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Autore: _Frame_    18/09/2013    2 recensioni
I piccoli difetti che ce li fanno amare diventano delle vere e proprie patologie.
Otto pazienti rinchiusi in un ospedale.
Un ospedale da cui non si potrà più uscire.
Benvenuti alla clinica Welt di Berlino.
Genere: Dark, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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CAPITOLO 16
 
C’è un dolce e delicato profumo di fiori freschi nell’aria. Il vento soffia, facendo turbinare intorno a me quella mistura di aromi che non avevo mai odorato prima. La brezza è ancora fredda, la primavera è solo alle porte, e io stringo le spalle per placare i brividi che mi corrono sulla schiena.
Alzo il naso al cielo e il venticello mi scuote la frangia, scostando le ciocche dei capelli dagli occhi. Nella distesa azzurra – quasi grigia, a dire il vero – le nuvole fluttuano, danzando, gonfie e spumose come grossi ciuffi di panna.
Sento i passi di Gilbert avvicinarsi al mio fianco, strisciando tra l’erba tenera e bagnata di rugiada. Io ruoto la coda dell’occhio verso di lui, senza staccare il viso dal cielo.
Gilbert inarca le sopracciglia, e i deboli raggi di questo sole, ancora così pallido, gli fanno brillare la chioma di un abbagliante riflesso argenteo, quasi metallico.
“Che schifo di posto.” Borbotta lui, inasprendo il tono.
I suoi occhi si accendono. Puntano all’orizzonte, sulle distese dei campi verdi macchiati dai tappeti di boccioli colorati che devono ancora nascere. Lo sguardo di Gilbert sembra quasi volerli incenerire.
“Io non ci voglio stare, qua.” Continua a protestare, stringendo i pungi sui fianchi. “Giuro che me ne ritorno in Germania. Anche a costo di andarci a piedi!”
Io torno a ruotare gli occhi al cielo e socchiudo le palpebre. Un altro alito di vento mi avvolge, ma con più delicatezza. Sembra anche più tiepido, rispetto alla soffiata di prima.
“Se solo non ti lamentassi sempre, Gilbert, forse non ti dispiacerebbe.”
“E invece sì!” Risponde lui, sbattendo un piede a terra. Il tonfo è ovattato, la terra umida lo assorbe tutto.
Gilbert solleva il naso al cielo, imitandomi, e incrocia le braccia sul petto.
“Poi dobbiamo anche imparare questa lingua di schifo e mangiare le cose schifose di questo paese schifoso. È... è...” Trae un profondo respiro dalle narici, serrando i denti. “È tutta una situazione di schifo!”
Io scuoto la testa.
Meno male che non ha ancora imparato quelle parolacce che dicono i grandi. Penso.
Gilbert soffoca un ultimo grugnito che gli fa vibrare la schiena. I suoi piedi tornano a picchiare sul manto erboso, quasi volessero sprofondare nella terra. Si volta di scatto, piroettando su se stesso, e si allontana dietro di me con le spalle basse e i pugni ancora serrati sui fianchi.
Si tuffa nell’ombra della piccola casetta ancora spoglia, con l’intonaco scrostato, tutto da riverniciare, e più di una finestra da riparare. Sui vetri si estendono grosse crepe, come delle ragnatele, che si diramano dagli angoli fino ai bordi. L’edera selvatica si arrampica sui muri, e arriva fino al tetto mezzo sfasciato: le tegole ammuffite sono quasi tutte ridotte a un mucchio di cocci. Le altre sono cadute.
Gilbert alza le braccia e si appiglia al pomello d’ottone. Si getta di peso sulla porta di legno e stringe forte la maniglia, provando a piegarla. Anche io mi volto, ma senza spostarmi da dove sono. Il vento soffia di nuovo, agitandomi i capelli e il colletto mezzo sbottonato della maglia.
“Ehi, Gilbert, aspetta. Non vieni con me ad esplorare?” Gli domando, riparandomi dall’aria con un braccio.
Lui continua a far pressione sul pomello, soffocando mille rantolii in gola.
“Non ci penso... nemmeno.” Sbotta, scollando le dita dalla maniglia.
La serratura scatta e un piccolo spiraglio si fa spazio tra la porta e il muro. Gilbert appoggia una mano sulla superficie lignea, respirando a fatica per riprendere fiato. Volta il capo verso di me e le sue sopracciglia s’inarcano sopra a due occhi imbronciati. Le sue guance si gonfiano, arrossandosi più dei suoi iridi.
“Lascio il divertimento tutto per te. Non ho intenzione di perdere tempo nei campi come uno stupido pastorello.”
Gilbert scivola dietro all’entrata come un gatto, lasciandosi divorare dalla bocca della casa. La porta sbatte, e un pezzo di muro si scrosta, sbriciolandosi al suolo.
Io sospiro, tornando a voltare il capo sui prati che circondano la casa. Una farfallina gialla svolazza davanti alla mia fronte, poi il vento sbuffa di nuovo e la fa sbandare di lato, portandosela via. L’aria fresca e frizzante scuote i rami secchi e spogli di un gruppetto di alberi piantati vicino al recinto che circonda la casetta. S’innalzano al cielo come scheletri ululanti. Le loro ombre si allungano sull’erba, e quelle sagome nere mi mettono davvero paura.
Mi stringo il colletto della maglia intorno al viso, tuffandoci dentro il naso.
Dopotutto... Penso. Non è cambiato nulla.
Di nuovo l’aria fredda che mi avvolge, seminando brividi in ogni fibra del mio corpo. Sento i raggi del sole accarezzarmi la schiena, ma nemmeno loro riescono a placarli.
Anche se qua ci sono i fiori, fa freddo lo stesso.
 
Mi porto una mano aperta davanti alla fronte, appoggiando il dorso tra le ciocche della frangia. Il sole si sta abbassando all’orizzonte, e il venticello fa oscillare i prati fioriti che scuotono mille sfumatura colorate in mezzo all’erba. I raggi dorati schizzano sui campi, come grosse pennellate tracciate di getto, tinte da una tavolozza in cui si sono mescolati solo toni caldi. Le colline si stanno divorando il sole, che ormai non è altro che un semicerchio scarlatto, avvolto da un cielo roseo che si fa più azzurro man mano che sale.
Io arriccio il naso, assaporando ancora una volta il dolce profumo di boccioli appena germogliati. Socchiudo le palpebre, lasciando che la brezza mi fischi dietro alle orecchie.
“Questo potrebbe anche piacermi.” Dico ad alta voce. Tanto non c’è nessuno in giro.
Affondo i passi tra l’erbetta bagnata dalla rugiada, e scendo dalla collinetta reggendomi bene sulle caviglie per non cadere. Sbilancio le spalle all’indietro, e inizio a correre senza rendermene conto. Pianto i piedi al suolo – non voglio rischiare di ruzzolare giù per tutto il prato – e mi lascio scivolare sul prato, distendendo le gambe tra i ciuffi d’erba. Appoggio le mani dietro le schiena, e la rugiada mi bagna tutte le dita. Un brivido mi corre fino ai polsi, ma si dissolve subito.
Sollevo di nuovo il naso verso il cielo che si sta scurendo, man mano che il sole si abbassa. Anche il vento si sta placando, ma l’aria tiepida riscaldata dai raggi si sta raffreddando.
“In fondo non è poi così male, questo posto.” Continuo a dire a me stesso. “Gilbert è proprio scemo. Se solo – argh!”
Un forte colpo dritto sulle costole mi soffoca le parole in gola. Butto fuori tutta l’aria dalle labbra, restando a bocca spalancata. Il peso continua a premere sulla schiena e mi fa gettare le spalle in avanti, verso le punte dei piedi. Mi piego su me stesso come un pezzo di carta stropicciata, e finisco con la faccia premuta in mezzo all’erba ancora prima di riuscire a parare la caduta con le mani. Le braccia mi ricadono sui fianchi, distese vicino alla pancia schiacciata sul prato.
Strizzo i denti e le palpebre, mugugnando qualche gemito di dolore. Il naso mi fa malissimo, e mi è anche entrato qualche granello di terra tra le narici. Il profumo dell’erba mi inebria il cervello, ma la testa mi fa male sul serio. Credo di aver sbattuto una tempia.
Riesco a far scorrere le dita sul cranio, affondandole nei capelli tutti scompigliati. Mi gratto la nuca, e il naso mi si arriccia verso l’alto. Che male.
