutile, ovviamente, e Bardack lo sapeva; così come lo sapevano il suo principe e
il suo re.
«Stavolta toccherà a lei, principe.
Sarà lei il prossimo ad essere purificato.»
A Vegeta non piacquero affatto le
parole di Bardack. L’orgoglioso, invincibile, potentissimo
principe dei guerrieri saiyan detestava vivere di
illusioni, tantomeno voleva farlo ora che la vita gli era stata tolta. Sapeva
che prima o poi sarebbe accaduto e sapeva anche che forse quella specie di
purificazione sarebbe stata la pena peggiore che avrebbe dovuto subire
all’Inferno; ma Vegeta non era un codardo, né tanto meno un perdente.
Erano più cent’anni ormai che attendeva
il compimento del suo destino. Nel frattempo, aveva perso praticamente tutto: i
suoi figli, sua moglie, la sua potenza. Gli era rimasto solo l’orgoglio,
quell’orgoglio ormai frantumato nella maggior parte dei guerrieri saiyan che si era ritrovato intorno una volta varcato il
confine estremo della vita.
Se pensava a quanto era stato sciocco,
per un certo periodo, nell’aver provato il desiderio di riunirsi al proprio
popolo, gli veniva quasi da ridere. Ma era una risata amara e colma di
autocommiserazione. Gli bastava guardarsi intorno per capire che l’aver perso
il popolo dei saiyan non era stata la peggior rovina
della sua esistenza. No: il vero dramma era stato quello di voler ristabilire
con la propria crudeltà la memoria di quello che credeva essere il popolo
guerriero più potente dell’universo. Poco importava che l’uomo più forte del
mondo fosse davvero un saiyan: Kakaroth
aveva ripudiato il suo popolo fin dal principio; e il tempo, a lungo andare,
gli aveva pure dato ragione.
«Ci ha mai pensato, principe, a come
possa essere il Paradiso?» proferì Bardack, le cui
escoriazioni erano ormai illuminate dalla luce dei messi.
«No, e nemmeno mi interessa saperlo»
sussurrò Vegeta con un filo di voce, mentre affrontava a viso aperto le
creature celesti che si avvicinavano ai dannati.
«Eppure, credevo che lei ci tenesse
alla famiglia che si era costruito su quell’insulso pianeta... Come si
chiamava? Ah, sì, Terra!»
«È colpa di quel traditore di tuo
figlio se sono finito su quell’insulso
pianeta!» proruppe furiosamente Vegeta, mentre la sua bocca, contratta in una
smorfia di dolore, iniziava a sanguinare pece.
L’ondata di fumo densa e vermiglia che
si alzava dal sottosuolo non era sufficientemente scura da impedire a Bardack di scorgere negli occhi del suo principe una
profonda coltre di amarezza e un vacuo senso di rabbia mai pienamente assopita.
Sapeva che Vegeta stava mentendo, più a sé stesso che al suo infimo sottoposto.
Lo sapeva perché, nonostante la sua condanna all’Inferno, Bardack
aveva potuto preservare intatto il dono della preveggenza. Che anche quella
fosse una sorta di punizione? Probabilmente sì; ma in fondo non era poi così
male riuscire a scavare, attraverso la mente, nel passato e nel futuro dei
dannati, anche se quest’ultimo era quasi sempre avvolto dal fumo e inondato dal
sangue.
Quasi, appunto. E per Vegeta, in quel
momento, Bardack vedeva qualcosa di diverso.
«Non ha mai avuto la tentazione,
principe, di andare a curiosare oltre il Serpentone? Non provi a raccontarmi balle… So benissimo quanto lei tenga ai suoi figli e alla
sua donna! Una gran bella donna, tra l’altro… molto
sveglia e intelligente! Non avrebbe potuto
trovarne una migliore sul pianeta Veg…»
«Chiudi quella dannata boccaccia! Che
c’è? Sei forse in combutta con Enma per farmi
innervosire più di quanto già non lo sia?»
Bardack sorrise, si chinò a terra e raccolse
un grumo di sangue uscito dalla bocca del principe. Poi glielo mostrò, godendo
dello sguardo attonito di Vegeta di fronte a quel gesto inconsulto.
