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Autore: AlfiaH    18/09/2013    3 recensioni
// Sequel di "My hero, My princess" //
- Quindi se ti baciassi di nuovo, non scapperesti? –
La londinese boccheggiò, visibilmente imbarazzata da quella situazione, quando il viso dell’altra le fu talmente vicino da poter perfettamente sentire l’odore di un profumo troppo intenso perché potesse sembrare naturale, e indietreggiò ancora, trovandosi a cozzare i polpacci contro il letto e cadendovi sopra, diminuendo la vicinanza.
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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No Rose Without Thorns

Rose poggiò finalmente la nuca sul cuscino, candido, di piume d’oca, che mai aveva trovato così morbido e comodo in vita sua, desiderando ardentemente di sprofondarci e di non abbandonarlo più, fino all’indomani e oltre, per tutta la sua vita, magari, decisamente meno accogliente dell’amato cuscino. Se lo premette contro la faccia, inebriandosi del profumo di lavanda che tanto amava, il suo profumo, di fresco e pulito, regale, quasi, bagnato di lacrime, quelle che ora avevano cominciato a cadere, una dopo l’altra, dai suoi occhi di giada, rendendoli umidi, incredibilmente dolorosi, silenziosi e nascosti tra la stoffa.
Si sentiva una bambina in quel momento, una persona infantile, alla quale i genitori hanno appena proibito un giocattolo, a lei che di giocattoli ne aveva tanti, forse non abbastanza per scacciare la solitudine.
Avrebbe passato il giorno seguente a fare shopping o magari a letto, non l’aveva ancora deciso, fingendo che fosse un giorno qualunque, di non essersi illusa alla promessa di passarlo assieme alla sua famiglia, di non essere stata delusa ancora da una festa mal riuscita; dopotutto adesso era grande, che bisogno c’era di festeggiare il suo compleanno? Nessuno, appunto.
Eppure non riusciva a non sentirsi immensamente triste, piangendo orgogliosamente in silenzio, soffocando i singhiozzi tra il candore di piuma d’oca.
Era in quei momenti che pensava ad Emily, l’americana che aveva incontrato qualche mese prima, al suo arrivo nella Grande Mela -  così grande da farle paura, certe volte, da farle rimpiangere la sua Inghilterra, la sua isola, la sua casa – e sentiva una stretta al cuore all’idea di non averla più rivista, di averla allontanata. La sensazione di essere soli con la consapevolezza di esserlo per scelta, senza un motivo, per paura, forse, paura di quello che aveva fatto. Eppure era stata l’unica persona a starle vicino, nonostante fosse una perfetta sconosciuta, ad averle offerto una spalla.
E allora si sfiorava le labbra con le dita sottili, arrossendo, e scuoteva la testa, stringeva gli occhi per scacciare quell’immagine dalla mente, quelle parole sussurrate, quella promessa che non aveva mai avuto il coraggio di mantenere. Aveva provato a farle recapitare la Rowling che le aveva comprato, che aveva scelto con molta cura tra tante mazze da baseball, mentre era comodamente seduta in giardino a sorseggiare tè indiano con altre dolci fanciulle.
Si poteva quasi dire che si fosse comprata da sola.
Si voltò di scatto, sgranando gli occhi ancora rossi e tirandosi a sedere, spaventata, quando sentì un tonfo provenire dal suo balcone. Fortunatamente, essendo la sua pelle delicata e sensibile, come il resto della sua persona, si era premurata di chiuderlo affinchè non entrasse vento che, seppur vagamente primaverile, era ancora fresco. Che diavolo poteva essere? Forse il vento aveva spezzato un ramo, pensò.
Fu quasi tentata di gridare aiuto quando vide una mano spalmarsi contro il vetro e un lungo lamento doloroso, ma l’idea di farsi vedere in quello stato non l’allettava per niente. Patetico, si, ma aveva una certa dignità e teneva a mantenerla tale.
Quindi si asciugò in fretta le lacrime e sgattaiolò via dal letto, indietreggiando verso l’uscita e senza perdere d’occhio l’ombra oltre le tende di seta, piuttosto goffa, che pareva rialzarsi a fatica. Deglutì profondamente; qualche malintenzionato aveva pensato bene di intrufolarsi in casa sua, era ovvio. Ogni giorno i delinquenti in quella città sembravano moltiplicarsi e, dannazione, le mancava profondamente il suo tranquillo quartiere Londinese. Adesso si, aveva davvero paura.
- Mamma… -,  tremò con voce bassa, appiattendosi contro la parete e sottraendo il suo prezioso libro di Oscar Wild dalla scrivania per usarlo come arma.