“Ah, quanto mi dispiace! Ti sei fatto male?”
Una sottile e dolce vocina mi soffia via il dolore dalla testa. Socchiudo un occhio, continuando a premere il palmo della mano sul cranio. Da dietro le ciocche arruffate della frangia vedo rimbalzare davanti a me un paio di piedini nudi dalla pelle lattea e delicata.
“È tutto a posto? Ti sei fatto male?” Continua a chiedermi quella vocina.
Io sento subito il mio volto andare a fuoco. Abbasso gli occhi al suolo, nascondendomi il viso con le braccia avvolte attorno alla testa.
È una bambina! Penso. È sicuramente una bambina!
Affondo il naso tra la stoffa delle maniche, e le dita delle mani iniziano a tremarmi tra i capelli. Tra un po’ mi uscirà il fumo dalle orecchie, ne sono certo. E scommetto che la faccia mi è diventata tutta viola dall’imbarazzo.
“Ehm... n-no... è tutto a posto... io stavo...”
Io mi vergogno davanti alle bambine. Oh, ti prego, vai via! Non so come devo comportarmi!
Sbircio con la coda dell’occhio da dietro le dita intrecciate davanti al viso, e le sue gambe si piegano, mostrandomi le ginocchia.
“Sei sicuro?” Continua a domandarmi lei.
Ha una voce davvero carina. Forse è questa che mi fa battere il cuore così.
Mi rannicchio ancora di più su me stesso, come sperando che lei non senta il martellare continuo sulle mie costole.
Io provo ad annuire, e un borbottare confuso esce dalle mie labbra.
“S-sì... sicurissimo.”
“Ah, davvero? Meno male!” Esclama lei, tutta contenta.
Una mano scende dal suo fianco, distendendosi davanti a me. Io smetto di tremare, e lascio sgusciare il naso fuori dalle braccia annodate. Il suo palmo rivolto verso l’alto si apre ancora di più, e la luce rossa della sera le illumina la pelle. Sembra proprio che mi stia porgendo un raggio di sole. Le dita della sua mano sono sottilissime, bianche come la pelle dei suoi piedi.
Sollevo lentamente il capo, inarcando il collo all’indietro con un movimento lento, timido. Socchiudo le palpebre, riparandomi dalla luce rossa che mi abbaglia dall’orizzonte. La piccola sagoma nera della bambina accovacciata davanti a me inizia a schiarirsi, e i suoi contorni si fanno più nitidi.
“Di solito mi rotolo sempre giù da questa collina, ma non c’è mai nessuno.” Dice lei.
Riesco a vedere un dolce sorriso distendersi sulle sue labbra. Ha le palpebre chiuse, i suoi occhi non emanano alcuna luce. I raggi del sole le coronano la testa come un’aureola. Una bava di vento le agita i capelli – fin troppo corti per una bambina – e un’onda dorata le attraversa le ciocche castane. Un ciuffo sottile e arricciato verso l’alto le danza sopra una spalla, sfiorandola.
Gli angoli della sua bocca si sollevano, distendendo ancora di più il suo sorriso. Le sue dita si allungano verso di me.
“Vieni, ti aiuto ad alzarti.”
Il viso della bambina si schiarisce. La luce del sole cala per qualche secondo, scoprendo ogni suo singolo lineamento.
Socchiudo le labbra, rimanendo senza fiato in gola e con gli occhi sbarrati, affogati nel riverbero solare. Il cuore mi si ferma in mezzo al petto, e il rossore sul mio viso sbiadisce. Una sottile spolverata di rosa mi tinge le guance.
Le sue labbra tornano a muoversi. “Io mi chiamo Feliciano. Il tuo nome qual è?”
 
Mi strofino i pantaloni, ripulendomi da ogni filo d’erba e dai granelli di terriccio rimasti incollati sulla stoffa. Tengo ancora gli occhi bassi, e l’ombra della frangia mi scurisce il viso.
“Scusami ancora se ti sono venuto addosso.” Mi dice Feliciano, intrecciando le mani dietro alla schiena.
Anche lui abbassa la fronte, e un suo piede inizia a strofinarsi sulla caviglia.
“Ma da lassù in cima non sono riuscito a vederti. Poi, una volta che inizi a rotolarti non riesci più a fermarti.” Aggiunge con una sottile risata.
Quella vocina mi fa di nuovo sobbalzare il cuore nel petto. Io volto il capo dietro di me, sperando di nascondere il rossore, e concentro la vista solo sui fili d’erba che si scuotono sotto l’alito di vento.
“Ti... ti ho detto che non importa. È... è tutto a posto.”
“Ah, bene!” Esclama Feliciano.
Piega le spalle in avanti, cercando il mio sguardo che non si fa trovare.
“Non mi hai ancora detto come ti chiami.”
Io mi stringo le spalle, e inizio a giocherellare con le dita annodate sul grembo.
Deglutisco un boccone di saliva che quasi mi strozza. “Ehm... Ludwig. Ludwig Beilschmidt.”
Feliciano solleva le palpebre e sento tutta la luce dei suoi occhi brillare su di me.
“Ah, ma sei straniero. Ecco perché hai quell’accento così buffo!” Esclama ridendo.
Si porta le manine davanti alla bocca, per trattenere il risolino, e i suoi occhi tornano a chiudersi. Peccato.
“Ora provo a dirlo. Vediamo... Ludwig Beil... Biel...”
Le sue guance si gonfiano, diventando paonazze.
“Mhm, è davvero difficile. Pazienza, in ogni caso...”
Il suo busto si sbilancia in avanti, e le sue braccia si allungano verso di me. Le dita delle sue mani si intrecciano con le mie, sollevandomele dal grembo. Quando il suo tocco mi sfiora, il cuore mi rimbalza fino in gola, restando incastrato lì.
“In ogni caso ti chiamerò solo Ludwig.” Mi dice.
Poi, allarga il sorriso. “Diventiamo amici?”
Io scatto sul posto, e sfilo le mani dalla sua presa nascondendole dietro alla schiena. Abbasso la fronte, affondando il mento nel colletto della maglia.
“Ma... ma cosa dici? Ci siamo appena conosciuti.” Borbotto.
Il sorriso di Feliciano svanisce e lui alza gli occhi al cielo, portandosi un indice tra le labbra.
“Mhm, funziona così nel tuo pese? D’accordo, allora...”
Si giunge le mani davanti al petto, riprendendo a sorridere più dei raggi di sole che gli illuminano il viso.
“Allora dimmi tutto di te. Da dove vieni? E da quanto sei qui in Italia? Io abito qua vicino, puoi venirmi a trovare quando vuoi! Ah, però c’è mio fratello che è un po’ scorbutico con gli estranei, ma non è cattivo. Tu hai fratelli? E come mai sei venuto...”
“Ehi, ehi, aspetta. Fermati un attimo.” Gli dico, arricciando la bocca in una smorfia.
La sua parlantina si placa, e Feliciano piega la testa di lato, guardandomi con un’espressione confusa.
Io ruoto gli occhi al cielo. “Non... non posso rispondere a tutte queste domande. Devi farmene una alla volta, altrimenti non so da dove iniziare.”
“Ah, ho capito.” Risponde.
Si porta le mani dietro alla schiena, inclinando il capo verso di me.
“Allora parlerò piano, così staremo più tempo insieme. Ah, però...” Esclama ad un tratto, alzando il naso all’orizzonte.
Il suo volto torna ad intristirsi e una sbuffata di vento freddo gli fa ondeggiare la frangia.
“Il nonno si arrabbierà se tardo troppo, e tra poco sarà buio. Non c’è abbastanza tempo.” Dice con aria sconsolata.
Feliciano raddrizza le spalle, e stringe un pugno davanti al petto. La sua espressione torna a ravvivarsi.
“Facciamo così: rispondi soltanto ad una domanda, va bene?”
Io piego la testa di lato, guardandolo con aria confusa. Abbasso di nuovo lo sguardo.
“Ehm... va bene.” Mugugno sempre con il solito tono di voce.
Feliciano annuisce. “D’accordo. Resterai qua per sempre o sei solo in vacanza?”
Quella domanda mi provoca un tuffo nel petto.
Abbasso le palpebre, e volto il capo lontano dal viso sorridente di Feliciano. Inizio a far sfregare la suola della scarpa sull’erba, scavando un solco sulla terra. Arriccio le labbra, mordendole di tanto in tanto, e inarco le sopracciglia. Gli occhi iniziano a pizzicare.
