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Autore: _eco    19/09/2013    9 recensioni
[Future!fic] [Peeta/Katniss/Gale/Johanna]
- Be’, uno vale l’altro, alla fine. Tanto… - s’interrompe, e temo che inizi a piangere.
Non voglio che pianga. Non so come reagirei. Di certo, non l’abbraccerei, ma è probabile che mi metta a singhiozzare di rimando. Non voglio, non deve succedere.
-… è morto. – conclude.
[Partecipa alla Challenge Multifandom e Originali con il prompt #35 Morte]
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Gale Hawthorne, Johanna Mason, Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La solita guastafeste.
It means thanks, it means admiration, it means good-bye to someone you love.
Hunger Games.
 
Dall’altro lato del telefono, la voce di Johanna s’incrina quasi a ogni parola. Rimango ad ascoltare in silenzio, mentre il mio cervello elabora ciò che mi sta dicendo.
Non ci sentiamo da qualche tempo. Due mesi, tre, forse.
L’ultima volta, mi aveva parlato della sua salute, divenuta cagionevole nel giro di qualche settimana. Un qualcosa ai polmoni, così credo di aver capito. Ho subito pensato al carbone, a come l’aver respirato aria pregna di quella polvere scura e soffocante possa aver contribuito a rendere inutili i polmoni di Gale. A come io stessa potrei risentire di tutto il tempo trascorso circondata dalla cappa di granelli che scivolavano dalle miniere.
Colpa del carbone? Non saprei, a dire il vero. La mia conoscenza medica si ferma al saper identificare un paio di erbe medicanti e a una capacità piuttosto limitata di fasciare una ferita.
- Capisco. – mormoro.
Johanna tira su col naso, e mi sembra un gesto che non potrebbe mai appartenere alla sua personalità, sempre forte, sempre impassibile.
La vecchia Johanna non tirerebbe mai su col naso, ma evidentemente tutti hanno sepolto un po’ di se stessi insieme ai fantasmi del passato.
Quanti anni poteva avere? Sessanta, suppergiù.
Gale, il mio fidato compagno di caccia. Gale, che mi chiamava con quello stupido, irritante nomignolo. Gale, che nella mia mente ha ancora il volto di un ragazzo, gli occhi infiammati di rabbia repressa, i capelli lisci e del colore dell’inchiostro, e che è già morto.
- Vengo con il prossimo treno. – dice Johanna con voce piatta.
Me la immagino, seduta al tavolo della cucina, il ricevitore premuto contro l’orecchio, le dita che giocherellano nervosamente con i riccioli di plastica che collegano la cornetta alla base del telefono.
Non vedo nemmeno lei da molto tempo. So che sta nel due. So che vive con Gale, che viveva, mi correggo. E so che tenermi distante da loro non è stato un errore. Tuttavia, saperlo lì, nel due, avere la certezza che si fosse creato una vita daccapo, che stesse bene, mi esonerava dal sentirmi in colpa per la sofferenza che, direttamente o meno, volontariamente o no, gli ho inflitto.
- Devo fare una cosa. Per lui. – conclude Johanna.
- Sì. – le rispondo, e mi sorprendo di come quella parola scivoli con naturalezza dalla mia bocca, senza che il cervello l’abbia stabilito. – Sì. – ripeto con più convinzione.
- Okay. – risponde lei, e alle orecchie mi arriva quello che identifico come un sospiro.
Sollievo? Stanchezza? Sofferenza? 
- Parte alle tre del pomeriggio da qui. Sarò da voi per ora di cena. –
Poi riattacca, senza aspettare che io replichi qualcosa alle sue parole. Tengo la cornetta tra le mani per un altro paio di minuti, quasi mi aspettassi che Johanna la riprenda e mi dica qualcos’altro, che Gale venga a salutarmi.
Scuoto la testa e scaccio questo pensiero, che trasuda egoismo e ipocrisia. Io l’ho chiuso fuori dalla mia vita. Io ho tagliato i rapporti con lui. Io, non lui. Questo è il minimo che potessi aspettarmi.
Poggio il mento sulla spalla e il mio sguardo cade sul bastone di legno accostato al muro della cucina. Ne abbiamo tre, in modo che Peeta possa usufruirne tranquillamente nel momento del bisogno, in qualsiasi angolo della casa si trovi.
Abbiamo spostato anche il suo studio al piano inferiore, così non è costretto a salire le scale con la protesi che diventa ogni giorno più pesante.
- Chi era? – mi chiede dal salotto.
È seduto sul suo sgabello, la gamba artificiale leggermente spostata verso fuori, un pennello intriso di tempera fra le dita solide.
Mi lascio cadere su un divanetto di fronte a lui, o meglio, di fronte al treppiedi e alla tela che lo nascondono alla mia visuale.
Peeta affaccia il capo dal dipinto che sta portando a termine.
- Kat? Chi era? –
Deglutisco. Gli darebbe fastidio? Se mi mostrassi dispiaciuta per Gale, intendo. E per quanto riguarda me, sarebbe giusto soffrirne? Dopo averlo praticamente tagliato fuori, dopo aver ridotto la nostra amicizia a un rapporto di gelida cordialità, fatto di sporadiche telefonate, conversazioni che sfioravano la banalità e che causavano solo imbarazzo reciproco, sarebbe giusto anche solo pensare di soffrire per la sua morte?
- Johanna. – rispondo.
Poi tiro un sospiro profondo e rumoroso, involontariamente. Somiglia molto a quello di Johanna, al telefono.
Peeta annuisce e fa cenno con la mano di non parlare più. Con lui non riuscirei a mentire nemmeno rimanendo in silenzio.
Lui si alza a fatica dal suo sgabello, trascinandosi dietro la gamba artificiale, e piomba con malagrazia sul divano a due posti, accanto a me. Mi cinge le spalle con un braccio e guida il mio capo sulle sue ginocchia.
Inizio a piangere. Non so se lo faccio perché mi angoscia vedere Peeta arrancare a ogni passo o se è perché provo a mettermi nei panni di Johanna, a immaginare come potrei stare se Peeta se ne andasse, o perché non so se essere dispiaciuta per Gale o no. O perché in me sale il sospetto di non riuscire a essere triste per qualcuno che è diventato una presenza sempre più marginale nella mia vita.
 