«Quando lei era in vita, ha gettato a
terra tutto il sangue che aveva in corpo pur di salvare sua moglie e suo
figlio. Crede che io non lo sappia? Crede che io non sia al corrente del suo
sacrificio contro Majin Bu?
Le sto offrendo un’occasione per rivedere i suoi cari prima che sia troppo
tardi!»
Per la prima volta da quando era
all’Inferno, a Vegeta parve di sentire il suo cuore battere di nuovo. Bulma era sempre nei suoi pensieri: non c’era attimo,
secondo, minuto che trascorresse senza che la mente del principe si rivolgesse
all’unica donna che avesse mai amato. Poco importava che intorno a lui, in quel
luogo dannato, fosse pieno di femmine vogliose e disposte sadicamente a
concedergli le proprie grazie: da quando il suo corpo si era unito a quello di Bulma, il principe non aveva provato più alcun tipo di
desiderio verso altre donne. Gli bastava ricordare i suoi occhi azzurri come il
mare e il suo volto candido e seducente per mettere a tacere ogni minimo
impulso sessuale verso una qualunque altra creatura.
Gli mancava.
Quella donna era stata la fonte della
sua salvezza in terra e della sua breve felicità.
Gli aveva donato affetto, amore,
fiducia, forza, e anche una prole. I volti dei suoi figli apparivano a Vegeta
ancora ben nitidi, nonostante ormai fossero passati svariati decenni
dall’ultima volta che li aveva visti. Sapeva che erano tutti lassù, oltre il
limite del Serpentone. Sapeva che probabilmente potevano già essersi
dimenticati di lui. A che pro, infatti, un’anima beata avrebbe dovuto convivere
con la nostalgia? Non sarebbe stata una punizione anche quella?
«E tu che diavolo vuoi andare a fare in
Paradiso, eh?» proruppe il principe, spezzando il silenzio.
«Niente di particolare, sono solo
curioso.»
Vegeta sputò a terra.
«Ma a chi diavolo vuoi darla a bere?
Ammettilo, sei curioso di conoscere
quel traditore di tuo figlio!»
In parte era vero, ma solo in parte.
Non poteva certo negarlo: da quando
aveva avuto per la prima volta la visione del leggendario super saiyan, la stima nei confronti di quel guerriero di infimo livello si era accresciuta a
dismisura. Poco importava che per un padre quel tipo di atteggiamento fosse da
considerare riprovevole: aveva lasciato che suo figlio fosse spedito su un
lontano pianeta situato chissà dove – questo era vero – ma aveva però fatto in
tempo a pentirsi del suo gesto prima di morire. Ma solo a ragion veduta. Avrebbe voluto essere lui il prescelto. Ci
aveva sperato fin da quando si era reso conto che, pur appartenendo alla
cosiddetta terza classe, aveva una forza fisica decisamente sopra la media.
Eppure, suo figlio lo aveva superato. Era questo il destino di ogni padre
irresponsabile? Forse; e forse non era nemmeno poi tanto empio questo destino
se il fato gli aveva poi dato l’opportunità di sfidarlo.
Si voltò di colpo, ancora avvolto nei
suoi pensieri. Radish era a terra da diverse ore,
ormai. Ammirava la buona tempra di quel figlio dannato: nonostante le pesanti
torture che subiva, a volte riusciva a trovare la forza per mettersi in piedi.
A
volte.
Per quanto Bardack
in vita credette che fosse Radish
il figlio destinato a renderlo orgoglioso, la morte gli aprì gli occhi su
un’amara verità: il suo primogenito non aveva mai raggiunto il suo livello, né
lo avrebbe eguagliato mai. Una delusione, forse; una delusione mitigata
soltanto dalla consapevolezza che un altro guerriero nelle cui vene scorreva il
suo sangue aveva invece ampiamente superato tutti i limiti che la sua
immaginazione aveva potuto prevedere.
Bardack era invidioso di Kakaroth.
Non aveva mai visto nient’altro in lui
se non la reale concretizzazione dei sogni di gloria dei saiyan.
Aveva vendicato la sua stirpe, il suo popolo, la sua gente. Ma la cosa che più
faceva arrabbiare Bardack era che lo aveva fatto
senza aspirare al dominio dell’universo.
Un inetto, insomma; uno sporco inetto
senza un briciolo di consapevolezza delle proprie radici.