“Ecco... per sempre.”
Voglio tornare a casa.
“Ah, perfetto!”
Feliciano sembra non essersi accorto del mio cambiamento. Vedo la sua ombra sparire dalla mia vista e correre dietro ai suoi piedi nudi che si sfregano sul prato umido. Ruoto lo sguardo su di lui, scacciando via quei pensieri tristi dalla testa.
Feliciano è già quasi arrivato in cima alla collina, e la sua figura si fa ancora più piccola di quello che è. La luce dorata dei raggi solari lo avvolge e lui alza una mano al cielo, scuotendola in aria come a voler mescolare quei colori che si sfumano intorno a lui.
“Allora ci vediamo domani, mi raccomando!” Esclama.
Si gira di spalle e rimbalza via come un animaletto, di quelli che sono dipinti nei miei libri. Di nuovo il vento che mi accarezza i capelli, di nuovo quel calore che mi colora le guance.
Già... Penso, stringendomi una mano sul petto. Forse non sarà così male, stare in questo posto.    
  
Il cielo è più azzurro del solito, oggi, e ci sono davvero poche nuvole a tappezzarlo. Mi riparo gli occhi con un braccio, il sole splende alto: un disco bianco proprio sopra le nostre teste. L’erba del prato è asciutta, tiepida e soffice, trapuntata da una distesa di fiorellini azzurri che sbocciano come grumi di spilli. La leggera brezza mi rinfresca il viso accaldato, asciugandolo dalla leggera pellicola di sudore che ha già iniziato a sgorgare.
Feliciano salta dietro di me e mi afferra le spalle di colpo, facendomi sobbalzare sul posto. Il suo tocco mi fa irrigidire la schiena, dandomi una scossa che mi penetra fino al midollo.
“Allora, hai capito come devi fare?” Mi domanda con voce squillante. Sembra davvero il tono morbido e gentile di una bimba.
Io deglutisco, guardando la distesa d’erba che scende sotto i miei piedi, scalzi proprio come quelli di Feliciano. Sfrego gli alluci tra di loro, affondandoli nei ciuffi verdi.
“Sì che ho capito. Non ci vuole mica tanto.” Gli rispondo.
Feliciano molla la presa e rimbalza al mio fianco.
“Bene!” Esclama, alzando le braccia al cielo. “Allora vai, tuffati prima tu!”
Il riflesso color miele che ondeggia sui suoi capelli quasi mi acceca.
Guardo un’altra volta sotto di me, facendo scorrere gli occhi fino alla base della collinetta fiorita. Deglutisco e stringo i pugni sui fianchi.
“D’accordo.”
Mi accascio per terra, parando la morbida caduta con i palmi aperti sul suolo. Mi distendo subito su un fianco, abbandonandomi completamente sul manto d’erba. Inizio a rotolare giù per la collina, con gli occhi strizzati e la bocca arricciata. Mi prendo un paio di botte che mi colpiscono sui fianchi e sulle gambe, ma non fanno tanto male. L’erba fruscia sotto il mio passaggio, e le punte dei fili d’erba mi solleticano il viso.
Finalmente la mia corsa rallenta, e apro pian piano le palpebre, riabituando gli occhi alla luce del sole. Mi fermo proprio con la pancia all’aria e la nuca immersa nel prato tiepido. I capelli si devono essere tutti arruffati e sporcati di terra, infatti tutta la testa è un prurito continuo.
Un grillo canta vicino ad un mio orecchio, ma salta subito via. Stringo le dita su un mucchietto di fiori che sbocciano proprio di fianco a me, e i petali azzurri iniziano a spargersi sui miei polpastrelli. Le nuvole si muovono lentamente nel cielo, il vento si è placato, e i raggi del sole mi sfiorano delicatamente la pelle, riscaldandola.
Sento il rumore del ruzzolare di Feliciano farsi sempre più forte. Io prima sono rimasto in silenzio, mentre mi rotolavo giù dalla collina, invece lui sta gridando di gioia.
Scuoto inconsciamente la testa. Si accontenta davvero di poc...
Feliciano mi piomba addosso, e la mia pancia finisce spremuta dalla sua schiena. Io sbuffo, ricacciando un gemito nello stomaco. Feliciano continua a ridere e si lascia scivolare sopra di me, con le gambe distese verso la cima della collinetta e la testa incollata alla mia. Anche lui mi imita, allargando le braccia sui fianchi e mettendosi a pancia insù.
“Te l’ho detto che era divertente!” Esclama, tra un risolino e l’altro.
I suoi capelli mi fanno il solletico alle orecchie.
Restiamo a guardare il cielo in silenzio, cullati dal coro di uccellini che canticchiano mentre ci svolazzano intorno. Feliciano inspira una boccata d’aria e alza un dito al cielo. L’erba fruscia.
“Guarda, Ludwig! Ci sono anche le rondini, ormai la primavera è arrivata del tutto. Anzi, siamo quasi in estate!”
Torna ad abbassare la mano e sospira.
“Anche in Germania ci sono le rondini? E le estati sono così calde?” Mi domanda.
Anche io inspiro, continuando a fissare l’azzurro.
“Sì, le rondini ci sono. Ma le estati non sono così umide. Il clima è un po’ più fresco.”
“Sul serio? Accidenti, speriamo che tu non soffra troppo. Sai, può essere davvero molto, molto caldo, qui.”
Io sospiro, scuotendo la testa tra i fili d’erba.
“Ah, non importa. Resisterò.”
“Bravo!”
Rimaniamo ancora in silenzio, poi Feliciano alza le spalle e le sue braccia si allargano, avvicinandosi alle mie.
“Sono proprio felice che tu stia bene, ora. Quando sei arrivato eri così triste.”
Io sbatto le palpebre, socchiudendo le labbra.
“Ah, sì... è vero.” Rispondo.
“Ora...” Rilasso i lineamenti del viso, e la mia bocca si piega in un leggero ma sereno sorriso. “Ora sto bene.”
Feliciano allarga di più le braccia e anche le sue gambe strusciano sul prato.
“Anche io! Sai, prima mi annoiavo, tutto solo, anche perché Lovino non vuole mai giocare con me. Ma ora che ci sei tu mi diverto un sacco.”
Inclina il collo all’indietro, e la sua testa preme sulla mia.
“Sono davvero contento di averti incontrato.”
Io esito, e roteo gli occhi senza rendermene conto. Provo a muovere le labbra per mettere insieme le prime parole che mi vengono in mente.
“Sì... anche... anche io...” Balbetto con tono basso.
Una ventata di caldo mi annaffia il viso.
Feliciano fa correre le dita sull’erba. Si stanno avvicinando paurosamente alla mia mano.
“Sarebbe proprio bello vivere per sempre così, vero?” Mi domanda con voce calda. “Solo a giocare, guardare il cielo e stare insieme. A me piacerebbe tantissimo.”
Le sue dita s’intrecciano con i fili d’erba, ma io non le perdo di vista.
“Sì, ma... dobbiamo anche crescere, e diventare grandi.” Gli rispondo, con tono traballante. “Insomma, non possiamo trascorrere tutta la vita a rotolarci sull’erba, no?”
“Mhm, forse no.” Risponde lui. “Però possiamo sempre stare assieme, anche solo per guardare il cielo.”
La sua mano scorre, rotola sull’erba come se stesse premendo i tasti di un pianoforte.
“Io sarei davvero triste-triste, se dovessi essere costretto a separarmi da te, ora che siamo amici.”
Il suo tocco mi sfiora, scaricando una scossa che si arrampica fino alla mia spalla. Ritiro la mano con uno scatto fulmineo, avvicinandola al mio fianco. Mi raddrizzo, mettendomi a sedere sull’erba.
“Ah, ho... ho capito.” Borbotto, chiudendomi tra le spalle con le mani intrecciate sul grembo.
Sento Feliciano che si alza, ma io non mi giro verso di lui. Gattona al mio fianco, inclinando il capo in cerca dei miei occhi. Io volto la testa, nascondendo nuovamente il rossore che mi maschera il viso.
“Ora... ora però andiamo a metterci nell’ombra.” Gli dico, tenendo la fronte bassa.
Mi scompiglio i capelli, lasciando arieggiare la testa. Quando ritiro le mani, ho i polpastrelli tutti insudiciati di sudore appiccicoso.
“Sta iniziando a fare davvero caldo, meglio ripararci.”
