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Autore: summers001    17/09/2013    5 recensioni
[Everlak!] [post-Mockingjay; pre-epilogo]
Mi culla mentre io urlo e piango ancora. Mi fa sedere accanto a lui sul divano. Lascia che gli sporchi la sua camicia celeste con le mie lacrime. Mi addormento così quando le mie palpebre sono così gonfie che a mala pena riesco a tenere gli occhi aperti.
Apro appena gli occhi quando sento un rumore in casa. E' Haymitch, è venuto forse per la prima volta a controllarmi dopo mesi, me o le scorte d'alcol che avevo sempre pronte per lui. Tempismo perfetto. Lo scruto nella penombra del sonno, ride di noi e se ne va stringendo qualcosa, una bottiglia, mentre io crollo di nuovo sul braccio di Peeta che arrangio a cuscino.
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa volta sono stesa nel mio letto, non sto dondolando davanti al fuoco. Non ricordo se ci sono arrivata con le mie gambe, non entravo qui da quasi un anno. Mi sono sforzata di lavarmi dopo la caccia nel bagno più lontano da questa camera negli ultimi giorni. Dalla prima volta nei boschi, quella dopo l'ultima, va quasi meglio. Ora riesco a camminare almeno per un paio di chilometri prima di essere costretta a tornare indietro.
C'è molta luce ora, oggi, deve essere tardi. Il suono del telefono mi riporta al mondo più dei raggi di sole stessi. Cerco di ignorare e chiudere gli occhi. Uno squillo, due, tre, dieci. Finisce. Poi ricomincia e smette di nuovo. Non mi va, non mi va proprio. So già chi è.
Devo cominciare col mio elenco per convincermi ad alzarmi, per trovare il coraggio di rientrare nel mondo oggi: Peeta ed i suoi fiori per Prim, Haymitch che ci ha salvati entrambi, Gale che ci ha aiutati a liberarci, Johanna che a modo suo mi ha sempre sostenuta, mia madre che ha curato malati su malati senza pretendere nulla in cambio, Ranuncolo che ora veglia su di me, Sae e l'odore dei suoi piatti nella mia cucina, Thom che quel giorno mi portò fino a casa, il padre di Peeta ed i suoi biscotti, Finnick che si è sacrificato per noi, quella donna di mezz'età che mi porta la posta. Mi ripeto questo ritornello ogni volta la paura del mondo oltre la mia casa mi affoga.
Mi decido, scendo le scale e c'è un piatto con un coperchio, lo alzo e trovo uno stufato di manzo ancora caldo e anche solo dall'odore che emana riconosco le abili mani di Sae e del forno che vive ancora dentro di lei. Sulla mia destra un fagotto invece è avvolto da un panno bianco. Allungo le mani e ci trovo dentro focaccine al formaggio. Ansiosa ne prendo un morso e lascio che la pasta morbida mi si sciolga in bocca e sulla lingua. Peeta.
Nel pomeriggio il telefono squilla ancora. Stavolta lo guardo, lo fisso, mi sfida e forse cedo. Domani risponderò, il mio primo proposito.
Il giorno dopo rispondo.
"Katniss!" sento la voce del dr Aurelius sorpreso, come se non l'aspettasse e non gli do torto. Nessuno dei due emette un fiato per un po'. "Hai voglia di parlare?"
Stringo la cornetta. Forse. No, non ne ho voglia. "Come va, Katniss?"
Ascoltiamo i nostri respiri e per qualche attimo credo si sia addormentato come faceva con me nel Tredici.

 

Stavolta voglio vederli. Mi sveglio prima di loro, riesco a lavarmi addirittura mentre giù nello scarico della doccia vedo colare frammenti di pelle sintetica e il ricambio della mia abbrustolita. Mi frammento ogni giorno di più. Vorrei avere il coraggio di guardarmi allo specchio ma non ce la faccio, mi ricorderebbe ancora di lei. Mi guardo le cicatrici sulle braccia perché in fondo non voglio dimenticare niente di quel momento, e le cicatrici delle cuciture che i medici mi hanno fatto e tento di grattarmele via, mi fermo solo quando il sangue scorre. Mi tocco la testa e scopro che una morbida peluria ha cominciato a crescermi dove prima c'era carne bruciata. Cerco di coprirla con quel che ne rimane. Qualcuno da fuori apre la porta.
Scendo le scale stringendomi nella giacca di pelle di mio padre. Lascio che quell'odore che associo all'infanzia mi protegga. All'ingresso non vedo nessuno, così giro la colonna e trovo Peeta nella mia camera da pranzo. Mi sente e si gira, nonostante sia impegnato.
"Buon giorno!" mi sorride ed ha il tono neutro. Non quello dell'ibrido di Capitol City, né del ragazzo del pane del Distretto dodici.
Le mie labbra sono difficili da aprire, sono rimaste incollate dagli infiniti giorni di silenzio. "Sae?" gli chiedo e devo sembrare spenta anch'io, lettera per lettera.
"Arriva sempre più tardi."
Faccio segno di sì con la testa, mentre lui riprende quel che stava facendo. Si avvicina due tazze, sistema al centro un cesto con pane caldo e recupera una teiera che forse ha portato da casa sua. Non ho mai visto casa sua.
"Volevi andare a caccia?" mi chiede alzando di tanto in tanto lo sguardo verso di me.
"Vuoi che ti porti qualcosa?"
Peeta sorride e comincia a versare un liquido denso e scuro nella mia tazza. Cioccolata. "Mi sono appena ricordato dei tuo scoiattoli e di mio padre." mi dice. Mi siedo al posto che mi ha preparato.
"Scusa." gli chiedo.
Alza gli occhi verso di me, cerca il gridio dei miei e poi fugge come faceva a scuola una vita fa, una guerra fa. "Non fa niente." Mi allunga una tazza, faccio per afferrarla ma lui mi ferma. Immerge un cucchiaino e comincia a girare delicatamente in quella pozza nera e dolce.
"Guarda!" mi suggerisce sorridendo. Dei piccoli biscotti a forma di fiore decorati di giallo, risalgono a galla con il vortice che ha creato sulla superficie. Riconosco la sua mano nel colore, nel disegno e nella forma. Alzo lo sguardo verso il suo che si allontana subito dal mio e si ritrae timoroso di nuovo. Ritrovo ancora le ciglia chiarissime e lunghissime illuminate dal sole. Resto a fissarle quell'attimo di troppo prima di iniziare a mangiare insieme a lui in silenzio.
Perdo la mattina a caccia. Di pomeriggio rispondo ancora al telefono e quando il dottor Aurelis mi chiede come va, io inizio a parlare di una cosa come di un'altra "Ho ripreso ad andare a caccia. Sto bene nei boschi."