Eppure, Bardack
voleva togliersi la soddisfazione, almeno una volta, di guardarlo in faccia. Si
diceva che gli somigliasse molto; i suoi ricordi delle visioni che aveva avuto
in vita non erano sufficientemente nitidi da permettergli di confermare quelle
voci.
I messi erano sempre più vicini. Anche
se la fuliggine dell’Inferno impediva ai dannati di scorgere i lineamenti di
quelle creature celesti, tutti avvertivano sui brandelli infuocati delle
proprie pelli il rapido avanzare di quei folli giustizieri.
Vegeta non era ancora pronto per quel
momento, e solo nell’istante in cui percepì un vento gelido infrangersi contro il
suo volto ustionato, capì che forse valeva ancora la pena lottare per qualcosa.
Aveva fatto di tutto per loro, quando era in vita; perché non provarci di
nuovo, ora che il suo corpo stava marcendo nei meandri degli Inferi?
«Dimmi un po’, Bardack,
tu hai un’idea su come accidenti potremmo fare per uscire di qui?»
«Vagamente, Vegeta, e non sono nemmeno
sicuro che possa funzionare.»
«Perfetto. Muoviamoci allora.»
Un sorriso sghembo andò a solcare il
volto di Bardack. Il principe Vegeta non era un
vigliacco: se all’epoca della schiavitù patita per mano di Freezer fosse stato
lui a governare il popolo dei saiyan, probabilmente
il destino dei guerrieri più potenti dell’universo sarebbe stato molto diverso.
In meno di un batter d’occhio si
alzarono in volo.
Non c’era niente lì intorno che potesse
impedire loro la traversata dell’aere infernale.
Vegeta non aveva idea di cosa avesse in mente Bardack,
né gli pareva davvero possibile che fosse così facile sorvolare i cieli dei
dannati senza incontrare il minimo ostacolo.
In quel momento si chiese perché non
avesse mai tentato prima di allora una simile impresa. Che il suo orgoglio
avesse preso davvero a marcire insieme al suo corpo ormai putrefatto? O magari non
aveva mai davvero creduto di poter bleffare Enma e le
sue fottutissime guardie celesti senza incorre in gravi conseguenze? Rise al
pensiero di aver persino temuto qualche punizione: cosa potevano fargli di più
di quello che aveva già subito? Ah, già… a volte
tendeva a dimenticarlo: le anime dei malvagi, prima o poi, dovevano essere purificate.
I due saiyan
avevano già quasi raggiunto il Serpentone.
Affrontare l’incredibile forza di
gravità che tendeva a comprimere i loro corpi non era poi così difficile per
dei guerrieri che avevano vissuto l’Inferno anche in vita. Poco importava che i
loro arti si stessero lentamente atrofizzando; poco importava persino che il
sudore che grondava dai loro visi fosse misto a sangue e a pece.
L’odore di cane e di puttane si faceva
sempre più forte; la luce dei messi pareva allontanarsi da loro sempre di più.
Ormai Vegeta ne era certo.
«Hai sbagliato i tuoi calcoli, Bardack! Non era ancora il mio turno.»
Il guerriero di terza classe non
rispose; si limitò a proseguire senza sosta la sua folle volata verso l’alto,
verso quel figlio che in vita aveva ripudiato e che ora aveva la curiosità
quasi spasmodica di guardare in faccia.
Erano arrivati.
Sopra di loro, le nuvole giallognole
che marcavano il confine tra i due regni ultraterreni si erano fatte finalmente
fitte e consistenti. Erano reali. Non apparivano più come una lieve chiazza di
luce che di tanto intanto sembrava illuminare gli atri cunicoli infernali:
erano dure, dense, vere.
«Bene, signor genio delle fughe, adesso
come diavolo facciamo a passare dall’altra parte?» proruppe Vegeta notando lo
spessore della barriera creata dalle nuvole.
«Dobbiamo chiamarli.»
«Ma che cavolo stai blaterando, Bardack?»
Il guerriero di terza classe pareva non
stesse nemmeno più ascoltando il suo principe.
Girovagava con lentezza estrema intorno
alla coltre di nuvole che aleggiava sopra la sua testa, come se fosse
ipnotizzato, o completamente fuori di testa.
«Mi stai prendendo in giro, forse? Che
c’è? Le alte temperature che ci sono quassù ti hanno fuso quei residui di
cervello che ti erano rimasti?»