“Eh? Ma io non sento tanto caldo. Guarda: il sole dietro di noi, i raggi non ci colpiscono direttamente.”
Io scuoto la testa.
“No... non centra. Ho... ho caldo lo stesso.”
Mi alzo da terra, arricciando le spalle e abbassando il mento sul petto. Mi porto una mano sul petto, stringendo la stoffa della maglia fino a stropicciarla.
 
È da ieri che piove, e non ha smesso nemmeno durante la notte. Il cielo è diventato nero, e grossi nuvoloni plumbei vorticano e si divorano tra di loro, ruggendo come belve inferocite.
Affondo i piedi nelle pozzanghere di fango che s’infossano tra le radici degli alberi, facendo schizzare gocce sporche e marroni fin sopra le mie caviglie. Chiudo le palpebre per riparare gli occhi dalla pioggia che mi batte sulla testa, ma l’acqua gronda sul viso, andando ad incastrasi fin dentro le ciglia.
Pessima idea. Penso, portandomi le mani davanti alla fronte, come sperando di placare il diluvio.
Pessima idea, andare nel bosco con la pioggia solamente per le idiozie di Gilbert.
Socchiudo un occhio, strofinandomi la faccia. Il braccio si bagna di tutta l’acqua che grondava dal viso prima che la ripulissi via.
“Rane giganti che nascono dalle pozzanghere, come no!” Urlo ad alta voce.
La pioggia mi bagna tutte le labbra, entrandomi in bocca.
“Quando tornerò a casa mi sentirà!”
Per fortuna manca poco, devo solo passare la collinetta.
L’acquazzone continua a martellarmi sulla schiena. Ormai i vestiti sono fradici, incollati su tutto i busto, fin dietro le spalle. I piedi sono faticosi da trascinare, come blocchi di cemento. Le scarpe si sono appesantite per tutta l’acqua che hanno bevuto.  
Il terreno inizia a risalire, e l’erba scivola sotto le suole in gomma, rischiando di farmi inciampare più di una volta. Raccolgo tutte le energie che mi sono avanzate, risalgo la collina con i polmoni che minacciano di scoppiare e i piedi che sembrano incastrati nella terra.
Mi appiglio con le mani ai ciuffi d’erba che crescono sulla cima, e raddrizzo la schiena, riprendendo fiato. Sollevo il naso verso il cielo plumbeo, lasciando che il diluvio mi annaffi per bene. Tanto, più bagnato di così...
I rivoli d’acqua scorrono in ogni centimetro della mia pelle, infilandosi sotto i vestiti e tra i capelli come un abbraccio di mille tentacoli. Mette i brividi.
Torno ad aprire lo sguardo e abbasso la fronte, sperando di riuscire già ad intravedere la mia casetta.
Il cuore mi sobbalza nel petto, le palpebre si sgranano, rivelando due occhi allucinati, traballanti di confusione. Lo scrosciare della pioggia è l’unico suono che riesco a sentire.
Faccio un passo in avanti, lento e timoroso, e sollevo una mano dal fianco allungando le dita verso la sagoma nera di Feliciano, immobile davanti al cielo tempestoso. È in piedi, di profilo, con il naso alzato e gli occhi coperti dalla frangia incollata sulla fronte.
“Fe... Feliciano...” Provo a chiamarlo con un filo di voce.
Lui volta il capo, e le ciocche scure, inzuppate d’acqua, si scostano dal suo viso. Un occhio gonfio e lucido, arrossato dalle lacrime che si confondono con i rivoli di pioggia, si posa su di me.
Io mi sento schiacciare, quasi mi stesse seppellendo vivo, quello sguardo.
Feliciano socchiude le labbra bianche.
“Ludwig.” Mormora. Quel suono sembra quasi un sospiro.
Si volta verso di me, sbilanciandosi in avanti con le spalle. Feliciano inizia a correre, affondando le scarpe nelle zolle di prato annegate nell’acqua piovana. Sembra quasi che i suoi piedi stiano prendendo a schiaffi la terra.
“Ludwig!” Esclama, e i capelli gli si scostano del tutto dalla frangia.
Le guance sono arrossate, e anche la punta del naso lo è, ma quel che avanza della pelle è bianco come un lenzuolo. La sua bocca si deforma in un lamento straziante, quando mi chiama.
Io sento una morsa stringermi il cuore. Non l’ho mai visto piangere, fino ad ora. È davvero terribile.
Feliciano allunga le braccia verso di me, e io ho solo il tempo di fare un minuscolo saltino sul posto, prima di ritrovarmi completamente avvolto dal suo abbraccio. Lui stringe le dita attorno alla stoffa dei vestiti incollati sulla mia schiena, spremendo fuori qualche goccia di pioggia. Tuffa il viso sul mio petto, e il mio mento finisce immerso tra i sui capelli bagnati.
Feliciano inizia a strofinarsi, avvolgendosi ancora di più attorno a me. Sta tremando come una foglia.
“Ludwig... è suc... è successa...” I singhiozzi gli soffocano la voce.
Le sue spalle saltellano ogni volta in cui prova a pronunciare una sillaba.
“Ai... aiuta... mi. È successa... una cosa...”
“Ca-calmati, Feliciano.” Gli dico, posandogli le mani sulle spalle.
Io mi scollo lentamente dal suo corpo, arretrando di un passo. Piego il capo verso di lui, continuando a stringere sulle sue spalle.
“Devi calmarti, Feliciano. Altrimenti non riesco a capirti.”
Feliciano si strofina il naso, poi passa il braccio su tutto il viso. L’acquazzone torna subito ad innaffiarlo. Feliciano si lascia scappare un altro rantolio confuso tra i singhiozzi, poi trae un respiro profondo buttando fuori l’aria dalla bocca.
“Ieri è... è successa una cosa bruttissima. Sono venuto qua perché... perché volevo vederti e... e...”
Affonda la faccia tra le mani tremolanti, rituffandosi in quel pianto straziante. Senza rendermene conto, inizio a tremare anch’io, facendo traballare le sue spalle ancora strette sotto le mie mani.
“Dimmi... dimmi cos’è successo.” Balbetto, provando ad indurire il tono.
Feliciano riemerge dalle sue dita, e le fa passare sulle palpebre un paio di volte, prima di riprendersi.
“Ieri, delle persone hanno portati via Antonio. Sono venuti a prenderlo con delle auto strane, e non è ancora tornato a casa. Io non so se...”
“Aspetta.” Lo interrompo. “Vuoi dire il ragazzo che abita nel boschetto? Quello da cui va sempre tuo fratello?”
Feliciano annuisce, singhiozzando un paio di volte.
“Sì. Io... io non so cosa sia successo, ma credo che sia stato il nonno a dire a quelle persone di andarlo a prendere. Era arrabbiato, e anche adesso continua ad essere agitato. Ma... ma Lovino è...”
Abbassa la fronte, irrigidendosi come un blocco di marmo tra le mie mani. Una raffica di vento gelido ci travolge, flagellandoci con le gocce dell’acquazzone.
“Lovino è distrutto.” Continua Feliciano, ma la sua voce riprende a traballare, strozzandosi in gola.
“È da ieri che non mangia. Ho provato a chiedergli cosa sia successo, ma non mi vuole dire niente. Ha iniziato ad aggredirmi e si rifiuta di parlare. Il nonno ha detto... ha detto che...” Un altro singhiozzo che lo soffoca. “Ha detto che potrebbe aver bisogno di un dottore, ma io non so perché. È successo tutto dopo che hanno portato via Antonio e lui... lui è...”
Feliciano torna a tuffarsi tra le mie braccia, stringendomi con una forza che non credevo potesse venire fuori da un corpicino così esile e fragile.
“Ludwig, io non voglio che portino via anche te.”
La sua bocca è immersa nel mio petto, e la sua voce è soffocata. Il cuore inizia a martellarmi, e credo che anche lui lo stia sentendo. Tutto il calore di Feliciano si espande a macchia d’olio sulla mia pelle, fino alla punta dei capelli.
Io abbasso le mani, rimaste rigide a mezz’aria fino ad adesso. Gli sfioro i fianchi, freddi e bagnati, ma le dita non si appoggiano.
“Feliciano...” Gli dico, ammorbidendo il tono. “Perché dovrebbero portarmi via? Non c’è nessuno motivo.”
“Lo so. Ma non c’era alcun motivo nemmeno per portare via Antonio.” Mi risponde lui, premendo la fronte su di me.