 – Mamma! – urlò ancora, spaventata, mandando tranquillamente al diavolo il proprio orgoglio per un attimo, tappandosi immediatamente la bocca con le mani quando nell’oscura figura riconobbe qualcuno a lei caro, qualcuno che, probabilmente, non temeva la sua ira funesta.
- Emily! – Gridò, infatti, mentre correva ad aprirle, tra lo stupito, sconvolto e l’incazzato nero, ma l’americana non fece nemmeno in tempo ad emettere una sillaba - nonostante avesse spalancato la bocca per dire qualcosa, probabilmente di non molto carino, data l’espressione - che si ritrovò con le tende chiuse in faccia e un gran bernoccolo sulla testa.Proprio in quell’esatto momento la domestica fece il suo ingresso, in vestaglia, spalancando la porta con aria preoccupata, mentre l’inglese si premurava di coprire “la rapinatrice” col proprio corpo alla bene e meglio. Tentò di accennare un sorriso per rassicurare la donna e convincerla a tornare a letto, tossì un paio di volte, nervosamente, e si passò una mano tra i capelli biondi sciolti sulle spalle
- Signorina Rose! Vi ho sentita urlare! È successo qualcosa? –

- Ehm… N-No… No, grazie, Dorota, va tutto bene. È stato solo un brutto sogno -, tentò, sperando che intanto l’americana facesse lo sforzo di rimanere in silenzio e non farsi scoprire. Sarebbe stato piuttosto imbarazzante. La donna,  sulla sessantina, assunse un’espressione apprensiva, quasi materna, mentre le si avvicinava. – Ha sognato sua madre, signorina? – Domandò, accarezzandole un braccio e facendole cenno di tornare a letto. Quello che ottenne, però, fu solo un’occhiataccia e un gesto di stizza, la ragazza incrociò le braccia e la guardò dall’alto in basso, altezzosa. Aveva capito a cosa si fosse riferita la sua domestica, a quale madre, quella che chiamava mamma, la prima moglie di suo padre, quella che l’aveva data alla luce. Le capitava spesso di sognarla, il suo profumo di cannella, dolce, e i suoi occhi smeraldini, uguali ai suoi, i capelli argentei che andavano talmente in contrasto con quelli rossi e infuocati della sua attuale madre che spesso si era ritrovata a domandarsi cosa, come e perché suo padre aveva scelto di sposarla. Una donna di classe, davvero, raffinata, attenta, forse un po’ scontrosa ma infinitamente dolce, a volte, per quel poco tempo che riuscivano a passare insieme. Niente a che vedere con quei demoni che aveva dato alla luce, in giro per la Scozia.L’aveva accettata senza fare storie, la piccola Rose, stretta alla gamba del suo papà, quando era arrivata in casa loro. L’aveva guardata per un po’, in silenzio, timidamente, sistemandosi i grandi occhiali sugli occhi, giocando nervosamente con i capelli come faceva di solito, ed aveva annuito quando le si era avvicinata dicendole “sono la tua nuova mamma”, presentandole i suoi fratellastri, Darren ed Eric, uno più – infinitamente stronzo – simpatico dell’altro.
Erano una famiglia adesso ed era tutto perfetto, lo era sul serio, erano felici, non voleva essere compatita, non ce n’era motivo, perché avrebbe dovuto? Stava bene, non le mancava nulla, nemmeno la sua mamma.
-No, non ho sognato nessuno, va tutto bene. Adesso sparisci, ho sonno -, sputò fuori, acida, mandandola via in malo modo, e, dal canto suo, la donna non potè fare altro che eseguire gli ordini, profondamente rammaricata, seppur non offesa, troppo abituata al caratteraccio della padrona. Quando finalmente ebbe richiuso la porta alle sue spalle, a chiave, Rose si voltò verso il suo balcone, spalancandone le ante, trovandosi subito di fronte alla statunitense, perfettamente in piedi, le braccia lasciate lungo i fianchi, lo sguardo severo e accusatorio, le labbra inclinate all’ingiù, deluse anch’esse, probabilmente. L’inglese trattenne il fiato, in attesa che l’altra parlasse, si morse le labbra, senza saper cosa dire, senza articolare una frase, delle scuse o degli insulti, per lo spavento che le aveva fatto prendere. Sentiva le gambe pesanti, un’ansia crescente, un brivido lungo la schiena quando il vento si alzò, scompigliando i capelli di grano della ragazza che aveva di fronte, con addosso solo una canotta e dei pantaloncini, nonostante fosse solo Aprile.

