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Autore: syontai    18/09/2013    9 recensioni
Leon è un giovane ragazzo londinese che sogna di entrare a Scotland Yard; quando finalmente riesce a realizzare questa sua aspirazione, viene messo a fare da assistente a Pablo Galindo, uno dei più validi investigatori di Londra ma anche molto strano. Una ragazza misteriosa, incontri inaspettati e un giallo da risolvere: chi ha ucciso Gregorio Garcia, preside del prestigioso Studio 21?
Genere: Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Angie, Leon, Pablo, Un po' tutti, Violetta
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 14
Poker d’assi

Leon la guardava con lo sguardo vuoto. Sembrava che le parole pronunciate dalla ragazza si fossero impresse nella sua mente, e non intendessero lasciargli un attimo di tregua. Voleva implorarle di spiegare a tutti che non era vero, ma quella pistola diceva tutto, non aveva bisogno di spiegazioni. Pablo la fissò seriamente. “E’ sicura di quello che sta dicendo, signorina Castillo?”. Violetta annuì, attenta a non incrociare lo sguardo del giovane assistente. “Leon, vuoi rimanere da solo con lei?” chiese Pablo, comprensivo. “No, io…non posso, lei è colpevole” disse senza alcun emozione Leon, uscendo di corsa dalla stanza. Anche il padre di Federico uscì per lasciare soli l’investigatore e Violetta. “Siamo alla resa dei conti, eh?” esclamò l’uomo, chiudendo lentamente la porta da cui era uscito il dottore. “C’è poco di cui discutere, le ho già confessato quello che voleva sapere. Adesso attendo di essere impiccata, marcendo in una cella. Sarà contento” ribatté la ragazza. “Non le credo” disse semplicemente Pablo. “La smetta di prendermi in giro. Io ho la pistola, ho ucciso io Gregorio!” sbottò arrabbiata. “E per quanto riguarda Nata e Ludmilla. Le ha uccise lei?”. “Non vedo perché dovrei averlo fatto. Ho ucciso Gregorio e basta. Gli ho sparato alla testa” sibilò lei, incrociando le braccia. “D’accordo, allora deve venire con me, signorina Castillo” si arrese Pablo, invitandola ad uscire. Non appena furono fuori, Leon rimase in disparte, vedendoli allontanarsi. Era troppo doloroso, non riusciva a crederci. Lei non era l’assassina, non poteva esserlo. E se fosse rimasta vicino a lui solo per usarlo? Quell’eventualità lo stava logorando. Era la prima ragazza di cui si fosse realmente innamorato e non voleva accettare che si fosse trattata di una messa in scena da parte di Violetta. Allo stesso tempo non sapeva cos’altro pensare. Doveva parlarci, ma non quel giorno.
C’era qualcosa che non gli quadrava, qualcosa di strano in quel caso, ma finalmente stava cominciando a mettere tutto al suo posto. Violetta era stata messa in una cella di detenzione in attesa del processo. Se fosse stata ritenuta colpevole, allora sarebbe stata impiccata. Pablo si aggirava intorno allo Studio e incrociò con lo sguardo Maxi, che sembrava terribilmente nervoso. “Signorino Ponte” lo salutò cortesemente, facendolo impallidire ancora di più. “Signor Galindo” rispose impassibile il ragazzo, cominciando a torturarsi le mani. “Non la vedo molto in forma” constatò semplicemente. “Con tutti questi omicidi ad opera di un pazzo, non vedo perché dovrei stare tranquillo”. “Come fa lei a dire che si tratta di un pazzo?” lo incalzò l’uomo, incuriosito. “Beh, la persona avvolta nel soprabito si muoveva in modo strano. Sembrava traballare. Non deve essere una persona equilibrata mentalmente” rispose il ragazzo con assoluta evidenza. “E ovviamente questo dettaglio non ha pensato di dirmelo” esclamò sorridendo. “Mi scusi, signor Galindo…non pensavo fosse importante” si difese Maxi, alzando le mani in aria in modo ironico. Pablo sorrise. “Incredibile come ciascuno di voi è riuscito a nascondere qualcosa e a distorcere gli eventi. Ma sappiate una cosa: non siete riusciti nell’intento di confondermi. Perché manca poco e l’assassino salterà fuori”. “Lei dice?” chiese Maxi, guardandolo intensamente. “Io ne sono sicuro, signorino Ponte”.