“È per questo...” Continua, facendo scorrere le dita sulla mia schiena. Di nuovo quel tocco che mi stringe in una scossa.
“È per questo che io non ho mai detto a nessuno di te. Sapevo che il nonno si arrabbiava quando Lovino si incontrava con Antonio, e non volevo che si arrabbiasse anche con me. Io ho...” Tira su col naso, riprendendo fiato. “Io ho fatto promettere a Lovino di non dire mai nulla. Lui era l’unico a saperlo, perché glielo avevo detto la prima volta in cui ti ho incontrato. Lovino non ha mai detto nulla al nonno, ne sono sicuro, lui non infrange le promesse. Ma ora... ora che è ridotto così...”
Il suo petto preme contro il mio, la sua testa spinge sotto il mio mento, costringendomi ad alzare il capo. Feliciano arriva addirittura a schiacciarmi i piedi, per sentirsi più vicino a me.
Questo suo abbraccio mi mozza il fiato. Resto imbambolato, con gli occhi sgranati e le labbra aperte, mentre lui continua ad infradiciarmi col suo pianto.
Il mio cuore riprende a battere, martellandomi il petto al ritmo dei singhiozzi di Feliciano. Poso le mani sulla sua schiena, e anche io stringo le dita, richiamandolo più vicino a me. Le mie mani strisciano sulla stoffa bagnata dei suoi vestiti, e le braccia s’intrecciano correndo fino sulle sue spalle.
“Stai tranquillo.” Gli dico.
Premo una guancia sul suo capo, facendogli appoggiare il mento su una mia spalla.
“Non ti lascio. Non vado da nessuna parte.”
La pioggia continua a cadere, e la lacrime di Feliciano continuano a sgorgare.
 
 
Il sole ha quasi smesso di tramontare. I raggi dorati si specchiano sul tappeto erboso che avvolge la collina. L’aria tiepida della sera mi accarezza il viso, rilassandone i lineamenti.
Getto lo sguardo al mio fianco, sulla giacca di pelle verde ammucchiata sul prato. Sollevo le spalle.
Probabilmente non servirà, non fa ancora così freddo. Penso.
Inarco il collo all’indietro, lasciandomi travolgere dalla luce del sole morente.
“Ludwig, Ludwig!”
Socchiudo un occhio, ma vedo solo il cielo roseo sfumato di rosso.
Feliciano si appoggia sulla mia schiena, stringendo le mani attorno alle mie spalle. Si sporge in avanti e la mia nuca finisce affondata nella sua pancia.
“Dai, andiamo a fare una corsa! Solo una volta, giù per la collina!”
Io apro tutti e due gli occhi, e inarco le sopracciglia storcendo il naso.
“Non è il caso, Feliciano. Mettiti seduto e stattene tranquillo.”
“Uff, come sei rigido.” Sbuffa, dandomi una spinta sulla schiena.
Io sono irremovibile, incollato al suolo. Feliciano non smette di far pressione, facendo strisciare i piedi sul suolo ma senza spostarmi di un millimetro.
“Dai, alzati, Ludwig!” Insiste, iniziando a piagnucolare.
Io ruoto gli occhi al cielo, e sbilancio leggermente la schiena di lato, inclinandomi al mio fianco. La mani di Feliciano scivolano dalle mie spalle e lui perde l’equilibrio, andando a sbattere con il naso per terra.
Riamane spiaccicato al suolo con la pancia riversa sull’erba e la faccia tuffata tra i fili mezzi ingialliti. Rantola qualche lamento, poi volta il capo all’indietro, verso di me. Il suo viso si è arrossato.
“Mi hai fatto cadere.” Frigna.
Io sospiro, abbassando le palpebre.
“Così impari a startene buono.” Gli dico con voce ferma. “Dovresti iniziare a tenere degli atteggiamenti un po’ più seri e modesti.”
Feliciano emette un altro lamento e si trascina carponi di fianco a me. Si mette seduto, con il viso rivolto all’orizzonte e le gambe piegate, richiamate al petto.
Io alzo una palpebra. “Non siamo più bambini.”
So di parlare solo per me, ma non importa.
Feliciano sbuffa, appoggiando il mento sulle ginocchia. Il ciuffo arricciato gi cade sulla spalla.
“È che... pensavo di trascorrere ancora un po’ di tempo insieme, prima... prima che tu...”
Il suo tono si affievolisce, e lui non riesce a terminare la frase. La sua bocca scompare tra le braccia fasciate attorno alle gambe.
Io inarco un sopracciglio e sposto gli occhi dalla sua figura china, immersa tra i raggi rossastri proiettati dall’orizzonte. Lo sguardo mi torna a cadere sulla giacca. La croce di ferro emette una pallida scintilla che risplende dal groviglio di stoffa.
“Non... non starò via molto. Sono solo pochi mesi, lo sai. E poi...”
Sollevo il naso al cielo, rilassando i lineamenti del viso. I caldi raggi solari mi accarezzano le guance.
“È un mio dovere, non posso rinunciarci. Ma tornerò presto, te l’ho già detto.”
“Sì, lo so.” Borbotta Feliciano.
Le sue spalle si arricciano, ingobbendogli la schiena. Feliciano stringe le braccia ancora di più attorno alle ginocchia, e l’ombra della frangia gli nasconde gli occhi.
“È solo che... che dopo che hanno portato via Lovino, io...”
Aggrotto la fronte, voltando il capo verso di lui. Feliciano rimane in silenzio, con il viso nell’ombra.
“È ancora tanto grave?” Gli chiedo.
Lui alza le spalle, senza muovere la testa.
“I dottori hanno detto che è un caso difficile, che gli studi fatti su quel tipo di malattia sono ancora troppo approssimativi. E non sanno...” Sospira, e la sua schiena si gonfia. “E non sanno come trattarlo.”
Il suo respiro è l’ultimo suono che esce dalle sue labbra, ancora più debole del fruscio del vento che passa tra i fasci d’erba. Feliciano sospira di nuovo, e i suoi occhi si schiudono da sotto la frangia. Puntano il sole.
“Ludwig, mi rimani solo tu, capisci? E se... se ti dovesse succedere qualcosa...”
Io inarco le sopracciglia, arricciando un angolo della bocca.
“Ma dai, cosa... cosa vuoi che mi succeda? Non parteciperò nemmeno alle missioni d’assalto. Sono in una botte di ferro.” Gli dico, ammorbidendo il tono.
Feliciano torna a stringersi le spalle, e i piedi frusciano sul manto d’erba.
“Sì, ma... ma ho paura lo stesso.”
Io abbasso le palpebre, scuotendo la testa.
“Sciocchezze.” Gli dico.
Getto tutto il peso sulle mani appoggiate dietro di me. Inarco la schiena all’indietro, lasciando che il cielo rosso mi divori la vista.
“Tu aspettami, e io tornerò.”
“Eh? Ma io te lo prometto, Ludwig!” Esclama Feliciano.
Io ruoto la coda dell’occhio verso di lui. Ha alzato la testa dalle ginocchia e la sua fronte è aggrottata. Non riesco a decifrare il suo sguardo, però.
“Io ti prometto fin da subito che ti aspetterò, dovessero passare centinaia di anni. Te lo giuro! Però, tu...” Si china sul prato, tendendo il collo verso di me. “Però tu mi devi promettere che tornerai. Non importa quando, ma devi prometterlo.”
Le sue sopracciglia s’inarcano, e i suoi occhi iniziano a vacillare, lucidi come biglie.
“Non importa quando, Ludwig, perché io ti aspetterò per sempre, ma tu torna!”
Io esito e sbatto un paio di volte le palpebre. Abbasso lo sguardo, sospirando.
“Feliciano...”
“Promesso?”
Alzo gli occhi, e Feliciano mi tende il mignolo, allungandolo verso il mio petto. Lo muove come per invitarmi a stringerlo.
“È una promessa?” Mi ripete lui, chinandosi di più.
Arriccio le labbra, guardando il suo piccolo dito con la fronte aggrottata.
“Dai, Feliciano, non...”
“È una promessa?” Insiste. Ha anche alzato il tono, ma lo ha reso solo più stridulo.
Io ruoto gli occhi al cielo, e sollevo una mano dal fianco piegando il gomito vicino al petto. Alzo anche io il mignolo, ma con un gesto restio, tenendolo accanto a me.
“Ehm... d’accordo.” Borbotto, tenendo lo sguardo in disparte.