 

Cominciare da gesti meccanici. E' questo quello che mi ha suggerito il dottore, lo strizzacervelli come direbbe Johanna. Svegliarsi. Andare in bagno, lavarsi. Colazione. Caccia. Ripulire la selvaggina. Aspettare la cena. Aspettare Peeta. Mangiare. Dormire.

 

Esco di nuovo tutte le mattine. Incontro qualcuno prima del prato. L'erba ricomincia ad infiltrarsi nella terra irrigidita e congelata e nella cenere. Alcuni di loro mi commissionano qualcosa. Chi uno scoiattolo, pesce fresco, more, fragole, cipolle, un po' di basilico. Il treno da Capitol City arriva sempre troppo tardi per i loro bisogni e sembra che nel Tredici si siano un po' viziati. Mi pagano anche e quando io non voglio accettare i loro soldi, loro me li stringono nelle dita. Moltre volte mi ritiro di riflesso a quel tocco, come solo un vincitore può capire. Vado a caccia per tenermi occupata, come Peeta fa il pane ed Haymitch si ubriaca. A volte non riesco a ricordare tutto quello che la gente del mio distretto chiede. Mi ci vorrebbe ancora il braccialetto che dice Mentalmente Confusa attaccato al polso.
Ho iniziato a portarmi un taccuino ed una penna e comincio a scrivere le commissioni di oggi: rosmarino, pesce, patate, colombe.
Riconsegno tutto a fine giornata e con i soldi che ne ho ricavato cerco qualche commerciate alla stazione, dove hanno preso ad accamparsi, vicino ai treni in attesa che il forno riapra. Compro liquore per Haymitch, prima o poi ne avrà bisogno.
L'inverno intanto sta cominciando e si sta portando via anche le mie primule. Ad ogni petalo che cade io parto per la mia irrefrenabile corsa al ricordo, perché non voglio dimenticare niente, perché dimenticare anche solo il gesto che Prim faceva col mignolo mentre scriveva sarebbe un omicidio, sarebbe ucciderla di nuovo. A casa i ricordi mi assalgono vividi. Se muoio me li porto con me nella tomba. Se io muoio Prim muore. Vengo presa dall'ansia e sul mio taccuino comincio ad appuntare cose che credo non debbano essere dimenticate: le mani di Prim sull'uomo ferito dal distretto Otto quando eravamo al Tredici, la sua conoscenza delle erbe che aveva imparato dal libro di mio padre, la treccia bionda, le sue urla che mi chiamavano durante la mietitura, l'orlo della camicia da paperella. Poi viene Rue, la sua furbizia e la sua bontà.
E così una cosa meccanica acquista un senso.
"Voglio scrivere un libro!"

 

Ho cercato foto per tutta casa. Ho chiesto al dottor Aurelius ritagli di giornale, sperando che da qualche parte avrei trovato una piccola immagine di Rue da incollare sul mio libro. Niente. E' stato tutto perso durante la guerra. All'inizio ero eccitata, ho sentito una fretta incontrollabile, questa furia che mi cresceva dentro. Piano piano s'è spenta ed io sono rimasta delusa. Ho gettato quello che avevo scritto nel camino e con l'inchiostro brucio anch'io. Smetterò mia di essere la ragazza di fuoco? Peeta mi ha trovata così, pochi minuti fa. Con le mani nei capelli, le ginocchia sul pavimento ed il resto che non so ancora bene cosa sia.
"Che cavolo stai facendo?" forse devo sembrargli pazza. Forse realmente lo sono, non l'ho mai messo in dubbio da quando tutta quella follia era cominciata.
Gli spiego quello che stavo cercando di fare, quello che per la prima volta da quando sono tornata qui voglio davvero fare, non perché me l'ha detto qualcuno. Non mi è mai sembrato così facile parlare con lui. Non abbiamo davvero molto parlato noi due.
"E' solo questo?" mi chiede. Io annuisco. Solo, come se fosse niente. Ma non glielo dico.
"Vieni con me."
Mi tira su, mi prende il polso nel suo pugno, mi porta al tavolo e mi fa sedere. Si mette accanto a me con una sedia, prende un foglio e la penna con la quale stavo scrivendo ed inizia a tracciare linee morbide. Sta disegnando.
Siamo seduti qui, come un anno e mezzo fa. Lui disegnava piante sul libro di mio padre ed io mi ritrovavo a fissarlo, con l'espressione seria e le mani impegnate, mentre arriccio le dita delle mie sotto al tavolo. Dopo poco inizio a riconoscere il viso di Rue sulla carta e capisco cosa sta facendo per me. Deve essere difficile anche per lui, perché a tratti lo vedo stringere di più quella penna, chiudere gli occhi e scuotere la testa per allontanare una menzogna degli aghi inseguitori.
"Potrei andare a prendere matite e pennelli, verrebbe meglio."
Non mi accorgo neanche che finisce di disegnare finché non alza gli occhi a cercare i miei.
"Mi farebbe piacere."