Pablo entrò nella sala degli insegnanti e trovò Beto intento a mettere a posto i suoi spartiti, perennemente in disordine. Passò il dito sulla mensola dove erano posate le tazzine da caffè, osservandole una ad una, fino a quando non trovò quella che cercava. Una tazzina uguale alle altre tranne che per una piccola ‘g’ blu all’interno del manico di ceramica. “Interessante…” mormorò, avvicinandosi all’insegnante che ancora non si era accorto della sua presenza. “Signor Beto!” lo salutò allegramente, facendolo quasi saltare in aria. “Ah, è lei, signor Calenda”. “Galindo” lo corresse l’uomo, alquanto scocciato. “Giusto, giusto, era quello che volevo dire in effetti” si scusò Beto, tendendo la mano per salutarlo, mentre nell’altra teneva stretta numerosi fogli sparpagliati. “Molto belle quella tazzine di porcellana…sono 16, mi pare. Più quella ritrovata sulla scena del crimine, fanno 17” gli fece notare tranquillamente. L’insegnante non capì il perché di quel discorso, ma annuì. Poi cominciò a riflettere. “Ma lo sa che è una cosa strana?” disse all’improvviso. Pablo si avvicinò con un sorrisetto compiaciuto. Era riuscito a tirare fuori da quell’uomo ciò che voleva. “Davvero?” chiese, fingendosi sorpreso. “Si, perché ricordo esattamente che le tazzine erano 17 proprio come dice lei, ma allo stesso tempo ricordo che durante il pre-corso una delle tazzine era misteriosamente scomparsa. Io avevo portato il caffè a Gregorio quel giorno, e quando ero tornato per riprendere la tazzina sulla scrivania, quella era scomparsa. Veramente strano!” spiegò Beto. “Volevo chiederle anche un’altra cosa: la signorina Jackie ha dei contatti oltre che lavorare in questa scuola?” chiese a bruciapelo. La domanda fu molto inaspettata e Beto dovette pensarci un secondo. “Certo! La signorina Jackie ha contatti con i più famosi teatri di Londra. E’ comunque una ballerina riconosciuta a livello nazionale, anche se dopo quel famoso incidente…” cominciò a dire l’uomo, ma si fermò. “Continui” lo prego Pablo. Beto fece un profondo respiro e continuò. “Lo sappiamo solo noi insegnanti. Jackie era una ballerina famosa, riconosciuta in tutto il mondo. Ma un giorno durante le prove ebbe un tragico incidente con delle travi non collegate bene, a quanto pare. Alcuni dicono si tratti di un incidente, altri di sabotaggio. Bah, è tutto molto confuso, fatto sta che la povera Jackie non si è più potuta esibire in un teatro a causa della lesione permanente”. “Proprio come pensavo, grazie Beto, lei mi ha chiarito molti dubbi” esclamò soddisfatto Pablo, uscendo dalla stanza e lasciando un Beto piuttosto confuso e perplesso.
Federico si stava preparando per la lezione di ballo, e non vedeva l’ora che quella giornata finisse. Quando incontrò Pablo per il corridoio della scuola non ne fu affatto sorpreso: ormai quell’uomo era ovunque. “Salve, signor Galindo” esclamò il giovane, dirigendosi nell’aula di ballo. “Signor Bianchi! Giusto lei cercavo”. Federico sospirò: quell’uomo non aveva un attimo di pace. “Mi dica” disse infine. “So che sua madre è stata una ballerina in Italia”. Federico si irrigidì e i suoi occhi si fecero incandescenti. “E lei come lo sa?” chiese direttamente. “Ho parlato con suo padre” rispose l’uomo, per nulla intimorito. Federico respirò profondamente e fece un sorriso forzato. “Bene, allora non credo di dover aggiungere nulla, no?”. “Invece ho una sola cosa da chiederle…prima di lavorare come ballerina cosa faceva sua madre?”. “Nulla. Mio padre mi diceva che era un brutto periodo per loro. Lui non riusciva a trovare impiego, e lo stesso valeva per mia madre. Per un puro colpo di fortuna, alla fine mia madre ha trovato impiego a un teatro”. “Ne ero certo” mormorò Pablo. “Scusi?” chiese il ragazzo, incuriosito. “Niente, stavo pensando. Come è morta sua madre?”. “Una malattia…è successo quando avevo cinque anni” mormorò il ragazzo abbassando lo sguardo. I suoi occhi erano lucidi e le sue labbra tremavano. “Mi scusi, signorino Bianchi, non volevo riportarle alla mente ricordi dolorosi” si giustificò l’investigatore, posando una mano sulla spalla del giovane. “Non si preoccupi. Tanto il ricordo non mi abbandonerà mai, finché vivrò” lo rassicurò con un sorriso mesto.
