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Autore: holyackles    17/09/2013    3 recensioni
«Chester's Mill è un posto come tanti altri. O quanto meno, lo era finchè non siamo stati tagliati fuori dal resto del mondo da una misteriosa cupola; invisibile, indistruttibile e totalmente invalicabile. Non sappiamo da dove venga nè perchè sia qui, ma ora che siamo tutti intrappolati, sotto la cupola nessun segreto è più al sicuro.»
Incontrò quegli occhi verde smeraldo, inconfondibili: a quanto pare il suo passato aveva deciso di seguirlo fino a Chester’s Mill. A quanto pare Castiel era imprigionato con esso dietro quel muro. Non poteva fuggire. Era in trappola.
Genere: Erotico, Fluff, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Castiel, Dean Winchester, Un po' tutti
Note: Cross-over, Lemon, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna stagione
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Fandom: Supernatural.
Crossover: Under The Dome.
Pairing: Dean/Castiel.
Chapters: 1/?
Words: 2.839
Summary: «Chester's Mill è un posto come tanti altri. O quanto meno, lo era finchè non siamo stati tagliati fuori dal resto del mondo da una misteriosa cupola; invisibile, indistruttibile e totalmente invalicabile. Non sappiamo da dove venga nè perchè sia qui, ma ora che siamo tutti intrappolati, sotto la cupola nessun segreto è più al sicuro.»
Incontrò quegli occhi verde smeraldo, inconfondibili: a quanto pare il suo passato aveva deciso di seguirlo fino a Chester’s Mill. A quanto pare Castiel era imprigionato con esso dietro quel muro. Non poteva fuggire. Era in trappola.
Note: Mi sono buttata in questa nuova storia, sperando di non lasciarla incompleta. Non credo sarà molto lunga perchè, ahimè!, non ho fantasia e la ruota dell'ispirazione non gira mai nella mia direzione. Ad ogni modo, per leggere questa fanfiction non serve assolutamente aver visto e/o letto "Under The Dome", anzi se non lo avete fatto ancora meglio. Bene, vi lascio al capitolo. Sapete che le recensioni sono la gioia di ogni scrittore, quindi dateci dentro! Peace out, bitches.

DISCLAIMER: I personaggi ecc. non mi appartengono, non ci guadagno nulla.







[01]Even if the sky is falling down





Chester's Mill è un posto come tanti altri.
O quanto meno, lo era finchè non siamo stati tagliati
fuori dal resto del mondo da una misteriosa cupola;
invisibile, indistruttibile e totalmente invalicabile.
Non sappiamo da dove venga nè perchè sia qui,
ma ora che siamo tutti intrappolati,
sotto la cupola nessun segreto è più al sicuro.