 
Johanna è più piena di quanto ricordassi: il viso ha assunto una forma rotondeggiante, non più spigolosa all’altezza del mento, le braccia sono più robuste e il punto vita si è allargato.
Non hanno avuto figli. L’avrei saputo, comunque, per mezzo delle rare telefonate che ci scambiavamo. Tiene i capelli legati in una pratica coda di cavallo, le punte leggermente sfibrate.
Ha grandi occhiaie che le solcano il viso.
Mi saluta con un rapido bacio sulla guancia.
 
 
Non vado per boschi da anni, ormai. Da quando Peeta ha iniziato a soffrire per via della protesi, più  o meno. Scopro con piacere che il mio corpo non si è ancora disabituato al rumore dell’acqua che scorre, poco lontano, o al profumo pungente dei fiori che di tanto in tanto trapuntano il terreno.
A merito di Johanna, va detto che nemmeno lei fatica molto a camminare attraverso erbacce e tronchi abbattuti che si stendono per terra.
- Nel due non c’erano boschi. Non molti, almeno. Sicuramente meno della metà del sette o del dodici. – dice, più a se stessa che a me.
Io non rispondo. Mi piace il silenzio degli alberi. Anche a Gale piaceva. O no?
Johanna inizia a picchettare le dita contro il vaso di ceramica che stringe al petto. Intuisco quale sia la sua utilità, ma non mi sono ancora azzardata a far domande.
Ho il sospetto che c’entri qualcosa con ciò che deve fare per Gale. Una volta, durante una delle nostre battute di caccia, mi aveva parlato di quanto gli sarebbe piaciuto fuggire dal dodici e restare lì, nei boschi, fra gli alberi e il canto degli uccelli.
Non possiamo, gli rispondevo io, ogni volta che tirava fuori l’argomento.
Lui sbuffava.
Sei sempre la solita guastafeste, Catnip, replicava lui, fintamente offeso. Ci verrò a vivere lo stesso, borbottava poi, superandomi con un paio di grandi falcate, anche da morto.
Io mi mettevo a ridere. Perché da morto non puoi certo vivere, tantomeno nei boschi.
Credo di capire cosa Gale abbia chiesto di fare a Johanna. Imbocco la strada che porta allo spuntone di roccia che era diventato il nostro punto di ritrovo ufficiale. Ho il tempo di percorrere circa un metro, quando Johanna mi richiama.
- Oh, dove stai andando? – mi chiede, con una punta di rimprovero nella voce.
All’improvviso, ho come la sensazione di aver fatto qualcosa di male. Ma cosa? Non ho parlato, non mi pare di aver fatto gesti interpretabili come insulti o cosa.
- Gale mi ha parlato di un ruscello. – dice lei, gettando sguardi spaesati intorno a sé, cercando di riconoscere un segno, qualcosa, in un bosco che non le appartiene. – Mi ha raccontato che andava a pescare lì. Qualcosa del genere. Nel due non ci sono ruscelli, se non artificiali. Oh, ma insomma, mi ascolti? Questi alberi hanno una capacità uditiva migliore della tua! – sbotta, quando si accorge che non presto attenzione alle sue parole.
Un ruscello.
Che stupida. Come ho potuto anche solo pensare che il luogo dove Gale volesse vivere da morto fosse… lo spuntone di roccia? Che poi, esiste ancora? Magari è stato oscurato dal cespuglio di bacche o dalle erbacce che nessuno si prende più la briga di domare.
- Allora, bella addormentata, lo sai o no dov’è questo ruscello? Se no potevo anche venire da sola. –
Non so se essere felice o no del fatto che Johanna sia riuscita a conservare il suo tagliente sarcasmo nel tempo.
- Sì. Credo… sì. – rispondo.
Mi ricordo del ruscello, mi ricordo delle piccole cascatelle d’acqua che sgorgavano dalla roccia e che confluivano in un laghetto circolare. Quasi vedo il luccichio dei pesci argentati che nuotavano tranquilli, e il sorriso fiero di Gale ogni volta che ne beccava uno.
Ritorno sui miei passi e faccio da guida a Johanna, allargando piccoli varchi in mezzo all’erba che s’infittisce sempre di più, lasciando che i rami degli alberi più bassi mi graffino le gambe.
 