Il giorno dopo avrebbe portato nuove speranze a tutti gli abitanti di Londra, a tutti tranne a uno. Violetta si rigirava su quel letto freddo come il marmo, non riuscendo a prendere sonno. Pensava a Leon. Sapeva che quel peso non l’avrebbe abbandonata fino alla morte e per questo sperava che l’esecuzione arrivasse il prima possibile. Si sfiorò il collo con la mano, immaginando la dura corda avvolta intorno con forza. Deglutì mentre i primi raggi dell’alba si infiltravano in quella stanza spoglia. In fondo se l’era meritato. Prese una penna e un foglio appoggiati su un comodino vicino al letto e tentò di scrivere qualcosa. La mano tremava incessantemente.
‘Caro Leon,’
Si fermò subito e cominciò a riflettere. Cosa poteva dirgli?
‘Questa lettera ti arriverà quando ormai non ci sarò più.’
Un po’ tragico per essere l’inizio di una lettera, ma voleva essere realistica.
‘Ti prego di credermi quando dico che sei la persona che più ho amato in tutta la mia vita’
Il rumore di passi dall’altra parte della cella la riscosse da quel torpore fisico che stava avvertendo. “C’è qualcuno che vuole parlare con te” disse la guardia, infilando la chiave nella serratura e girandola velocemente. “Io…non voglio vedere nessuno” sussurrò la ragazza, sedendosi sul letto e stringendo le ginocchia al petto. “Beh, allora lo caccerai di persona” disse la guardia scostandosi e lasciando intravedere la figura di un giovane. Non poteva essere venuto a trovarla. Voleva farla soffrire fino alla fine? Leon entrò a passi lenti nella stanza e si sedette ai piedi del letto, mentre la guardia richiudeva la cella. “Perché sei venuto?” chiese, guardandolo dritto negli occhi. Lo sguardo di Leon era inespressivo, così come il suo volto; i suoi occhi erano spenti, e i segni delle occhiaie erano lievi ma evidenti: doveva aver passato una notte insonne. “Sono qui per parlarti. Tu…devi spiegarmi…” mormorò il giovane, fissando incessantemente il pavimento. “Non devo aggiungere nulla, Leon. Non capisco come mai sei venuto” esclamò lei freddamente. Leon strinse i pugni e si decise a fissarla nuovamente negli occhi. “Non pensi di dovermi almeno questo? Non pensi di dovermi uno straccio di spiegazione?” sbottò lui, al colmo della pazienza. Violetta respirò a fondo e cercò di trovare dentro di sé la forza per guardarlo con disprezzo sembrando convincente. Doveva esserci riuscita, perché vide Leon mostrare tutto il dolore provocato. “Cosa vuoi che ti dica? Di’ la verità, tu vuoi sapere solo se ti ho usato per sapere a che punto erano le indagini”. Prese una breve pausa. “Beh, la risposta è semplice: si, Leon, io ti ho usato. E non me ne pento affatto. Non sai le risate che mi sono fatta nel vederti così innamorato. Ci sei cascato in pieno, poliziotto da quattro soldi” sibilò Violetta, girandosi dall’altra parte per nascondere le lacrime. Sentì un singhiozzo soffocato provenire da dietro e intuì che Leon stava piangendo. “D’accordo, volevo solo…saperlo. Addio, Violetta. E per quanto possa valere, io ti ho amato davvero” disse Leon, senza più riuscire a trattenere le lacrime. “Vattene” disse Violetta, contando i secondi affinché riuscisse a superare quella separazione così sofferta. Quando sentì la guarda riaprire la porta della cella, e fu sicura di essere rimasta sola, cominciò a lasciarsi andare in un pianto silenzioso. Prese il foglio che aveva cominciato a scrivere e lo stracciò, lasciando cadere i pezzetti di carta sul pavimento. No, non ne valeva la pena. Si stese sul letto, cercando di dormire: voleva solo poter non pensare, poter dimenticare tutto quello, poter convincersi che si trattasse di un incubo.