Sento subito il dito di Feliciano avvolgersi attorno al mio. Il tocco delicato stringe, e non molla la presa, come se avesse paura di lasciarmi andare.
“Promettimi che tornerai.” Dice, ma la sua voce s’intristisce.
Mi giro verso di lui, e Feliciano ha chinato il capo verso terra, nascondendo di nuovo gli occhi dietro alla frangia. Il mignolo non molla.
“E io ti prometto che ti aspetterò.”
Rimaniamo in silenzio. Una vena pulsa attraverso il dito, e sento il battito scorrere come una scossa sulla mia pelle.
“Promesso.” Gli rispondo, sospirando.
Ora sono io a stringere la presa, sollevando le nostre mani fin davanti al viso.
“Tornerò, te lo prometto.”
 
Sì, sono proprio...
Le nostre dita si separano, le mani tornano a posarsi delicatamente sul prato, vicino ai nostri fianchi.
... un bugiardo cronico.
 
***
 
Il cielo è lo stesso del giorno in cui se n’è andato. Stesso sole morente, stesse nuvole arancioni sfocate all’orizzonte.
Appoggio le braccia sulle ginocchia, lasciandole ciondolare verso il basso. Strappo un fiorellino blu dal prato e inizio a rigirarmi il gambo tra le dita. Sfioro delicatamente i petali, ormai sono quasi chiusi perché è sera, stando attento a non sciuparli. Uno stormo di rondini cinguetta sopra la mia testa, svolazzando via verso il tramonto inoltrato. Le sagome nere degli uccellini si sovrappongono al disco arancione che sta svanendo dietro alle colline.
Sospiro, alzando gli occhi al cielo.
Ancora qualche minuto. Penso. Resto ancora qualche minuto e poi dovrò tornare a casa, altrimenti il nonno si arrabbierà.
In ogni caso, domani sarò qui di nuovo.
Inarco il collo all’indietro, di getto, quasi sperando di trovarmelo di spalle. E magari lui è stato tutto il tempo lì, e io guardavo nella direzione sbagliata.
Nulla. Solo un’altra distesa d’erba che si alza fino in cima alla collinetta.
Sospiro di nuovo, abbassando le spalle, e il fiore mi cade dalle dita che si schiudono lentamente. Il mio sguardo torna a posarsi sul tramonto rosso come il fuoco. Appoggio una guancia su un ginocchio, piegando la testa di lato.
Il cielo non scapperà via. Quando Ludwig tornerà, potremo guardarlo insieme tutte le volte che vorremo.
Abbasso le palpebre, e il mio respiro rallenta. Mi sono quasi lasciato cullare da quella luce così forte, ma anche così calda, che mi avvolge come un abbraccio. Affondo il viso tra le braccia, nascondendolo fino alla punta del naso, e rimango in silenzio ad ascoltare solo il volo delle rondini e il canto di qualche grillo.
Un debole fruscio sull’erba, in lontananza, mi fa aguzzare l’udito. Socchiudo una palpebra, restando in ascolto di quello sfrigolio che si trascina sull’erba spruzzata di rugiada. Il suono si avvicina, diventando più forte, e anche il terreno intorno a me sembra vibrare. Smetto di respirare. Sembrano proprio dei passi.
Ancora più vicino, e il ritmo dei tonfi accelera.
Il cuore mi si ferma in mezzo al petto. Sgrano entrambi gli occhi, rimanendo paralizzato, seduto sull’erba, fino a che una scossetta al cervello non mi riattiva. Raccolgo tutto il fiato che posso e, senza nemmeno pensarci, mi volto di scatto con il cuore gonfio di speranza. Ha ripreso a battere.
“Lud...!”
Avvito il busto, ma le parole mi muoiono in bocca. Le  ringoio subito, ricacciandole in fondo allo stomaco. I battiti cessano, sento come se il cuore affondasse in fondo alla pancia.
Sollevo gli occhi al cielo, percorrendo con lo sguardo i due uomini impalati davanti a me che mi guardano dall’alto. Le loro pupille ruotano su di me, coperte dall’ombra dei cappelli verdi abbassati sulle loro fronti.
Io socchiudo le labbra, rimanendo senza fiato. Hanno gli stessi vestiti di Ludwig, verdi, con tutte quelle targhette appiccicate sopra. I reggi del sole le fanno scintillare, quando i loro petti si ingrossano.
Non riesco ancora a muovere un muscolo.
Uno di loro si toglie il cappello, e l’ombra scompare sul suo viso. In compenso, solo ora noto le ombre nere che si allungano su per la collina, dietro di loro, come paurose sagome nere. L’uomo che si è tolto il cappello trae un sospiro da naso e si inumidisce le labbra.
Herr Vargas, suppongo? Herr Feliciano Vargas?”
Io sbatto le palpebre un paio di volte, ma dalla mia bocca escono solo dei rantolii confusi. Poi deglutisco, cercando di inumidirmi la bocca completamente secca, e annuisco.
Scatto in piedi, rotolando di fianco sull’erba. “S-sì.”
Mi do una spazzolata ai pantaloni, e qualche ciuffo d’erba vola via, ricadendo sul prato.
“Sì. Sono... sono io.”
L’uomo annuisce e raddrizza le spalle.
“Bene. A casa sua non la trovavamo e ci hanno detto che l’avremmo potuta incontrare qui. Herr Vargas, io sono il generale Zimmerman.” Indica il suo collega, quello che è rimasto tutto il tempo in silenzio. “Lui invece è il colonnello Schuster.”
Il colonnello accenna solo un gesto del capo, forse non sa l’italiano. Il generale ha un accento tedesco marcatissimo, ma riesco a capire tutto quello che dice.
Però mi sono già dimenticato i loro cognomi.
Io inizio a giocherellare con le dita sul grembo. La pelle inizia a sudare e i polpastrelli sono tutti scivolosi.
“Ehm, posso... posso fare qualcosa per voi?” Domando con un filo di voce. Mi sento già soffocare.
Il generale inspira un’altra boccata d’aria, gonfiandosi il petto.
“Siamo qui per conto del maggiore Ludwig Beilschmidt, Herr Vargas.”
Il mondo inizia a girare. Piego leggermente le spalle in avanti e allargo le dita sui fianchi, come per tenermi in equilibrio. Sono costretto ad appoggiare più volte i piedi sul prato, per evitare di cadere.
La voce del generale si ovatta, la sua figura inizia ad offuscarsi insieme a quella del colonnello. Ma lui continua a parlare.
“Ci era stato riferito dallo stesso Herr Beilschmidt che, se gli fosse capitato qualcosa, lei sarebbe stato informato per primo, Herr Vargas.”
Mi porto una mano sul petto, e stringo la stoffa della maglia quasi a volerla lacerare. Ma le dita tremano troppo. Chino la fronte, tentando di nascondere il mio sguardo vacillante.
Avrei voglia di urlare. Avrei voglia di accasciarmi a terra e di liberare il grido che sto cercando di trattenere in gola. Inarco la schiena, e deglutisco un altro boccone di saliva amara.
“Una settimana fa, il maggiore ha subito un grave infortunio, ed ha riportato un forte trauma cranico...”
Ormai non li vedo più. Sono solo macchie malamente stese davanti al cielo carico di fiamme ardenti come l’inferno.
“... è per questo che è stato trasferito all’ospedale civile di Berlino ovest, dove è tutt’ora ricoverato , ma... sta bene, Herr Vargas? È pallido.”
Il mondo si ferma. Riprendo a respirare, ossigenando ogni fibra del mio corpo. Il sangue riprende a scorrere, sento le vene del collo pulsare e battere fino alle orecchie. Alzo lo sguardo, guardando i due uomini con gli occhi lucidi e la bocca aperta. Il labbro inferiore mi trema.
“Ricoverato?” Anche la voce continua a traballarmi. “Vuol dire che... che è ancora vivo?!”         
Il generale si inumidisce di nuovo le labbra, e bilancia il peso sui piedi, ricomponendosi.
“Sì, Herr Vargas.” Risponde, traendo un sospiro. “Herr Beilschmidt è vivo ma, come le ho detto prima, ha subito un forte trauma e...”
“Voglio vederlo!” Esclamo, chiudendo i pugni sul petto.
Mi avvicino ai due uomini di qualche passo, tendendo i collo verso il generale.
“La prego, mi dica...” Deglutisco. “Mi dica come posso andare da lui. Devo vederlo, capisce?”