 
Il laghetto è più piccolo di quanto ricordassi, e una cornice di fili verdeggianti ne lambisce gli argini. L’acqua scorre placida in scroscianti cascatelle, infrangendosi poi nello specchio trasparente e piatto, attraverso cui è possibile scorgere i ciottoli del fondale e qualche pesce solitario.
- Dovrebbe essere questo. – dico.
Johanna scrolla le spalle e mi rifila un’occhiata torva.
- Se non lo sai tu… - mi risponde.
-
È questo. – replico io, con convinzione.
- Be’, uno vale l’altro, alla fine. Tanto… - s’interrompe, e temo che inizi a piangere.
Non voglio che pianga. Non so come reagirei. Di certo, non l’abbraccerei, ma è probabile che mi metta a singhiozzare di rimando. Non voglio, non deve succedere.
-… è morto. – conclude.
Ed ecco di nuovo il sospiro rumoroso, carico, pesante, così lungo che temo che possa soffocare.
Johanna si prende tutto il tempo per chinarsi sulle ginocchia, togliere il coperchio traballante del vaso di ceramica, e osservare il laghetto. Ne scruta la superficie trasparente e innocua, quasi s’aspettasse di trovare qualcosa di minaccioso al suo interno. O forse cerca un dettaglio, un qualcosa che le suggerisca di essere nel posto giusto.
Una folata di vento solleva una nuvoletta di polvere grigia dall’interno del vaso.
M’irrigidisco e impedisco a me stessa di respirare. Ricordo come la polvere dei morti del 12 mi ha solleticato il naso, quando sono venuta qui dopo il bombardamento. Ora so chi sto accogliendo nei polmoni, ma non sono sicura di voler respirare ciò che resta di Gale.
Johanna scuote impercettibilmente la testa, poi rovescia lentamente il vaso. Parte della cenere finisce col velare la superficie del laghetto. Qualche granello rimane incastrato in mezzo all’erba, qualche altro viene trascinato chissà dove dal vento. Sicuramente alcuni di loro si sono intrufolati in me, si sono appiccicati ai miei capelli, hanno aderito alla mia pelle, perciò dico a me stessa che è inutile trattenere il respiro.
Johanna deglutisce così rumorosamente che riesco a sentirlo in maniera chiara e distinta. Si tira su e batte le mani sulle ginocchia, per togliere dai jeans l’erba bagnata che vi si è appiccicata.
Apre le labbra, poi le serra di scatto, emette suoni indistinti, come di parole smorzate sul nascere. Capisco che vuole dirmi qualcosa, ma che allo stesso tempo cerca di trattenersi.
- Mi ha parlato anche di un gesto… un qualcosa che fate voi del dodici ai funerali. O che facevate, ora non lo so… voi e le vostre assurde tradizioni da rustici zoticoni. – biascica.
Non nascondo che il “rustici zoticoni” un po’ mi offende, ma la lascio parlare, lascio che se la prenda genericamente con la gente del mio distretto. So che è arrabbiata, avverto che sta soffrendo. Conosco la vecchia Johanna più della nuova, e so che il fantasma della donna forte e indisponente che ho fatto fatica a sopportare in passato si sta facendo vivo, proprio ora, proprio adesso.
Johanna, che combatte la rabbia mettendo in mostra il suo pungente sarcasmo. Johanna, che nasconde la sofferenza gettando insulti gratuiti a chiunque.
- Ne sai qualcosa? Di questo gesto. Oh Dio, ma perché non ascolti? – sbotta, irata e infastidita.