Leon rientrò a casa e si lasciò cadere sul letto. Era stanco, come se avesse percorso chilometri e chilometri a piedi con dei pesi di piombo addosso. Era stata tutta una menzogna, e lui era stato così stupido da scambiare il suo evidente interesse per il caso per amore. Chiuse lentamente gli occhi, sperando di non sognarla: almeno nei sogni voleva essere felice.
 ‘“Signor Galindo!” lo chiamò Leon, dopo essersi avvicinato. “Legga…” disse piano, indicando il foglio sulla scrivania: ‘She is come from Italy for me and…’  ma non era riuscito ad andare avanti, era stato ucciso prima di poter dare informazioni su questa misteriosa donna venuta dall’Italia per lui. Una macchia di sangue era caduta sulla lettera.’
‘‘dear maria, how are you? do you like the college? if you hate me, please forgive me. I have done this only for your happiness…’
La lettera continuava, ma parlava solo del più e del meno, come ad esempio il tempo, le condizioni di salute e altre cose del genere. Diresse subito lo sguardo verso la fine e notò la firma di Gregorio Garcia, con una data che risaliva a circa dieci anni fa.
Leon si svegliò all’improvviso con il volto sudato. Era uno sciocco, un completo sciocco. Corse al telefono e digitò il numero di Pablo. Aveva capito qualcosa, qualcosa di essenziale. E se non si era sbagliato, allora aveva capito anche l’identità del misterioso assassino.
Pablo si era svegliato molto presto quel giorno ed era già in ufficio, pronto a sistemare alcune carte. Improvvisamente qualcuno bussò, destandolo dai suoi pensieri, e da quel po’ di sonno che sentiva addosso. Un’anziana signora vestita di nero con un’aria umile ma distinta si fece avanti timidamente. “E’ lei il signor Galindo?” gracchiò l’anziana signora. “Si, sono io” esclamò l’uomo con un sorriso, alzandosi in piedi e baciandole la mano sinistra, avvolta in un guanto nero un po’ logoro. “Sono qui per conto della signorina Ferro” esclamò la donna con voce tremante. “Ma…la signorina Ferro…ecco…” provò a spiegare Pablo, non riuscendo a capire. “Lo so, signore, so della sua morte. Lavoro a villa Ferro. L’ho vista crescere fin da piccola…” disse la donna, cominciando a singhiozzare al ricordo della sua padroncina. “Comunque, come mai lei è qui?” disse Pablo andando dritto al sodo. L’anziana si guardò intorno in modo circospetto, quindi rovistò nelle tasche della gonna sgualcita a tirò fuori una busta giallognola. “Me l’ha data la mia padrona prima di morire e mi ha detto di consegnarla a lei. Io non ci avevo nemmeno pensato, me lo sono ricordata in seguito. Le chiedo perdono, ma sa, il dolore provato, e…”. Pablo la zittì con un gesto della mano ed aprì la busta, leggendo rapidamente il suo contenuto. Un sorriso trionfante si mostrò sul suo volto stanco. “Ecco, con questa siamo a cavallo!”. Il rumore di un telefono lo fece ridestare dalle sue ipotesi. Era Leon. “Si, Leon…pronto. Ci sei arrivato? Hai ragione, sei un genio!” esclamò l’investigatore alzandosi dalla sedia in preda a un’eccitazione crescente. “Si, riuniamo tutti. Il caso è risolto” concluse, riattaccando il telefono. “Signora, sappia che con questa lettera ci ha fornito l’unica prova in nostro possesso per incastrare l’assassino” disse poi, rivolgendosi all’anziana donna, molto confusa per l’accaduto. L’uomo sorrise trionfante, e poi osservò nuovamente il foglio. “Bene…adesso a noi due. Comincia la commedia, e questa volta il lieto fine lo imporrò io” esclamò, convinto ed esaltato.