Il ticchettio della pioggia era l’unico suono che riempiva l’abitacolo di una Prius argentata, un’auto piuttosto anonima; vi si aggiungeva solo il sibilo del respiro del conducente il cui leggero sbuffo dal naso andava ogni volta a creare una sottile patina di condensa sul vetro.
Castiel allungò la mano destra per alzare la temperatura del riscaldamento. Erano solo i primi di ottobre ma il freddo nel Maine cominciava già a farsi pungente. Non voleva ammetterlo, si era ripromesso che non avrebbe rimpianto nulla della sua vecchia vita ma a Castiel mancava tremendamente il caldo della California; il vento secco, la spiagge chilometriche, l’oceano. Una cosa positiva lo stato del Maine ce l’aveva in fin dei conti: si affacciava sull’Oceano Atlantico.
Castiel provava quasi soggezione quando fissava i suoi occhi su quelle immense distese di acqua, che si perdevano all’orizzonte; il fatto di non vederne una fine lo faceva sentire libero, come se niente e nessuno potessero imporgli dei limiti. I suoi vecchi conoscenti erano soliti scherzare dicendo che i suoi occhi erano diventati così blu a furia di guardare l’oceano, che era un po’ come se avessero assorbito i riflessi e la profondità di quelle acque. Sembrava anche che avessero preso gli anni dell’oceano, a volte apparivano vecchi di millenni, come se avessero assistito a tutta la storia dell’umanità. Erano blu, ma non un blu piatto e uniforme, bastava un piccolo fascio di luce e subito il colore si accendeva, prendeva vita con quei magnifici riflessi luminosi che il sole ricreava però sulle onde dell’oceano. Gli occhi di Castiel erano due pozze d’acqua magnetiche, ti incantavano, ti legavano a loro a tal punto che ti era quasi impossibile distogliere lo sguardo ma soprattutto, quando Castiel posava i suoi sprazzi di oceano su di te, sembrava essere in grado di scrutarti nell’anima. Questa sua particolare caratteristica non aveva tardato a farlo finire in situazioni piuttosto imbarazzanti e intime davanti anche a completi sconosciuti.
Ma Castiel non era in grado di controllare questo suo dono. Lui semplicemente ti guardava e leggeva.
Nonostante avesse vissuto per cinque anni nell’assolata California, la sua pelle aveva mantenuto una tonalità chiara e pallida, quasi nivea in contrasto con i suoi capelli neri sempre arruffati e in disordine. Essa faceva però risaltare le sue labbra, carnose e rosee, tenute sempre leggermente socchiuse, dietro le quali si nascondeva una fila di denti bianchi e dritti. Alto, muscoli non molto evidenti sotto gli strati di vestiti, ma ben torniti.
Castiel era obiettivamente ritenuto un uomo attraente. Con quegli occhioni blu, le labbra piene e i capelli scompigliati a volte aveva l’aria di un cucciolo smarrito ma faceva parte del suo fascino.
La sua Prius aveva appena superato un cartello dipinto di verde e un po’ arrugginito, su cui spiccavano a lettere cubitali bianche le parole “Benvenuti a Chester’s Mill. Stato del Maine. Popolazione: 3,108 abitanti”. E con quel vecchio cartello Castiel disse definitivamente addio alla sua vecchia vita, ai suoi errori, a tutto il male che aveva fatto quando avevo preso quella strada sbagliata. Quella strada non era stata altro che un vicolo cieco, un vicolo cieco però con un precipizio alla sua fine e Castiel era caduto, portando anche qualcun altro con sé. Erano caduti in due ma solo lui era riuscito a ritornare sui suoi passi e riportare le cose a posto. O almeno ci aveva provato, per tre anni aveva cercato di perdonarsi ciò che era successo, ciò che gli aveva fatto ma era ormai diventato un blocco di cemento indistruttibile nella sua mente; faceva di tutto per tenerlo nascosto però ritornava spesso indietro e allora in quei momenti Castiel sentiva come una morsa chiudersi sul suo petto, il respiro gli veniva a mancare, le mani gli tremavano e la testa pulsava quasi stesse per scoppiare.