 

Abbiamo cercato di aggiungere minuto per minuto tutto quello che sapevamo dei nostri primi Hunger Games. Il giorno che arriviamo a scrivere di Prim, che incolliamo una sua foto, che aggiungiamo tra le pagine un nastro di quelli che portava nei capelli, mi sento bruciare. Le fiamme sono ancora attorno a me sulla mia pelle, sulla sua pelle. E' sera, è tardi, l'ora in cui di solito scriviamo e disegnamo. Peeta crea delle cornici colorate e scrive il suo nome a grandi caratteri. Comincio a scrivere, della guerra, di lei, della possibilità di diventare una piccola dottoressa, di quando mi obbligava a fermarci a guardare sempre quelle torte in vetrina. E Peeta sorride perché se lo ricorda anche lui, Prim lo salutava quando sapeva che ci stava fissando. Ed io questo non lo sapevo. Improvvisamente il senso di colpa, non per non averla salvata, per una cosa diversa, per non essere stata più con lei ad ascoltarla, mi prende e non mi lascia. Mi esplode violento, corro via davanti al fuoco in salotto. Vorrei gettarmi tra queste fiamme per rivivere ancora l'ultimo momento in cui so che era ancora viva e tenerla con me.
Sto piangendo, ma Peeta arriva subito dopo. Mi stringe i polsi e li allontana dalla mia faccia e poi mi abbraccia. Mi culla mentre io urlo e piango ancora. Mi fa sedere accanto a lui sul divano. Lascia che gli sporchi la sua camicia celeste con le mie lacrime. Mi addormento così quando le mie palpebre sono così gonfie che a mala pena riesco a tenere gli occhi aperti.
Apro appena gli occhi quando sento un rumore in casa. E' Haymitch, è venuto forse per la prima volta a controllarmi dopo mesi, me o le scorte d'alcol che avevo sempre pronte per lui. Tempismo perfetto. Lo scruto nella penombra del sonno, ride di noi e se ne va stringendo qualcosa, una bottiglia, mentre io crollo di nuovo sul braccio di Peeta che arrangio a cuscino.

 

Stiamo cucinando, questa volta ci provo anch'io. Non tanto perché mi interessi mangiare, quanto più per fare come il dottor Aurelius mi aveva consigliato un mese fa: tenermi occupata. Piove a dirotto, i boschi saranno impraticabili oggi. Questo è uno di quei giorni in cui la vecchia Katniss avrebbe odiato per i morsi della fame. O quello che la Katniss vincitrice avrebbe definito noioso.
Le gocce d'acqua battono violente contro i vetri delle finestre. Il temporale esalta tutti gli odori della terra e delle piante che invadono il salotto di casa mia e si mischiano a quello dolce dello sciroppo per dormire che è rimasto aperto sul camino, memore dei giorni in cui ho dormito davanti al fuoco. Tutto questo mi ricorda qualcosa, mi ricorda l'arena.
Peeta apre la porta d'ingresso tenendo in mano due sacchi pieni di verdure e tuberi che possiamo usare lui per il pane, io per la cena. Si blocca immobile sulla soglia, lascia cadere le buste e si gira di scatto verso di me. I suoi occhi si sono trasformati ed il blu s'è perso nel mezzo di quella massa nera pece che non ero più abituata a vedere.
"Tu maledetto ibrido!"
Fa grandi passi verso di me ed io mi paralizzo, non voglio difendermi, non mi interessa cosa può farmi. Poi si blocca, combatte con i pugni sulla sua testa mentre si piega su stesso. Colpisce il muro e si ferisce, lasciando un'impronta di sangue sulla parete.
"Katniss!" mi chiama, mi supplica, mentre cade sulle sue ginocchia e lotta con la sua versione cattiva per difendere me. La sua voce mi paralizza ancora più che il suo assalto. E' come quando morì nostro padre ed io mi ripresi solo quando vidi Prim avere bisogno di me. Così sta succendo con Peeta. Non riesce ad andare avanti da solo, ha bisogno di qualcuno, più di qualcuno, ha bisogno di me. Nasconde dietro il vecchio Peeta il nuovo Peeta e posso solo immaginare quanto soffra nell'ombra per stare con me, perché io ho bisogno di lui. Quanto devo essere stata egoista da non vederlo?
"Katniss!" la supplica nella sua voce mi colpisce al cuore e lo sento battere di nuovo. Assordante, sono viva e devo restarci. "Katniss, non lascerai che mi prendano ancora, vero o falso?" Gli corro incontro.
"Vero!" gli sussurro avvicinandomelo. Gli prendo il viso tra le mani, gli asciugo le lacrime che stanno scorrendo dai suoi occhi e faccio in modo che si appoggi a me. Gli carezzo i capelli e copro la sua guancia con la mia. "Non lascerò mai che ti portino via da me."
Oscilliamo ancora contro un muro, finché uno dei due prende sonno con gli occhi coperti di lacrime e non so se è lui o sono io.