Stringo i pugni, trattenendomi dal rifilarle qualche cattiva parola. Non è l’unica a essere dispiaciuta, sconvolta, sofferente. Non è l’unica, accidenti, a piangere intimamente la perdita di una persona cara. Perché, comunque la si veda, Gale è stato un tassello importante, fondamentale nel complesso puzzle che è la mia vita. E so che potrebbe suonare egoistico, ipocrita, menefreghista, ma mi manca la garanzia che comportava saperlo vivo. Lontano, irraggiungibile – è meglio se è lontano, la pensavo così, e non do torto alla Katniss che ha elaborato un tale pensiero -, inoffensivo, ma vivo.
Al sicuro.
Gale, che calciava con disprezzo la polvere di carbone per strada. Gale, ridotto in cenere, un nuovo strato di granelli grigiastri che si adagia su altra polvere.
- Sì. – rispondo a Johanna, che ha iniziato a trucidarmi con lo sguardo. – Si usa ancora, ogni tanto. –
Mi avvicino a lei, che stringe ancora al petto il vaso vuoto, e le mostro il qualcosa di cui ha parlato.
Mi porto le tre dita sulle labbra, schioccando un bacio silenzioso sulla pelle. Poi sollevo il braccio verso l’alto, verso il cielo. Ricordo della mietitura della settantaquattresima edizione, di quando l’intero distretto mi salutò a quel modo, di quando io stessa ho utilizzato questo gesto per rendere onore a Rue, di quando, al funerale di mio padre, davanti a una tomba prettamente simbolica, vuota, un mucchio di persone, una dopo l’altra, come in una sorta di domino, si portò le tre dita alla bocca e levò il braccio verso l’alto.
- Tutto qui? – chiede Johanna, un po’ delusa.
- Tutto qui. – rispondo io.
Cosa si aspettava? Un balletto, forse?
Mi imita in maniera impacciata. Deglutisce rumorosamente, di nuovo. Mi chiedo se piangerà, e prego che aspetti di essersi allontanata da me per farlo.
Non ho la stessa forza di Peeta, non ho la sua capacità di confortare la gente. Scoppierei a piangere io, nella migliore delle ipotesi. Nella peggiore… nella peggiore scapperei.
- Cosa significa? – mi chiede.
Mi sfugge un sorriso, che somiglia più a un lieve sbuffare, ma non sono infastidita dalla sua domanda. Avverto una sensazione che riesco a identificare soltanto come nostalgia.

È stato mio padre a spiegarmi il valore di questo gesto tipico del distretto.
- Significa grazie, significa ammirazione, significa dire addio a una persona che ami. –
Ed è allora che succede: una minuscola, luccicante gocciolina salata scivola sul viso di Johanna.
Mi chiedo se posso permettermelo anch’io. Di piangere, di dire “grazie” a qualcuno dalla cui presenza mi sono voluta isolare, di proclamare la mia ammirazione verso qualcuno che ho quasi completamente ignorato negli ultimi quarant’anni, di annunciare il mio amore per una persona che ho ritenuto preferibile non considerare più. Sono davvero degna di farlo, mentre mi trovo accanto a Johanna, l’ultima persona che avrei mai immaginato costruisse un rapporto con Gale, e che tuttavia ha più diritto di piangerlo di me?
In tutto questo, so cosa direbbe Gale.
Sei sempre la solita guastafeste, Catnip.
 

 
Angolo autrice:
Non mi dilungo molto, anche perché creare l'html è stato più palloso del solito.
L'ho scritta giorni fa, ora eccola qua.
Spero di non essere andata OOC con la mia Jo ♥
Bacio.
S.
 
 
  
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