Se solo avesse potuto avrebbe lasciato la California già tre anni fa, ma voleva finire l’università e diventare medico così avrebbe potuto salvare la vita alle persone; era la sua idea di redenzione per non essere riuscito a salvare quella di vita.

Scosse la testa. No, non voleva pensarci. Non ora che stava voltando pagina, cambiando vita con una laurea di medicina stretta tra le dita. Castiel non era mai stato più felice di firmare un contratto di lavoro per il piccolo ospedale di Chester’s Mill, lontano chilometri e chilometri dalla California. E finalmente eccola, Chester’s Mill, un posto come tanti altri: case una addossata all’altra, con la palizzata bianca e un giardino curato sul davanti attraversato dal vialetto, piccole fattorie e tanto verde. La cittadina era circondata da boschi, tra i quali scorreva un fiume che sfociava in un piccolo lago.
Castiel si immise nella Main Street e parcheggiò di fronte a quella che doveva essere l’unica tavola calda delle cittadina: una costruzione un po’ trascurata, con la scritta “Roadhouse” che lampeggiava in cima, i muri in mattone con qualche crepa, i vasi di fiori all’entrata abbandonati a se stessi, grandi vetrate da cui si poteva vedere chiaramente all’interno. Aveva smesso di piovere, il cielo si stava persino aprendo per lasciar trapelare qualche raggio di sole. Sceso dall’auto stringendosi nel suo trench beige, si avviò verso l’entrata. Si fermò qualche secondo prima di aprire la porta, quasi timoroso di trovare qualcuno pronto ad assalirlo appena varcata la soglia; dopotutto lui era quello nuovo in una cittadina in cui probabilmente i nonni dei nonni già si conoscevano.
«Bastano venti secondi di coraggio», mormorò a se stesso. Era una frase che era solito dirsi anche prima e il più delle volte aveva funzionato, quindi l’aveva mantenuta un po’ come frase di incoraggiamento e un po’ come portafortuna.
Aprì la porta e subito fu investito da una zaffata dolciastra di alcol, misto al profumo invitante di hamburger e crostata di mele, il tutto mescolato con l’odore del legno del grosso bancone che stava a lato. Strano a dirsi ma quell’odore non infastidiva affatto, ci voleva solo qualche secondo per abituarsi al cambiamento data l’aria fresca dell’esterno. L’ambiente era caldo e accogliente, non esattamente una tavola calda, era più un pub dove si poteva mangiare e anche bere al bancone. C’era pure un piccolo palco sul fondo, probabilmente per le serate karaoke; a Castiel venne subito in mente il suo vecchio amico di università, Matt[1], forse l’unica persona che gli sarebbe davvero mancata della sua vecchia vita in California. Si ricordò delle serate passate a bere birra e cantare a squarciagola canzoni degli AC/DC al karaoke, gli strip improvvisati sul palco, la gente che fischiava e applaudiva sotto di loro, Anna che a fine serata si assicurava che tornassero sani e salvi al campus. Le sue labbra si curvarono all’insù, ma in un sorriso triste e un po’ malinconico; adesso era tanto diverso da quella persona, se avesse potuto sarebbe tornato indietro e non avrebbe mai iniziato.