Il generale e il colonnello si scambiano una veloce occhiata. Il generale ruota gli occhi verso di me e pronuncia qualche parola in tedesco che io non capisco. Mastica velocemente quella frase, come se avesse paura che io possa capirla. Il colonnello annuisce, e anche lui dice qualcosa in tedesco.
Ludwig mi ha insegnato un po’ la sua lingua, ma questi due parlano in maniera incomprensibile.
Il generale raddrizza di nuovo la schiena, e si gonfia il petto.
“Possiamo scortarla a Berlino, Herr Vargas. Possiamo anche portarla all’ospedale dove alloggia il maggiore.”
Io scatto, poi annuisco deciso facendo scrollare i capelli davanti alla fronte.
“Sì, sì, la prego.”
Anche lui annuisce e torna ad inumidirsi le labbra. “Molto bene. Devo avvisarla, però...”
I suoi occhi mi scrutano con una luce strana. Quelli del colonnello sono ancora completamente nascosti sotto l’ombra del cappello.
“Devo avvisarla che presto Herr Beilschmidt potrebbe essere trasferito in un’altra struttura.”
Io inclino la testa di lato, ancora tremante d’impazienza. Il generale è calmo e composto, invece. Freddo come un blocco di ghiaccio.
“Ci impegneremo per metterla in contatto con i medici che attualmente seguono il suo caso, Herr Vargas.”
Inarco le sopracciglia. Credo di aver assunto un’espressione a dir poco pietosa.
“In un’altra struttura?” Ripeto.
Arretro di un passo, stringendomi le braccia sul petto.
“Perché? Cos’è successo a Ludwig?”
  
 
La poca luce che filtra dalla piccola finestra, oscurata dalla tapparella, si schianta contro i granelli di polvere che volteggiano per aria, densi e fitti come nebbia. I raggi del debole riverbero si allungano sulla superficie della scrivania, ma tutto il resto del piccolo ufficio è quasi completamente in ombra.
Il generale appoggia le spalle sullo schienale della poltrona imbottita e incrocia le mani davanti alla bocca, con i gomiti premuti sulla superficie della scrivania. La fronte è bassa, e le palpebre socchiuse davanti agli occhi. Il colonnello non c’è, è rimasto fuori a sorvegliare la porta.
Io me ne sto vicino alla parete, con le spalle piegate in avanti e l’ombra della frangia che mi copre gli occhi. Gilbert continua a camminare davanti a me, di fronte alla scrivania del generale. È da mezz’ora che va avanti così, pestando i piedi per terra, passandosi le mani tra i capelli, e sbuffando qualche imprecazione confusa tra le labbra. Ogni tanto, la luce che entra dalla finestra gli colpisce i capelli, e il riflesso argenteo brilla come il metallo.
“Amnesia? Cosa diavolo vuol dire amnesia?!” Sbraita, senza smettere di andare su e giù.
Continua a passarsi le mani dai capelli sul viso imperlato di sudore, e le dita gli tremano.
Il generale si schiarisce la voce. “È un disturbo della memoria. Significa che Herr Beilschmidt ha...”
“Sì, lo so cosa significa!” Urla Gilbert con un tono graffiante come la carta vetrata.
Si ferma davanti alla scrivania, e si piega in avanti sbattendo i palmi delle mani sulla superficie del tavolo. Le gambe ricoperte in ottone vibrano su pavimento.
“Quello che voglio sapere è come ha fatto la sua testa a svuotarsi come una noce di cocco in un millesimo di secondo!”
Il generale è irremovibile. Non si scompone nemmeno con il fiato rovente di Gilbert che sbuffa sul suo collo. Si schiarisce di nuovo la voce, abbassando di più la fronte. L’ombra nera cala sui suoi occhi.
“Io non sono un medico, Herr Beilschmidt, tutto ciò che posso dirle è che il maggiore ha subito un forte trauma alla testa e subito dopo...”
“Stronzate!” Sbraita Gilbert, avvicinando il viso a quello del generale.
I suoi occhi sono fuoco che arde dentro alle orbite infossate.
“Ci deve essere sicuramente un rimedio.” Continua Gilbert. “Per cui piantatela di blaterare e...”
“Ora si calmi, Herr Beilschmidt.
Una voce calma e vellutata interrompe la sfuriata di Gilbert. Tutti voltiamo lo sguardo verso l’angolo in ombra della stanzina, e il dottor Roderich si scolla dalla parete, emergendo da quell’oscurità come un fantasma. Il suo camice svolazza intorno alle ginocchia, poi si ferma subito.
Il dottore si sistema gli occhiali sul naso, spingendoli indietro con la punta delle dita.
“Si calmi, Herr Beilschmidt, e mi ascolti molto, molto attentamente.” Ripete.
Gilbert trattiene un grugnito tra i denti e stringe i pugni, ancora chiusi sulla superficie della scrivania. Un raggio di luce abbaglia le lenti rettangolari che coprono gli occhi del dottor Roderich.
Herr Ludwig Beilschmidt ha subito un forte trauma cranico che gli ha provocato una totale perdita di memoria che comprende ogni evento riguardante la sua vita precedente al suddetto trauma.”
Una forte morsa mi stringe il cuore e sono costretto a portare una mano sul petto, stringendola attorno alla stoffa della maglia.
“Io mi sto occupando personalmente del caso di suo fratello, Herr Beilschmidt.” Continua il dottor Roderich. “E posso garantirle che sto facendo il possibile per garantire una totale guarigione del suo stato mentale. Tuttavia...”
Fa una pausa e incrocia le braccia sul petto.
“Tuttavia, sarà necessario trasferirlo in un’altra struttura, immagino che il generale Zimmerman vi abbia già informato di questo.”
Ci squadra entrambi, ma sia io che Gilbert rimaniamo immobili. Il generale annuisce.
“Il trasferimento...” Riprende il dottore, abbassando le palpebre. “Avverrà nel giro di qualche giorno. Herr Beilschmidt sarà sistemato in una struttura specializzata, sempre qui a Berlino. La clinica risponde al nome di Welt e io stesso faccio parte del personale che si occupa di seguire i casi clinici.”
Gilbert stacca le mani dalla scrivania e le allunga vicino ai fianchi. Il suo petto si gonfia.
“Pe- perché è necessario trasferirlo?” Domanda al dottore, inacidendo il tono.
Il dottor Roderich si passa una mano tra i capelli, annodandosi le dita attorno ad una ciocca castana.
“Perché, come le ho già detto, il caso di Herr Beilschmidt è estremamente delicato, e saranno necessarie cure e terapie che solo una struttura come il Welt ha da offrire.”
Gilbert esita. Poi raddrizza le spalle e risucchia una boccata d’aria dai denti serrati.
“Volete dire...” Gracchia. “Volete dire che dovrà rimanere chiuso in quella gabbia di matti per sempre?!”
Gli occhi del dottor Roderich si accendono per qualche secondo. Le pupille roteano, quasi saettando, in cerca dello sguardo del generale. L’uomo in uniforme sgrana le palpebre, e scambia una strana occhiata con il dottore. Solo io me ne accorgo, però. Gilbert non batte ciglio.
Il dottor Roderich torna ad abbassare le palpebre e si schiarisce la voce.
“Ovviamente no, Herr Beilschmidt. Io per primo mi impegnerò affinché suo fratello possa guarire ed essere dimesso quanto prima.”
“S-sì, ma...” Confabula Gilbert.
Abbassa la fronte, e i capelli gli ricadono davanti agli occhi furenti. Le sue spalle tremano, e sento lo stridere dello smalto dei suoi denti fino a qui.
“Merda.” Sibila, stringendo i pugni sui fianchi.
Io sollevo il capo con un gesto timido, quasi intimorito. Faccio scorrere le mani dal grembo fino al mio petto, continuando a giocherellare con le dita impiastricciate di sudore.
“Ehm, dottor Roderich...” Mormoro.
Lui si gira, anche se non l’ho chiamato per cognome. Mi guarda da dietro le lenti, e io raccolgo il coraggio per parlare solo dopo qualche secondo.
“Potrò... io potrò venire a trovare Ludwig, qualche volta?”
Il dottor Roderich esita, e le sue palpebre si allargano rivelando due occhi confusi. Si sistema di nuovo gli occhiali, sospirando.
Herr Vargas, dico bene?” Mi domanda lui.
Io annuisco, tenendo lo sguardo basso.