- Come hai…? -
- Mi sono arrampicata. Sono venuta a prendere la mazza. Di persona – 
Cominciò il suo discorso freddamente, Emily, nascondendo accuse nelle parole, voglia di dire altro nei gesti. Aveva allungato una mano verso il suo viso, doveva essersi accorta del rossore dei suoi occhi, ma la bloccò a mezz’aria quando la londinese inclinò la testa, abbassando lo sguardo, stanca di sostenere il suo. Si sentiva in colpa, in quel momento il suo stato d’animo non era dei migliori e mai si sarebbe aspettata che quella ragazza, che sembrava avere mille risorse, si sarebbe presentata di punto in bianco a casa sua. Come avesse fatto poi a scoprire dove abitasse, era ancora un mistero.
- Sono stata impegnata… -, provò a giustificarsi, spostandosi di lato, invitandola palesemente ad entrare. Di cosa si stava giustificando, poi? Lei infondo aveva fatto il suo dovere, aveva mandato il suo autista a recapitarle l’oggetto, ma era sempre tornato indietro, blaterando su quanto fossero maleducate le donne americane, prive di classe ed eleganza.In cuor suo, però, sapeva che non era quello il problema.
Dannazione ai suoi conflitti interiori.
- Se non volevi vedermi, potevi dirmelo di persona, invece di mandare i tuoi tirapiedi. –Lo stava sul serio dicendo come se stesse parlando con il peggiore dei super cattivi dei peggiori film americani da quattro soldi. Non aveva dei tirapiedi, lei, solo dei servizievoli dipendenti che venivano lautamente pagati.
- Pensi che abbia tempo da perdere? Perché avrei dovuto fare una cosa del genere? Non avevo alcun problema nell’incontrarti, niente che non fossero i miei impegni. Non sei il centro del mondo, non puoi pretendere che una persona come me si abbassi ai tuoi livelli. –Si difese, Rose, come faceva sempre, tirando fuori le spine velenose, ferendo chiunque le si avvicinasse. L’espressione di Emily ne era un chiaro esempio, la bocca semiaperta, gli occhi appena sgranati, ancora più offesi, adirati.
- Una persona come me?! –

- Shh, non urlare! – La interruppe, prima che potesse svegliare qualcun altro con la voce stridula che si ritrovava, ma l’americana continuò a parlare, i toni leggermente più bassi.
- Tu  mi hai evitata tutto questo tempo senza nessuna ragione! Non hai risposto alle chiamate, hai addirittura cambiato numero! –
- Cellulare. –
- Quello che è! Non mi importa nulla di quella stupida mazza, è il tuo comportamento di merda che mi fa girare le palle! – Alzò ancora la voce, la statunitense, entrando finalmente in camera sua, spalancando le braccia e sbattendole sui fianchi, in un gesto di esasperazione.
- S-Se continui così, sveglierai tutto il vicinato… -, sussurrò, incassando i colpi, ricacciando indietro le lacrime, cercando di sorreggere il macigno che si appesantiva all’altezza del cuore. Vide la ragazza girarsi, incatenare gli occhi ai suoi, colpevoli di una colpa non ancora ammessa, inammissibile.
- Pensavo che fossi migliore di così, pensavo… -
- Cosa? Che fossi la tua principessa? Abbiamo parlato per un paio d’ore e poco più, è ovvio che qualunque cosa tu abbia pensato sia sbagliata. Non mi conosci e io non conosco te. Non hai alcun diritto di piombare a casa mia come se niente fosse e sputare sentenze, esprimendoti come una camionista. Come non avevi alcun diritto di baciarmi, tu… -
- Allora è questo il problema -, realizzò, aggrottando appena le sopracciglia e guardandola, poi, con aria di sfida. – Tu avevi paura che ti baciassi ancora -, sentenziò, alla fine, beandosi del colorito rossastro che avevano assunto le gote dell’inglese.
- N-Non è questo il punto. Per quello che ne so, potresti anche essere chiunque, sei una sconosciuta…–Anche se avrebbe potuto non esserlo, se in quei mesi si fosse degnata di stringere un rapporto con lei. La verità era che Rose non era davvero portata per avere legami con le persone, preferiva distruggerli prima che maturassero e diventassero importanti, per autodifesa, forse, per la paura di rimanere delusa, di mettersi in gioco. Indietreggiò appena quando la vide avvicinarsi pericolosamente, un piccolo sorriso a dipingerle le labbra. Eppure ne aveva sputato di veleno da quando era lì, che diavolo aveva da sorridere?
- Quindi se ti baciassi di nuovo, non scapperesti? –La londinese boccheggiò, visibilmente imbarazzata da quella situazione, quando il viso dell’altra le fu talmente vicino da poter perfettamente sentire l’odore di un profumo troppo intenso perché potesse sembrare naturale, e indietreggiò ancora, trovandosi a cozzare i polpacci contro il letto e cadendovi sopra, diminuendo la vicinanza.
- Non ho detto questo. S-Sto solo dicendo che non è normale che una sconosciuta ti ba… -Non riuscì neppure a terminare la frase che le labbra della giovane furono sulle sue, irruente, avvantaggiate dal fatto che stesse parlando, che la bocca fosse già schiusa, non ebbe alcuna difficoltà ad intrufolarci la lingua, immensamente morbida e bagnata. La stava tenendo stretta per le spalle, si accorse, quando provò a spingerla via, poggiandole le mani sul petto – incredibilmente morbido anche quello.
Si sentiva sprofondare, era in trappola. La trappola più bella in cui fosse mai finita.
Chiuse gli occhi, istintivamente, per non vedere, per non essere sua complice e strinse tra le dita la stoffa della sua canotta, strattonandola appena, per indurla a staccarsi da sola perché lei non ne aveva davvero la forza.
- Questo era per cominciare la nostra conoscenza -, ghignò l’americana, leccandosi le labbra rosse e umide, gli occhi brillanti di malizia che altro non nascondevano che una profonda sincerità, il desiderio di non essere più una “sconosciuta”, la paura bruciante di essere respinti.Sentimenti nascosti da una sfacciata sicurezza, la voglia di correre il rischio, di lanciarsi all’avventura, mettendo da parte la paura di non farcela, sostituendola con un gran sorriso ottimista.
- Cosa dannazione ti è saltato in mente?! Chi ti ha dato il permesso di baciarmi, american idiot?! Fallo ancora e ti spa-… -In un attimo le loro labbra si scontrarono di nuovo, con più sicurezza e l’inglese chiuse ancora gli occhi per non far del male al suo cuore, aggrappandosi con le braccia e scacciandola dai pensieri. Era difficile lasciarsi andare, lo era incredibilmente, eppure non riusciva a non sentirsi felice, almeno un po’, per quella sorpresa inaspettata, nonostante si stesse rivelando incredibilmente dolorosa. L’americana si era prodigata tanto per cercarla, si era addirittura arrampicata fino alla sua finestra, coraggiosamente, cosa che non era da tutti, che nessuno avrebbe fatto per lei. Perché non ne valeva la pena, non per la sua testardaggine e il suo orgoglio, per il cinismo e la disillusione.