Rimase qualche secondo sulla soglia, quasi a chiedere il permesso di entrare e, non avendo nessuno fatto caso a lui, si sedette ad uno dei tavoli contro il muro. Non dovette aspettare molto prima che una donna sulla quarantina si avvicinasse per prendere le ordinazioni.
La donna lo fissò per qualche secondo, le mani sui fianchi, l’espressione severa ma lo sguardo dolce: era la tipica persona che fa un po’ da mamma a tutti.
«Quindi sei tu quello nuovo. Benvenuto a Chester’s Mill», disse rivolgendogli un ampio sorriso che sinceramente Castiel non si sarebbe aspettato. Annuì, spostandosi nervoso sulla sedia e lisciandosi il trench beige.
«Ehi, occhioni blu, rilassati. E’ normale che tutti sappiano che sei quello nuovo. Sai, qui ci si conosce tutti», un altro sorriso dolce per rassicurarlo.
Castiel si rilassò un poco e allungò la mano verso la donna che aveva tutta l’aria di essere la proprietaria del locale. «Castiel. Castiel Novak», si presentò abbozzando un sorriso.
«Ellen», rispose afferrando la mano dell’altro, leggermente frastornata sentendo quella voce così profonda e calda provenire da uno che aveva l’espressione di un cucciolo impaurito ma si riprese subito, scuotendo appena la testa. «Che cosa ti porto, Castiel?»
«Caffè e un cheeseburger, per favore.»
«Arrivano subito!» gli regalò un altro sorriso rassicurante e si allontanò, sparendo dentro la cucina. Castiel durante l’attesa vagò con lo sguardo, cercando di cogliere tutti i particolari del locale: si concentrò soprattutto su delle foto, alcune di famiglia – c’era quella che aveva appena scoperto chiamarsi Ellen, una giovane e bellissima ragazza dai lunghi capelli biondi, un uomo con un vecchio cappellino bisunto blu scuro e una barba poco curata e un altro sulla trentina, quasi girato di schiena, con il capo piegato all’indietro per le risa, gli occhi chiusi, i capelli corti biondo scuro, era così stranamente familiare… – e alcune di clienti, che mangiavano con un sorriso soddisfatto stampato sul viso. Sul muro opposto, Castiel osservò rapito la vasta collezione di copertine di dischi, alcuni a colori altri in bianco in nero e con un po’ di sforzo riuscì a leggere una scritta nera, scribacchiata velocemente di fianco ad una di quelle copertine: “I can dig Elvis.
Castiel riusciva ad immaginarsi la scena; Ellen che gridava, infuriata, verso chiunque avesse osato imbrattare il muro del suo locale, ma al tempo stesso troppo affezionata a quella persona per cancellarla e così era rimasta lì, con il tempo si era un po’ sbiadita e nessuno ci aveva fatto più caso. Con il suo particolare dono, era già riuscito a tirare qualche traccia sul passato della donna: Castiel era riuscito a leggere nei suoi occhi che aveva perso qualcuno, qualcuno di davvero importante ma che era riuscita a colmare quel vuoto. Castiel immaginò essere il marito.
Passarono dieci minuti prima che vedesse rispuntare qualcuno dalla cucina ma non era Ellen, era la ragazza dai capelli biondi della foto. Si avvicinò al tavolo, un sorriso furbo sul volto.
Dopo che ebbe posato il piatto sul tavolo e riempito la tazza di caffè, la ragazza fece per parlare ma Castiel la anticipò: «Tu devi essere la figlia di Ellen. Molto piacere, Castiel» e allungò una mano verso di lei.
La ragazza la strinse saldamente. «Hey, stai fuori dalla mia testa, Edward[2]», un ghigno appena accennato sulle labbra. «Jo, piacere mio.»
Castiel piegò leggermente il capo di lato, la sua tipica reazione a quando non capiva qualcosa. Aveva sempre avuto qualche problema ad afferrare le battute con particolari riferimenti, perché si era sempre un po’ estraniato dai luoghi comuni della società, quasi come se non vi appartenesse. E poi chi diavolo era questo Edward? Inoltre lui non era entrato proprio dentro la testa di nessuno. «I don’t understand that reference.[3]»
Jo buttò il capo all’indietro e rise sguaiatamente. Castiel ci era abituato; non era la prima volta che qualcuno reagiva in quel modo alla sua buffa – così l’avevano definita tutti – posizione.