«Si sbrighi, principe!»
«Cosa? Ma di che accidenti stai parl…»
In quel momento, si accorse che la luce
dei messi era tornata a farsi viva.
Bardack lo sapeva, lo aveva sempre saputo! Era
davvero il suo turno, quello. Che razza di contatti aveva il suo infimo
sottoposto con il Regno dei Cieli? Perché doveva pur avere dei contatti con gli
squallidi leccapiedi angelici di Enma se aveva saputo
in anticipo quale fosse il destino del principe dei Saiyan!
«Cazzo, Vegeta! Chiamala! I beati ci
possono ascoltare! È l’unica che possa salvarti; chiama Bulma…
subito!»
Lo fece.
Diede un ultimo sguardo ai messi che si
stavano avvicinando. Sempre di più. Sempre più rapidi. Sempre più luminosi.
La luce di quelle creature lo stava
letteralmente accecando. Gli occhi bruciavano come il fuoco e lacrimavano sangue.
La sua bocca pareva ormai prosciugata dell’ultima goccia di saliva.
«Bu… Bulma…» sussurrò.
«Bulma!» urlò
stavolta a gran voce.
E intanto gli pareva di udire la voce
di Bardack che, ormai ridotta a un flebile sospiro,
invocava suo figlio Kakaroth.
I messi arrivarono.
Erano due; solo e soltanto due. La loro
consistenza pareva fittizia; forse erano completamente nudi, o forse gli occhi
di Vegeta percepivano la loro essenza in maniera difforme.
«Bulma!» urlò
nuovamente il principe.
«Bulma!»
ripeté, a gran voce, per l’ennesima volta.
Uno dei due messi si avvicinò a Vegeta,
ormai completamente immobilizzato da una forza potente e misteriosa che non
riusciva a combattere.
Tremava; forse di paura, forse di
rabbia. Per un attimo ci aveva sperato davvero. Aveva creduto davvero che la
sua donna sarebbe arrivata lì, a salvarlo, come si raccontava in tanti stupidi
romanzi terrestri che piacevano alla sua Bulma.
Già, Bulma.
Che accidenti di fine aveva fatto?
Eppure, era quasi certo di avvertire nell’aria il suo dolce profumo, la
fragranza inconfondibile della candida pelle della sua donna.
«Bulma, santo
cielo, dove diavolo sei finita?» gridò, piangendo e disperandosi, mentre vedeva
il suo giustiziere avvicinarsi sempre di più.
«Sono qui, Vegeta, proprio davanti a
te.»
Un battito. Quella fu l’ultima cosa che
Vegeta percepì prima di alzare il volto verso il messo e scorgere finalmente
nel suo viso i delicati lineamenti della sua donna.
Sulla sua testa gravò per la prima
volta in tutta la sua esistenza – terrena o ultraterrena che fosse – il
terribile peso di un tradimento subito. Era un peso, sì. Non poteva definirsi
una semplice sensazione la frustrazione terribile e inaspettata nello scoprire
che il compito di suo giustiziere spettasse proprio all’unica donna che avesse
mai amato.
Trovò la forza di voltarsi verso Bardack e di scorgere i suoi occhi spalancati di fronte all’elegante
figura del secondo messo: era Kakaroth.
Fottuto destino infausto! Era questa,
dunque, la terribile punizione che spettava ai dannati? Possibile che dovesse
essere proprio Bulma a distruggere definitivamente la
sua anima già dannata?
«Io… io… Mi dispiace, principe. Questo, davvero, non lo avevo
previsto.»
Bardack si accasciò su sé stesso e precipitò
di nuovo verso l’Inferno, senza che Kakaroth cercasse
in alcun modo di frenare la sua rovinosa caduta.
«Che diavolo fai, Kakaroth?
Perché non vai a prenderlo?»
«Non è ancora giunto il suo momento,
Vegeta. I messi prelevano sempre un dannato alla volta.»
La figura di Kakaroth
si dissolse nell’aere, come se si fosse trattato di
un sogno a occhi aperti.
Il principe tentò di riafferlo; urlò e scalciò nel vuoto del cielo infernale nel
disperato intento di richiamarlo indietro.
«Diamine, Kakaroth,
torna qui! Non puoi sparire nel nulla in questo modo! Non puoi prenderti gioco
del principe dei saiyan anche all’Inferno!»