 

Haymitch approva la mia idea del libro, così come approva la strategia di Aurelius di tenersi occupato. Gli hanno portato delle oche, dice, probabilmente le lascerà crescere nel suo giardino per avere carne tenera un giorno o magari uova fresche, ancora non ne è sicuro.
Facciamo partecipare anche lui al nostro racconto di giochi e morti infinito. Ci parla di tutti i mentori di cui era amico, i tributi che ha visto morire, i parenti che non ha mai più rivisto. Noi scriviamo tutto, asciughiamo i suoi ricordi come spugne e li versiamo sulla carta bianca. Poi è la volta di Peeta e della sua famiglia che non c'è più. Del forno, del pane, dei mille affamati che cercavano tra i bidoni della sua spazzatura, della polvere e del fumo che li avrà soffocati, dei biscotti che suo padre mi diede una volta prima di salire sul primo treno che ci portò nell'inferno. I fogli presto non bastano più e ci fermiamo solo per aspettare il prossimo treno da Capitol City.
"E così alla fine voi due avete ricominciato da dove eravate rimasti!" ci dice Haymitch mentre sediamo per la cena, con quel tono di saccenza e malizia. Deve aver smesso di bere da poco, perché è arrivato barcollando. Abbiamo dall'inizio sospettato che la sua visita fosse spinta dalla mancanza di liquore nella sua credenza.
Odio quando lo fa, quando scherza su me e Peeta, sul fatto che forse siamo davvero gli sfortunati amanti del Distretto Dodici, che tutto quello che aspettavo fosse tornare insieme con lui. Mi fa rabbia. Ed Haymitch lo sa. Mi offende, come se avessi già potuto dimenticare tutto, come se avessi già dimenticato Prim. Lo so che è solo una stupida tecnica per farsi cacciare da casa mia, perché sa che da solo non se ne andrebbe. Eppure mi ferisce ugualmente, usa la mia parte più fragile.
Stringo un fazzoletto nella mano e quando i suoi occhi grigi incontrano i miei, mi alzo d'istinto e sollevo un braccio per tirargli un ceffone, ma Peeta è più veloce di me. Mi afferra il polso, mi rimette a sedere e risolve la situazione.
"Andiamo Haymitch, devo ancora avere qualche bottiglia a casa mia!"
Corro di sopra nel mio letto, mentre loro se ne vanno. Stringo le lenzuola e le mordo arrabbiata, infastidita. Peeta arriva dopo un'ora circa. Mi avvolge i fianchi, mi lascia un bacio sulla spalla e non parla non dice niente. Chiudo gli occhi, li riapro ed è mattino di nuovo.
Le mani di Peeta sono sulle mie braccia, gli sfioro le dita e lo sento irrigidirsi e stiracchiarsi dietro di me. Mi adatto alla luce, mi sfrego le palpebre e mi giro verso di lui che prende a fissarmi ed intreccia le dita nei miei capelli.
"Credi che avesse ragione?" chiedo. Peeta aggrotta la fronte. "Haymitch." Mi spiego.
Scrolla le spalle e mi fa no con la testa. "Non mi interessa!"
Mi guarda di nuovo come se fossi un dipinto, mi incastra gli occhi nei suoi, gioca ancora con ciocche lunghe e scure. Sento una strana ansia venirmi da dentro. Il cuore mi batte a mille e spero solo che lui non possa sentire, anche se vorrei sapere se il suo ha lo stesso ritmo del mio. Mi avvicino di qualche millimetro e lui prende un respiro profondo. Deglutisco a fatica e Peeta mi guarda ancora ed imita il gesto. Le sue mani si stanno facendo più veloci sui miei capelli e si avvicinano sempre di più alla mia testa. L'ansia scompare quando le nostre labbra si toccano incontrandosi a metà strada.

 