Ma la risata di Jo fu interrotta bruscamente, tutto accadde in pochi secondi. Castiel tuttavia non aveva la minima idea di cosa fosse quel tutto: sentì solo la terra tremare sotto i suoi piedi, il rumore di vetri infranti quando la caraffa del caffè scivolò dalle mani della ragazza, le copertine dei dischi cadere a terra, così come la maggior parte delle bottiglie sulle mensole dietro il bancone. Entrambi con gli occhi sgranati per lo spavento, confusione e terrore erano le principali emozioni sui loro volti. Si scambiarono un’occhiata veloce, poi Jo corse in cucina per controllare sua madre e Castiel scattò in piedi, in un batter d’occhio era fuori all’aria aperta. Il suo cheeseburger e la tazza di caffè fumante dimenticati intatti sul tavolo.
Il vento freddo e pungente che ti s’infilava sotto i vestiti era sparito, eppure Castiel non era stato più di mezzora dentro il Roadhouse. Si guardò intorno, perplesso e confuso; vide altre persone sulla strada, la maggior parte in preda al panico che correva senza una meta. Altre invece si erano bloccate a fissare il vuoto all’estremità del piccolo parco, opposto al diner.
Castiel piegò di nuovo il capo di lato: non capiva cosa stava succedendo. Probabilmente c’era stata una lieve – e neanche più di tanto – scossa di terremoto, allora perché quelle persone continuavano a guardare il nulla?
Corse il più fretta in possibile verso quel punto, dove un manipolo di gente si era ormai radunato e da cui proveniva un mormorio sommesso. Il trench gli svolazzava intorno, quasi ad imitare il mantello di un supereroe della Marvel.
Si allineò agli altri ma tenendosi a dovuta distanza, si sistemò sul ciglio della strada, e poi anche lui alzò gli occhi e guardò. Guardò dritto davanti a sé per una manciata di minuti ma non vide niente. Si mordicchiò il labbro inferiore, era spaventato e al tempo stesso curioso di capire cosa diavolo stessero guardando tutti gli altri; sembrava l’unico a non esserci ancora arrivato.
Fece qualche passo in avanti, passi incerti, le gambe quasi tremanti e poi si bloccò, non perché avesse ordinato alle sue gambe di fermarsi, no. Fu bloccato da qualcosa e ci andò letteralmente a sbattere contro, si fece persino male al naso. Indietreggiò, boccheggiando: improvvisamente gli venne a mancare l’aria dai polmoni, sentì la testa pulsare, la vista cominciò ad appannarsi. Cercò un punto a cui aggrapparsi e, non trovando nulla, finì per poggiare la mano su quel muro trasparente. Solo che questa volta al suo tocco rispose una leggera scossa elettrica che lo fece scattare indietro, spaventato; questa si espanse per tutto il suo corpo, la percepì sin dritta nella spina dorsale. Un brivido piacevole, che cancellò l’attacco di panico in pochi secondi.
E poi la sentì: musica. I Metallica per l’esattezza. Si voltò verso la strada per capire da dove provenisse e vide un’auto d’epoca nera, tirata a lucido, la radio ad un volume assordante, che si stava dirigendo – decisamente sopra i limiti di velocità – dritta contro quel muro.
Castiel reagì d’istinto, senza neanche realizzare veramente cosa avesse fatto, almeno fino a quando non trovò le sue gambe a dieci centimetri di distanza dal cofano dell’auto. Poteva ancora sentire nelle orecchie lo stridio degli pneumatici sull’asfalto. Fece qualche passo indietro e per poco non inciampò sui stessi piedi, ma alla fine riuscì a riportare la sua attenzione al muro. Sentì uno strano formicolio alle dita, voleva toccarlo di nuovo.
Fu scosso da una mano che afferrò la sua spalla con un tocco non propriamente gentile, facendolo voltare bruscamente. Castiel poteva vedere le labbra dell’altro muoversi freneticamente ma non sentiva nulla. Era in un fottuto stato di shock: un muro trasparente, proveniente da chissà dove, era piombato lì e aveva tagliato a metà la cittadina, lui si era appena buttato in mezzo alla strada e aveva rischiato di morire spiaccicato sull’asfalto.
Poi uno schiaffo arrivò secco sulla sua guancia destra. Castiel strizzò gli occhi e li sgranò esterrefatto. Finalmente riuscì di nuovo a percepire la realtà intorno sé e riuscì anche in parte a sentire gli improperi dell’uomo.
«…figlio di puttana! Cosa cazzo ti è saltato in mente, potevi farti ammazzare!», sbraitò quello. La voce aveva una cadenza strascicata, probabilmente proveniva dal Texas o dal Kansas.
«Sei molto volgare. E mi hai appena schiaffeggiato», constatò Castiel con il suo solito tono roco e vibrante, massaggiandosi piano la guancia. Gli sarebbe rimasta un’impronta per giorni.
La mano che fino a quel momento era ancora rimasta sulla spalla di Castiel sparì.
«Figlio di puttana…», borbottò solo l’altro.
Castiel portò gli occhi sul suo viso e finalmente potè collegare quella voce ad un viso e quando lo fece, un rantolo di pura agonia sfuggì alle sue labbra.
«Ehi, amico, tutto bene?», la voce era più calma e sembrava davvero preoccupato tanto che la mano tornò a poggiarsi sulla sua spalla, strizzandone appena il muscolo.
Castiel era riuscito a dimenticare il suono della voce – erano passati tre maledettissimi anni dall’ultima volta che l’aveva sentita – ma quel viso, oh quel viso non l’avrebbe mai scordato: i lineamenti, le labbra e il profilo che sembravano essere stati scolpiti da un dio in persona, due occhi di un verde smeraldo brillante con alcune pagliuzze di un verde più scuro e altre dorate, magnetici, bellissimi e con folte ciglia, la linea del naso e gli zigomi con un spruzzo di lentiggini ambrate che si confondevano appena con il colore lievemente abbronzato della pelle.
Gli occhi. Quegli smeraldi. Ecco, quelli non avrebbe potuto confonderli con altri neanche se lo avesse voluto; sarebbe riuscito a distinguerli in mezzo ad altre cento paia di occhi verdi.
Castiel si sentì mancare la terra sotto i piedi. Aveva guidato per miglia e miglia solo per mettere più distanza possibile tra lui e il suo passato, ma a quanto pare non era bastato.

A quanto pare il suo passato aveva deciso di seguirlo fino a Chester’s Mill.
A quanto pare Castiel era imprigionato con esso dietro quel muro.
Non poteva fuggire.

Era in trappola.






*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*°*

Il titolo del capitolo è ispirato alla canzone "Safe And Sound" dei Capital Cities.
[1] Matt Cohen.
[2] Edward Cullen, che immagino conosciate tutti: il vampiro sbrilluccicoso in grado di leggere il pensiero.
[3] Non credo ci siano bisogno di spiegazioni per questa frase. Ho preferito lasciarla in inglese.


   
 
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