- D-Domani è il mio compleanno, così… M-Mi chiedevo… Sarò abbastanza impegnata, sai, con tutti gli invitati e i parenti che verranno a farmi 
gli auguri, m-ma mi chiedevo se… Ehm… Fossi libera… -
- Verrò volentieri al tuo compleanno, principessa. Comunque ti ho perdonata! –
- Prego? –
- Per tutte le cose cattive che hai detto! –
- Non mi pare di averti chiesto scusa. Le pensavo sul serio –
- So che non è così, non lo ammetti perché sei timida! –
- Non sono timida, non è colpa mia se sembri una camionista –
- Non guido i camion, sono un eroe, il mio lavoro è salvare la gente! –
- God… Ritiro il mio invito. E piantala di sbraitare come un’oca, sveglierai qualcuno e farei una pessima figura –
- Ma ho già pensato ad un regalo! –
- In questo caso, spedisci solo il regalo –
- Ma sono io il regalo… -
- P-Pervertita! Non voglio avere niente a che fare con te! Go away! - 
 
 
L’aveva fatto, invece, la statunitense,per il suo caratteraccio e le buone maniere, aveva scalato quella torre e l’avrebbe fatto ancora e ancora, zittendola con baci e carezze, per non svegliare nessuno, per non essere mandata via. Aveva deciso di entrare egoisticamente nella sua vita, di renderla migliore, di essere il suo eroe, di non vederla più piangere, voleva esserci e ci sarebbe stata, con tutta se stessa, perché aveva deciso di proteggerla, quel giorno, a Brooklyn, e gli eroi non rimangiano le promesse, le mantengono e basta. Credeva nel vero amore, nelle favole e in tante altre cose, in verità, cose in cui ormai non credeva più nessuno, sciocche, superate, per bambini, in un mondo così cinico e bastardo in cui bambini non si può essere e l’ingenuità è presa in giro. Cinico e bastardo, come lo era la vita, come lo era Rose.
Ed Emily, da brava eroe qual’era, non avrebbe fatto altro che cambiarlo.


#Angolo della disperazione
Ebbene. Ecco il sequel di "My Hero, My Princess", ovvero la più immensa cagata che abbia mai scritto °-°
God, penso che andrò a sotterrarmi. Purtroppo sembra che l'UsUk non induca le mie zampacce a digitare cose decenti sulla mia - poco decente - tastiera. Sè la vì
In ogni caso, è dedicata a te, Jade. Purtroppo non è granchè, ma spero che ti abbia risollevato un pò il morale!
Sappi che è solo grazie - a causa tua - a te che esiste questo sequel, quindi parte della - colpa - merito è tuo <3
Vedrai che la vita ti sorriderà come un America davanti ad un hamburger gigante.
- ... O ad un Inghilterra seminudo.
In ogni caso, comunque vada, ecco il biscotto della zia AlfiaH, che rende il mondo un posto più bello.
*ghivva biscotto*

Life is Beautiful, dudes.
  
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