"Non ti farà stare male e pensare a loro?" gli chiedo mentre apriamo la porta di legno e vetro di quel nuovo vecchio locale. Scrolla le spalle, non gli importa.
Stiamo ricostruendo la panetteria, o almeno Peeta lo fa, io gli do una mano quando il tremore delle dita non mi fa prendere la mira come vorrei. Lui invece è tornato in forma, solleva sacchi pesanti di calcestruzzo, mattoni e bidoni carichi di una poltiglia grigia. Ha di nuovo le sue quattro mura ed un forno. Oggi facciamo una cosa semplice, il colore, dipingiamo le pareti e mi ha fatto trovare vernice verde brillante, come le foglie d'estate, pronta per essere stesa. E' il suo modo di dirmi che si ricorda, come la cioccolata, che un altro pezzo di me sta ritornando al suo posto nella sua testa, che fa progressi e credo che ne sto facendo anch'io. Mi mette in mano un pennello, un bacio sulla guancia e cominciamo a colorare tutto.
Ritmicamente immergo il pennello nel secchio di vernice, aspetto che anche il manico del pennello diventi verde e lo sollevo. E' allora che lo noto meglio, Peeta. Porta dei pantaloni larghi e blu, sporchi di macchie di colore, polvere e cemento. Una maglietta bianca a mezze maniche, troppo candida, gli avvolge le spalle mentre una macchia di sudore si fa spazio lungo la colonna vertebrale dietro la schiena.
Un istinto che non ricordavo di avere mi fa sollevare il pennello e schiacciarglielo lungo la schiena, colorargli la maglietta come quel muro. Peeta si irrigidisce stupito, si gira prima curioso verso di me e si guarda la schiena colorata.
"Così sei anche tu verde!" gli dico solo scrollando le spalle.
Peeta ride, si lancia verso di me e mi schiaccia addosso, sulle braccia, le spalle, sul viso, le mani sporche di vernice. Mi solleva e mi lascia strisce larghe quanto le sue dita. "Ora siamo in due!"
Mi guardo e scoppio a ridere anch'io. Ridiamo insieme ed è una sensazione calda, bella, che non ricordavo da un anno o due forse. Mi allungo per prendere altro colore, ma cado in avanti e raggiungo il muro fresco. Ci stampo sopra le mie cinque dita, prima di rialzarmi mortificata. Adesso devo ricominciare tutto daccapo. Guardo verso Peeta preoccupata e scopro che sta trattenendo una risata. Il dorso delle dita gli copre la bocca, mentre col gomito s'appoggia all'altra mano che tiene incrociata al petto. Proprio non ce la fa ed allora scoppia. La sua risata mi prende alla sprovvista. Scopre i denti ed ha la voce cristillina. E allora capisco. Era lui che aspettavo, prima di morire.
Mi avvicino silenziosa ed intreccio le mie dita alle sue, Peeta si blocca e mi guarda e basta, lo sguardo si fa serio quando mi avvicino e lo bacio. E lui mi bacia e mi prende le guance e mi sporca ancora di vernice e siamo tutti verdi entrambi, ma non importa. E' un bacio che sembra infinito, sono tanti baci in realtà, ma le nostre labbra non si separano un minuto e più ne prendo meno riesco a sopportare l'idea di privarmene.
E' Peeta allora che si allontana da me, appoggia la fronte alla mia, apre gli occhi e col respiro affannoso mi apre il cuore. "Ti amo, Katniss. L'ho capito, l'ho capito a Capitol City, in mezzo al fuoco."
Rimango ferma, le risate se ne sono andate, questa è una cosa seria. Cosa dovrei fare? Cosa dovrei dire? Peeta è tornato da me, è di nuovo quel Peeta. Troverà di nuovo stupendo il mio silenzio? Le mie parole non dette? Mi rendo conto che il silenzio non basta, che merita di più e vorrei darglielo quel di più. E invece resto zitta, combattuta ed in ansia per le due parole che non riesco a pronunciare.
"Katniss, tu mi ami." mi dice, sussurra e forse capisce quello che mi sta passando per la testa. "Vero o falso?"
Una nebbia improvvisa mi offusca la testa, è come sentirsi nell'arena o anche peggio, di nuovo se sbaglio Peeta si fa male, Peeta soffre. Mi appoggio alla parete perché le mie gambe non mi tengono più e sento il cuore in gola e nella pancia. Allungo una mano tremolante e cerco il suo sotto la maglietta bianca e verde. Lo sento, batte forte e violento come il mio. Mi perdo in quella sensazione strana sotto le dita, modello il mio respiro al suo per avere la forza. Così glielo dico "Vero."

 

Tra un mese c'è la riapertura, due anni dopo la guerra. Ho paura per Peeta, si ricorderà di loro, dei suoi morti ed incolperà me, perché è colpa mia.
"Hai paura?" glielo chiedo a brucia pelo, anche se sa di cosa parlo, devo avergli fatto questa domanda mille volte. Forse quella più spaventata sono proprio io.
"No!" mi risponde in tono di ovvietà.
"Mi dispiace!" so che almeno questo glielo devo. Non gli ho mai chiesto scusa, non gli ho mai detto grazie e nonostante questo è ancora con me, dorme con me, si sveglia con me, vive con me.
Peeta scrolla la testa, si siede sul bordo del letto accanto a me e mi lascia un piccolo bacio sulle labbra. Gli piace farlo ed a me piace che lui lo faccia. Gli tocco il collo e gli rispondo anch'io con un bacio. Uno. Due. Tre. Ho appena smesso di contarli, ma paiono infiniti. Ha le labbra calde e morbide, mentre la sua lingua si muove come una carezza sulla mia. Mi sento agitare e mi prende un bisogno che non ho mai sentito. Una fame strana e antica che ricollego subito all'arena. E' qui ora che capisco che qualunque cosa fosse successa prima, io e Peeta ci saremmo ritrovati comunque nello stesso posto oggi, sul mio letto abbracciati, avvinghiati.
Ci baciamo e ci spingiamo entrambi sul materasso, distesi su un fianco.
"Non deve succedere se non vuoi." Peeta prende aria e mi sposta una ciocca di capelli dietro l'orecchio, mentre mi guarda.
"No, voglio."
Torniamo a baciarci e le sue mani delicatamente scendono sugli ultimi bottoni della mia camicetta, sulla zip dei pantaloni che si apre con un rumore assordante. Mi sfila i pantaloni, li fa scivolare lungo le mi cosce e mi accarezza passo passo ogni centimetro di pelle che incontra. Mi da un bacio sul lato della gamba, poco sopra il ginocchio e torna da me e le nostre labbra si incontrano ancora.
Chiudo gli occhi. Il buio mi regala immagini di Rue e di Prim che giocano insieme nel prato. La polvere, il fuoco, la nebbia sono di nuovo lì, o qui. Finnick cerca di aiutarle, si sacrifica per loro ma è un gesto inutile. Muoiono tutti e tre.
Mi accorgo che sto piangendo solo quando trovo i polpastrelli di Peeta ad asciugarmi le lacrime. E non ce la faccio. Non ce la faccio a fare una cosa che significa vita. Il senso di colpa, perché io vivo e loro no, mi mangia da dentro.
"Scusa." gli chiedo e devo aggiungerla ad un'altra delle tante cose che lui non ha potuto fare per colpa mia. Come riprendere a lavorare con suo padre.
Peeta mi lascia un bacio sulla tempia e con l'espressione più dolce del mondo mi convince che non fa niente. "Non è ancora tempo, Katniss. Succederà. Non devi scusarti!".
Piango silenziosamente e mi rendo conto che ha ragione. Non è questo il momento.
Non lo voglio fare. Io sono viva e Prim non lo è. Era a lei che sarebbe dovuto toccare tutto questo, era lei la ragazzina amorevole che sarebbe potuta essere un'ottima fidanzata, una buona moglie ed una brava madre più in là. Il mio egoismo e la mia miseria mi impediscono ognuna di queste cose, anche la più semplice e non voglio ferirlo di nuovo. Mi stringo a Peeta e lascio che le mie lacrime cadano sul suo petto.
"Non è giusto." Essere viva. Gli sussurro. Con una mano mi abbraccia e mi avvolge per le spalle, con l'altra tira su meglio le lenzuola e mi copre fin sul collo. Si gira verso di me e mi stringe mentre mi da baci sulle guance, sul collo, con la testa tra i miei capelli ed in ogni centimetro di pelle che riesce a raggiungere.