“Il generale mi ha già parlato di lei. Herr Vargas, lei sa che Herr Beilschmidt non sarà in grado di riconoscerla, vero?”
Di nuovo quella fitta in mezzo al petto. Il colpo si sposta verso il basso, come un pugno che mi centra in pieno lo stomaco.
Deglutisco un boccone amaro, riprendendo fiato. “Sì. Lo... lo so, dottore. Ma volevo... volevo comunque vederlo.”
Sollevo la fronte, e i miei occhi lucidi lo squadrano da sotto le ciocche della fronte.
“Per favore.” Lo supplico con voce straziata.
Lui sospira, come se il mio sguardo gli avesse toccato qualcosa dentro. Alza le spalle, e lancia una veloce occhiata al generale immobile sulla poltrona. Lui non batte ciglio.
“Ovviamente, il Welt non è una struttura all’antica.” Mi risponde il dottor Roderich.
Volta gli occhi verso Gilbert, ancora pietrificato in mezzo alla stanza.
“Non bisogna pensare alla nostra struttura come a una di quelle vecchie cliniche che ora esistono solo nella fantasia di qualche macabro sceneggiatore cinematografico, no.” Scuote la testa. “Lei potrà far visita a Herr Beilschmidt quando vorrà, ma ovviamente sarà sotto la mia supervisione, capisce?”
“Ehm, sì. Sì, capisco.” Gli rispondo, sentendomi già più sollevato.
Poi un pensiero mi trafigge il cervello come un dardo scoccato all’improvviso. Scatto sul posto, stringendo di nuovo la maglia all’altezza del petto.
“Ah, un momento, io...”
Tutti voltano lo sguardo verso di me. Io deglutisco a fatica, riprendendo a tremare come una foglia.
“Anche mio fratello è ricoverato in una clinica, in Italia. Io... io dovrei stare anche insieme a lui, non posso abbandonarlo. Ma ora... ora che Ludwig è qui a Berlino e dovrà stare...”
Non riesco a terminare la frase, la voce si spegne in gola come se si stessero scaricando le batterie.
Gilbert inarca un sopracciglio, e piega la bocca in una smorfia.
Io mi mordo un labbro, gettando lo sguardo di lato. “Io mi chiedevo se... se Ludwig potesse tornare in Italia, magari nello stesso ospedale dove alloggia mio fratello, io potrei...”
“Non ci provare!” Urla Gilbert, quasi divorando le mie parole.
Si avvicina a passo pesante, con la schiena piegata verso il pavimento. Mi afferra le spalle, schiacciandomi sul muro. Io strozzo un gemito in gola, ma lui continua a far pressione, squadrandomi con quegli occhi di fuoco che sembra vogliano ingoiarmi.
“Ludwig rimane a Berlino, hai capito? Non lo farò riportare in Italia solo per...”
“Si calmi, Herr Beilschmidt.” Gli ripete per l’ennesima volta il dottor Roderich.
Gilbert stringe le dita ancora di più, quasi affondandole nella mia carne. Io tremo come un gattino bagnato. Lui abbassa le spalle e la presa si scioglie lentamente, le mani scivolano giù dal mio petto.
Gilbert si sposta e il dottor Roderich torna di nuovo a guardarmi da dietro le lenti degli occhiali.
Herr Vargas, purtroppo Herr Beilschmidt non potrà essere trasferito dal Welt.” Mi dice lui.
“Le ho già detto che solo in questa clinica potrò dedicargli tutte le cure necessarie. È...” Fa una pausa, scostando lo sguardo. “Unica in Europa, Herr Vargas. Ma è molto conosciuta anche nel resto del mondo.”
Io abbasso gli occhi sul pavimento. Mi guardo i piedi traballanti, che tentano di sorreggere il mio peso morto. Deglutisco per l’ennesima volta, e cerco di farmi venire in mente un’idea che mi permetta di stare vicino sia a Ludwig che a Lovino.
“E... e se...”
Mi stringo le spalle, chiudendomi a riccio.
Perdonami, Lovino.
“E se facessi trasferire mio fratello qui a Berlino, nella stessa clinica di Ludwig?”
Il dottor Roderich rimane in silenzio e inarca un sopracciglio. Il suo collo si piega leggermente all’indietro.
Io ricomincio a torturare le dita. Le unghie graffiano sui polpastrelli, scorrendo fino ai palmi.
“Ecco, anche mio fratello è ricoverato in una clinica psi... psichiatrica, e se lui potesse venire qui ed essere curato insieme a Ludwig, io potrei stare insieme a tutti e due. Io non...” Scuoto la testa. “Io non voglio rinunciare a nessuno di loro.”
Il dottor Roderich esita e il suo sguardo si fa ancora più confuso. Si volta verso il generale, ma l’uomo si limita ad alzare le spalle, volgendo i palmi al soffitto.
Il dottore abbassa le palpebre, e sospira a fondo. Estrae un foglietto ripiegato un paio di volte dalla tasca interna del camice, e si sfila una penna dal taschino che ha sul petto. Il tappo scatta sotto la pressione del suo pollice.
“Come si chiama suo fratello, Herr Vargas?” Mi domanda, appoggiando la punta della penna sulla carta bianca.
Io balzo sul posto, poi cerco di alzare il tono di voce. Devo farmi coraggio.
“Ah, Lovino. Lovino Vargas.”
La penna del dottor Roderich scorre, immagino che stia appuntando il suo nome.
“E da cosa è affetto?” Mi chiede, senza staccare gli occhi dal foglio.
Io sospiro. “Ehm, non lo so di preciso. Ma, i dottori hanno detto che è is.. isteria, se non sbaglio.”
“Mhm, capisco.” Risponde lui, continuando a scarabocchiare.
La penna torna a scattare sotto il suo dito e lui la ripone nel taschino. Si avvicina al generale, lasciando il foglietto sul bordo della scrivania. Il generale gli lancia una veloce occhiata, ma non lo tocca.
Il dottor Roderich incrocia le braccia sul petto e abbassa lo sguardo.
Herr Vargas, sarò sincero con lei, sarà davvero molto difficile riuscire a fare entrare suo fratello nella clinica Welt.” Alza il palmo della mano al cielo. “Vede, i requisiti per accedervi sono... a loro modo esclusivi.”
Il generale socchiude una palpebra, e uno strano brillio gli luccica nella pupilla.
“Per farle capire quanto il Welt sia inaccessibile...” Continua il dottor Roderich, sistemandosi gli occhiali. “Le basti sapere che i pazienti che seguo tutt’ora si possono contare sulle dita delle mani.”
Io esito, e anche Gilbert trattiene il fiato, come se si stesse strozzando. Un’altra mazzata mi centra il cuore, spappolandolo tra le costole.
“È forse perché... perché mio fratello è italiano?” Gli domando con voce strozzata.
Il dottore solleva un sopracciglio, e il suo sguardo sembra quasi ammorbidirsi.
“Come? Ah, ma no...” Risponde, accennando una sottilissima risata.
Scuote la testa. “Non abbiamo questo tipo di preconcetti, Herr Vargas. Le basti pensare che Herr Beilschmidt sarà l’unico paziente tedesco, gli altri sono tutti stranieri. E poi...”
Si posa una mano sul petto, socchiudendo le palpebre.
“Io stesso, che sono un medico impiegato della struttura, sono austriaco. No, no, vede... i requisiti di cui parlo sono puramente clinici. Ma...”
Si ricompone, e il suo sguardo torna serio. Il debole raggio di luce che filtra dalla finestra gli abbaglia le lenti.
“Ma le prometto che mi informerò personalmente delle condizioni di suo fratello. Parlerò con i medici che lo tengono attualmente in cura e, se si dimostrerà idoneo, allora potremo provvedere al trasferimento. Le consiglio solo...”
Solleva gli occhi. Uno sguardo che mi sotterra, eppure non ha l’aria così minacciosa.
“Le consiglio solo di non illudersi troppo e di non nutrire molte speranze.”
Io abbandono le spalle e annuisco con un debole gesto del capo.
“Va... va bene.”
Gilbert si volta lentamente, tira un calcio alla base della parete, facendo vibrare il muro, e rantola qualche altra imprecazione tra le labbra. Si appoggia al muro, nascondendo il viso dietro ai capelli. Il pugno si stringe sopra l’intonaco, facendo gemere la pelle.
La polvere continua a fluttuare, le luce fioca filtra dalla tapparelle.
Ma i nostri cuori sono affogati nel buio.
   
 
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