Di nuovo, una luce lo investì.
Il caldo soffocante che aveva percepito
fino a quel momento pareva aver lasciato il posto a una temperatura molto più
mite. Non c’è più traccia nell’aria della puzza di cane e di puttane. Niente
pareva davvero avere i connotati di qualcosa di diabolico.
Il principe aprì gli occhi, lentamente,
come se fosse persino difficile riuscire a compiere quel semplice movimento.
Bulma era davanti a lui, come pochi istanti
prima. Bella nella sua purezza; perfida nella sua incoscienza. Come aveva
potuto Enma manipolare la sua mente a tal punto da
convincerla a fargli del male? E come aveva potuto, soprattutto, prevedere per
i dannati una pena tanto crudele?
Con quel gesto, il giudice supremo
degli Inferi era andato a toccare l’unica fonte di bontà che avesse in qualche
modo smosso l’animo del principe quando ancora era in vita. Era dunque questo
lo scopo di quel dio? Credeva davvero che partendo dagli unici affetti che un
dannato avesse covato durante la sua esistenza terrena la sua anima potesse
purificarsi?
Non aveva alcuna importanza, in fondo.
Qualunque fosse la risposta alla sua ultima domanda, la volontà divina aveva
degli obiettivi ben precisi, e lui, da dannato, non avrebbe potuto far niente
per impedire che si compisse il suo destino.
«È giunto il momento, amore mio. Tra
poco meno di un battito di ciglia dimenticherai ogni cosa del tuo nefasto
passato.»
FINE
Angolo dell’autrice
Alcune piccole precisazioni sono più
che doverose.
Innanzitutto, ho immaginato che Bardack, dopo la morte, conservasse il dono – ricevuto con
intento non proprio benevolo sul pianeta Kanassa –
di predire il futuro. Ho voluto anche
che Vegeta di questa cosa non venisse mai a conoscenza (cosa può esserci di
peggio per un dannato se non la sensazione di essere stato ingannato da un
proprio sottoposto, padre per giunta di un acerrimo rivale?).
Detto questo, è bene anche chiarire la
diversa concezione che i due protagonisti della storia hanno ormai del popolo saiyan: Vegeta ha totalmente smesso di credere che i saiyan siano davvero i guerrieri più potenti dell’Universo.
Il fatto che abbia vissuto altre decine di anni dopo l’estinzione del suo
popolo e che abbia affrontato nemici di gran lunga più potenti di colui che ne
ha provocato la scomparsa, gli ha aperto gli occhi sui limiti della gente del
suo pianeta. Bardack, invece, che comunque è morto
nella consapevolezza che alla fine un rappresentante dei saiyan
– nonché suo figlio – avrebbe distrutto il grande dittatore che li aveva
portati alla rovina, continua a ritenere che i saiyan
siano sempre e comunque, a livello potenziale, i guerrieri più potenti mai
esistiti.
Per quanto riguarda la terribile
punizione che spetta ai dannati, ovviamente mi sono rifatta alla trama del
manga, nella quale Piccolo annuncia a
Vegeta, in procinto di sacrificarsi contro Majin Bu, il terribile destino cui andrà incontro dopo la morte:
dannazione, purificazione e perdita della memoria.
Il fatto poi che a portare a termine la
purificazione siano le anime beate verso cui i dannati nutrano ancora un
briciolo d’affetto dipende solo ed esclusivamente dal mio sadismo. Se punizione
deve essere, infatti, che lo sia fino in fondo! E quale peggior punizione può
esserci se non quella di vedersi condannato alla perdita di sé stesso per mano
dell’unica persona che si abbia mai amato?
Ultima piccola annotazione: la puzza di
cane e di puttane che Vegeta percepisce nell’avvicinarsi al Serpentone ha una
duplice spiegazione. Nella Commedia dantesca il Cerbero del terzo canto dell’Inferno
è un grosso cane a tre teste. L’odore di puttane, invece, si riferisce alla
principessa che vive sul serpentone e che Goku ha incontrato durante la sua
prima traversata.
E con questo, concludo le note,
aggiungendo soltanto – e forse in maniera del tutto superflua – che una parte
della terminologia qui utilizzata è di ispirazione dantesca.
Un grazie a chiunque abbia letto la mia
storia!
9dolina0