 

Questa mattina il bosco tace. La primavera non è ancora arrivata e devo essere stata imprudente con i miei passi rumorosi che forse sto copiando a Peeta. Decido che è inutile continuare con la caccia. Mi siedo su una roccia, mangiucchio le focaccine che mi sono portata dietro, il prosciutto ed il formaggio che ho trovato nel mio frigo. Da qui riesco a vedere il prato. Comincio a camminare avvicinandomici di nuovo.
La terra che la gente del mio distretto aveva accumulato per seppellire le ceneri è stata appianata dalla pioggia. La montagnella che ci ricordava cosa c'era sotto è scomparsa. E' più di un anno che qui cresce l'erba. Potrebbero essere ovunque sotto quella distesa di verde.
Qui potrebbe esserci Madge, la sua famiglia, il padre di Peeta ed i suoi fratelli, i miei vicini di casa al giacimento, persone che ho conosciuto a scuola, amici di Prim, i compagni con cui Gale ha lavorato per oltre un anno. Mi sposto perché non intendo calpestarli, per rispetto. Mi abbasso sulle ginocchia, porto le tre dita di centro alle labbra, ci lascio un bacio e lo depongo sul terreno.
Anche la terra si sta risvegliando. Alzo gli occhi, vampate di fumo grigio si muovono in onde calde dalla città, la nostra nuova fabbrica è quasi completo. Il distretto dodici sta cambiando in meglio, risorge.
Non si tratta di dimenticare. Nessuno di noi vuole farlo. E' dare un senso a quello che tutti noi abbiamo perso, a chi avrebbe perso qualcosa o qualcuno se fosse ancora rimasto con noi, alla polvere di chi sono piene le nostre scarpe. E' ricominciare, sperare che questa cosa, questa vita, potrà ancora essere buona, potrà ancora essere nostra.
Un soffio del primo vento caldo di primavera mi accarezza la faccia e mi scombina i capelli.

 