“Voi sapete che ci facciamo qui?” chiese Maxi nella sala del teatro. Camilla che gli stringeva forte la mano era confusa quanto lui. Erano le dieci di mattina, e a quell’ora nel teatro non si svolgevano le lezioni consuete. “Pft. Sarà qualche stramba idea di quel Galindo” sbottò Diego, rigirandosi tra le mani un sigaro. In quel preciso momento entrarono nella stanza gli insegnanti: Angie, Beto e Jackie. “Non capisco il motivo di questa pagliacciata” se ne uscì Angie all’improvviso. “Penso che al signor Galindo piacciano le cose in grande” esclamò Leon, entrando nella stanza, con un sorrisetto. Subito dietro di loro arrivarono anche Francesca e Federico. “Allora, cosa sta succedendo?” chiese l’italiana, nervosa e pallida in viso. “Niente, non preoccuparti” la rassicurò Federico, premuroso. “Si può sapere che scherzo è questo?” chiese il giovane, guardandosi intorno. “Sono io ad aver organizzato questa piccola riunione” esclamò Pablo con tono solenne all’ingresso del teatro. Dietro di lui due guardie portavano Violetta e la facevano sedere su una delle sedie del teatro. Leon cercò di evitare il suo sguardo, ricordando le parole che gli aveva rivolto quella mattina stessa. “Andiamo, signor Galindo. Non è necessario, l’assassino è già saltato fuori” ribatté Diego, indicando con lo sguardo la ragazza, che si stava mostrando fredda e determinata. “Infatti, non capisco proprio. A quanto pare il nostro stimato Galindo non si accontenta nemmeno quando l’assassino confessa i propri crimini” scherzò Violetta con una risata glaciale che risuonò nella sala. Tutti presero posto e Pablo si preparò a parlare. “Questo caso si è mostrato fin da subito complesso. Nonché premeditato, nonostante alcuni fatti potessero far pensare il contrario. Un omicidio in piena regola, uno dei più spietati, aggiungerei, viste le dinamiche”. “Un colpo di pistola” lo corresse Violetta, ormai esasperata. “Un semplice colpo di pistola” ripeté. Pablo mosse il dito in segno di diniego. “Non un semplice colpo di pistola. Ma prima di analizzare i fatti e individuare il colpevole, vi propongo un gioco” disse, sorridendo e tirando fuori quattro carte: i quattro assi dei quattro semi. “Bene, conoscete il detto italiano ‘come quando fuori piove’ per indicare la supremazia di un seme su un altro a parità di valore?”. “La prego, non siamo qui per fare dei giochi stupidi!” sbottò Diego, innervosito. Pablo lo ignorò e continuò a parlare. “Bene, in questo caso è successa una cosa simile. Una catena di eventualità che è stata indotta a proprio rischio e pericolo” continuò, mostrando le quattro carte. “Cuori commette l’omicidio, Quadri si trova sulla scena del delitto, Fiori trova Quadri, e Picche trova Fiori. Ed eccoci alla domanda cruciale: chi è l’asso di Cuori?”. Pablo si aggirava in mezzo ai presenti, mostrando quella carta con estrema soddisfazione. “Che mitomane!” scherzò Leon, anche lui preso comunque dalla tensione del momento. “Bene, ora consegnerò la carta al nostro assassino. E torneremo al nostro punto di interesse: chi ha ucciso Gregorio Garcia?”. I presenti lo videro dirigersi verso una persona in particolare, e tendere la carta in modo naturale. Il silenzio cadde nella sala. 









NOTA AUTORE: Eccomi qui. Il prossimo sarà l'ultimo capitolo, e io nel finale ho avuto seriamente i brividi. Un finale così è veramente da infarto per me. Fossi in voi pretenderei l'ultimo capitolo domani (ma, ok, non fatelo, perché non ce la farei xD), ma...penso di riuscire a caricarlo per il fine settimana (spero). Detto ciò, questo capitolo IO non lo posso commentare, VOI dovete commentarlo (se volete xD) per farmi sapere le vostre ipotesi finali, perché nel prossimo capitolo Galindo ci restituirà alla luce dei fatti xD E niente...dedico questo capitolo ad ARSID, visto che ho scoperto che oggi è il suo compleanno (AUGURIIIII :D). Alla prossima e buona lettura ;D 

 
  
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