Ho ancora paura, forse un po' meno. Ma non piango e sono fiera di me per ora.
Peeta mi prende il viso tra le mani ed appoggia la sua fronte alla mia "Katniss, se tu non vivi sarà come disonorare tutti quanti loro, tutti gli altri che hanno dato la vita per noi, perché chi fosse rimasto avrebbe avuto una vita migliore!" Torna il mio Peeta, è di nuovo lui, il pittore che usa le parole come i colori dei suoi bellissimi quadri.
Sapeva da prima che non gli avrei creduto, è per questo che ha voluto che io ci fossi quando apriva all'inaugurazione della nuova panetteria, per dimostrarmi che sì, gli fa male non avere suo padre qui con lui, che ogni cosa qui lo fa pensare a lui, ai suoi fratelli e sua madre, ma non gli interessa. Lo doveva fare.
E' andato avanti e dietro tutto il giorno con pagnotte e panini, focacce, pizzette, dolcetti che regalava ai bambini. Ho immaginato di essere ancora una ragazzina del Giacimento, di avere ancora fame e di ricevere paste e cioccolattini gratuiti. Sarebbe stato un giorno di festa per tutto il distretto. Sorrideva a tutti ed offriva prezzi speciali. Tutti lo salutavano e lo ringraziavano e gli dicevano che suo padre sarebbe stato fiero, che gli sarebbe piaciuto. Mi sono sentita male per lui, ma Peeta rispondeva sempre sorridendo. Avrei voluto urlare a chi gli si rivolgeva che il signor Mellark era suo padre non lui.
Ed ora che anche l'ultima bambina dagli occhi grigi è stata soddisfatta, chiude la porta e la vetrina e torna da me. Gli faccio sì con la testa, lo so. Ho capito: anche Prim vorrebbe che io vivessi. Anche Prim sarebbe felice se io lo fossi, anche lei vorrebbe che facessi qualcosa. Per me, non per loro. Lo stringo, lo bacio e la fame mi prende ancora. E non so cosa fare, come gestirla, non è come la paura. Forse non devo e basta. Chiudo gli occhi e sotto le sue mani calde lascio che mi prenda. Peeta mi carica con le sue braccia seduta sul bancone. Le nostre labbra si separano solo quando lui mi guarda e me lo chiede silenzioso. Gli rispondo anch'io con lo stesso numero di fiati, afferro il bordo della mia maglietta e me lo tiro sopra la testa. Peeta mi aiuta a metà strada e lancia via poi il tessuto, come se lo offendesse. Mi guarda e resta zitto.
"Sei bellissima, Katniss."
"Non è vero, come puoi pensarlo?" io e le mie cicatrici, la pelle sciolta e cucita come una coperta a quadri, i capelli bruciati, il corpo martoriato dalla fame, dai giochi, le abbuffate. Non sono stupenda, non mi avvicino neanche al livello zero di bellezza.
Peeta mi fa segno di no con la testa. No, non ho ragione. Sì che ce l'ho invece, sono ripugnante. Allungo le braccia sul mio corpo e mi avvolgo la pancia, nascondendogli agli occhi quella riga di pelle rosa brillante che mi taglia in orizzontale. Peeta afferra le mie mani e se le tiene nelle sue. Si abbassa su di me e sfiora quell'orribile riga con le labbra e mi bacia. Sussulto al tocco con le sue labbra. Lo lascio fare finché alza gli occhi su di me. Mi perdo nelle iridi blu dei suoi occhi, mi blocco, lo fisso. Mi batte il cuore a mille. Come si fa ad arrivare fino in fondo così? Col cuore che fa così, che ti impone di fermarti a prendere aria. All'improvviso mi lascio prendere da un istinto che non so da dove tiro fuori. E' come mangiare o dormire, semplicemente naturale, semplicemente ne ho bisogno perché anche lui ne ha bisogno.
Gli afferro la camicia con le mani e stringo a pugno, tirandogliela sopra dalle spalle. Non mi interessano scucitore e bottoni, voglio solo quel capo lontano tra me e lui. Me lo porto addosso e aspetto poi che sia lui a prendere me, perché esattamente ancora non so che cosa fare. Ma Peeta non fa niente. Mi guarda, mi ammira e sta in silenzio. Assaggia con le dita la curva dei miei fianchi e della schiena ma non dice niente. Lui, il ragazzo del pane, il vincitore sempre carico di parole, ora ne è rimasto senza. Sorrido perché non capita mai. Percorro le sue spalle con le dita. Arrivo all'attaccatura dei capelli, dietro alla nuca. Lo solletico in quel punto a cui lui al mio tocco arriccia la pelle. Lo avvicino di più a me e colmo la distanza.
Stavolta l'istinto prende lui, mi sposta una gamba e si addossa a me con un nuovo contatto. Mi bacia ovunque, mi spoglia, mi solletica, mi sorride, mi chiede mille volte se sono sicura. Sì, sono sicura, vero.
Gli dico che lo amo prima che possa farlo lui. Si ferma, mi prende una guancia, mi bacia e mi dice che anche lui mi ama, l'ha sempre fatto. Il suo cuore batte ed il mio pure. Per la prima volta sono felice, lo sono davvero. Peeta è vivo, io sono viva. Lui è mio ed io sono sua.

 

Questa mattina ho deciso di andare da lui in panetteria, tre anni dopo la guerra. Poso l'arco e le frecce a casa, mi avvio con un tacchino morto in mano verso il Forno, che ha riaperto. Lo lascio a Sae e non pretendo niente. Due piatti della sua zuppa magari se vorrà venirmeli a portare a casa mia, ma non ora di sicuro.
Haymitch, che non aveva mai avuto un telefono per più di dieci minuti radicato alla parete, aveva ricevuto una chiamata dio solo sa come. E' venuto ieri sera a trovarci e ci ha detto che ci sarà una sorpresa per noi alla stazione questo pomeriggio. Allora abbiamo deciso che sarei andata da Peeta prima e che insieme avremmo affrontato la nostra sorpresa. Se viene da Haymitch non deve essere niente di buono. Per un attimo ho pensato e sperato che potesse essere mia madre.
In panetteria trovo Peeta circondato da bambini che urlano e saltano felici attorno alle sue gambe. E' una scena buffa e non mi va di interromperla. Sta regalando biscotti e per un attimo immagino me e Prim essere tra loro e tornare a casa con la bocca piena di briciole. Poi immagino un'altra bambina con i suoi capelli ed i miei occhi agitarsi attorno a lui. Scuoto la testa ed allontano il pensiero banale.
Mi avvicino quando anche l'ultimo nanetto se n'è andato. "Allora sei pronto?"
Alza un dito per farmi aspettare, si toglie il grembiule sporco, grida qualcosa al suo collaboratore e chiude la porta dietro di se.
"Cosa immagini che sia questa sorpresa?" mi dice avvolgendo il braccio attorno alle mie spalle. Gli piace farlo, perché finalmente è vero che sono sua, non una finzione televisiva.
Scrollo le spalle perché proprio non ne ho idea.
Quando arriviamo Haymitch è di spalle, parla con una donna, vedo le indistinguibili pieghe di una gonna bianca sulle sue gambe ed un bambino dai capelli biondi appeso alla sua mano. Appena ci avviciniamo capiamo che quella donna altri non è che Annie. Peeta copre i suoi ultimi passi verso di lei correndo, la abbraccia ed oscillano insieme. Si fanno i complimenti, scende a conoscere il piccolo Odair alla sua altezza piegandosi sulle ginocchia. Io sono ancora troppo sorpresa per dire qualcosa. Un altro bambino che ha mai visto suo pare.
Resto timida al mio posto, perché in fondo è colpa mia quello che è successo. E' poi lei a venirmi vicino, sorridermi e carezzarmi una guancia.
Deve esserci una specie di codice tra malati mentali, perché ha capito la mia indifferenza. Mi dice che non devo sentirmi in colpa, che Finnick aveva scelto di venire dopo tutto, perché lui era fatto così. E nonostante ora non ci sia le aveva fatto il regalo più bello, suo figlio, il loro.
Annie resta con noi per qualche giorno, Peeta le offre la sua casa dove ormai non entra più da quasi un anno. Uno strato di polvere s'è depositato su tutti i mobili. La sera che se ne va e torna nel suo distretto Quattro, dove vuole insegnare a Finnick a nuotare proprio come suo padre, trovo Peeta intento a fare qualcosa. Il sole sorgerà tra poche ore ma non sembra stanco, anzi sempre più impegnato. E' piegato con la schiena sul tavolo, ha tirato fuori tutti le tempere che aveva portato in uno scatolone. Macchie di rosa, tutte di una tonalità ed una sfumatura diversa, occupano piatti e bicchieri che ingombrano l'intero piano. Aspetto paziente sulla sedia a dondolo con Ranuncolo sulle ginocchia e mi avvicino solo quando all'alba lui si allontana. Mi da un bacio sulla guancia e va a dormire finalmente. Forse dovrei andarci anch'io, ma la curiosità mi prende, così alzo il sottilissimo foglio di carta che usa per coprire i suoi dipinti freschi. Il libro che stiamo scrivendo è aperto su una pagina qualsiasi, occupata dal ritratto di un bambino dalle guance rosee e dalla mano di Annie che tiene stretta la sua con una fermezza che non avevo notato e di cui non la farei capace, ma immagino che sia quella che ti diano insieme a tuo figlio. La dicitura che ha lasciato sotto è breve. Una sola riga in realtà. La vita continua a fiorire sempre contro ogni previsione.

 

"Katniss, sei ancora la mia fidanzata, vero o falso?"
Sono la sua fidanzata?
Non so da dove siano venuti fuori i suoi pensieri. Se da Haymitch che ha visto proprio questa mattina, o da uno dei sue flash che ha avuto proprio poco prima mentre stringeva i bordi di quella sedia.
"La gente crede che siamo sposati," ci penso un attimo mentre sbadiglio poggiando il capo tra lui e il cuscino bianco "quindi falso."
Chiudo gli occhi. Non c'è mondo migliore dove dormire, dove morire, dove trovare la pace. Il suo abbraccio è caldo e mi accoglie, mi incastro come se quel posto fosse stato sempre destinato a me. Per un attimo mi sento come Ranuncolo che si gira e rigira più volte per cercare quel calore perfetto tra i cuscini e le federe del divano.

"Katniss," mi sussurra poggiando il suo mento sulla mia fronte "forse dovrei mettermi in piedi per chiedertelo," comincio ad agitarmi e devo costringermi a respirare perché so cosa sta per fare. I miei arti sono bloccati con la mano sul suo petto, mentre la sua scivola lungo il mio braccio, cerca la mia e la avvolge tra le sue dita. So già cosa risponderò, non so come lo farò, come dovrei reagire? In fondo non siamo già sposati? Non viviamo insieme da anni? Non ci siamo fatti forza l'un l'altro? E non è questo quello che una coppia sposata fa? Oltre che bambini. Cosa ha fatto mia madre quando arrivò al punto dove sono io ora? Mio padre l'ha accarezzata dolcemente come sta facendo Peeta con me? Cosa si aspetta lui da me?
Peeta disegna cerchietti con il pollice sul dorso delle mie dita mentre prende un respiro profondo. La sua voce si impasta un attimo, deglutisco io per lui. "Vuoi sposarmi?"
Inizio a tremare. Lo voglio? Certo che lo voglio. Alzo la testa e guardo verso di lui, Peeta abbassa il mento, mentre pieghe di carne si arrotolano davanti al suo collo e resto a fissare la barbetta corta e bionda che gli spunta dalla pelle prima di cercare i suoi occhi. Peeta aspetta e non parla. Sorrido perché davvero ha paura che io possa rispondergli di no.
Faccio sì con la testa, mi rendo conto che gli angoli della mia bocca sono ancora tirati verso l'alto ed abbasso allora lo sguardo. Peeta mi accarezza una guancia, sposta una ciocca di capelli selvaggia dietro al mio orecchio e mi tira verso di lui per baciarmi.

 

Abbiamo deciso di tostare il pane e basta tra di noi, come avevamo promesso a Capitol City. Ci sembra un modo più nostro di festeggiare. Sostituiamo le persone che avremmo voluto con i loro ricordi. Ranuncolo è sul divano e ci guarda attraverso le sue pupille sottili da gatto. Haymitch è in ritardo per quella che gli abbiamo detto essere una semplice cena, eppure appena arriva non oscilla, non si tiene lo stomaco per non vomitare: è sobrio. E così sappiamo che ha capito. Per la prima volta mi abbraccia. E' una stretta di coraggio, perché io sono appena riuscita in quello che lui non ha mai provato davvero: ricominciare. 

 



Angolo dell'autore:
Salve a tutti!
E' la mia prima volta in questo fandom, mi sento un attimo spaesata... Da che parte è il bagno?
Scherzi a parte, spero di aver scritto qualcosa di decente. La cosa è maturata molto col tempo, ci avrò impiegato un mesetto. Ah, è una Two-shots, per cui il prossimo è già l'ultimo. In realtà doveva essere una OneShot, ma mi sono venute venti pagine e mi rendo conto sia controproducente pubblicarle in una volta sola! Spero che vi piaccia, il prossimo capitolo tra pochissimo. Vi chiedo recensioni perché questa è come ho detto, la mia prima volta con una Everlak (Peenis, Peetnis ...) e potrei, o meglio dovrei, essere andata OOC e mi piacerebbe sapere in cosa posso correggermi ;)

ps. Vanno bene le dimensioni del testo?

  
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