Il fatto è che Rukawa mi vuole parlare, e io non sto nella pelle. Non aspetto altro da mesi, lo amo, e intendo dichiararmi oggi, anzi adesso, nel preciso istante in cui varcherò la soglia della palestra.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hanamichi Sakuragi, Kaede Rukawa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Disclaimer:
Personaggi tratti dal manga di Takehiko Inoue (ovvero Il Maestro).
Nessun riferimento a fatti o a persone reali. Naturalmente non
c’è niente di mio, e non traggo alcun guadagno
dalla pubblicazione di questa storia.
Note: -
Scritta per il compleanno della mia adorata Momina! <3 Ho
cercato di renderla fluffosa e lovvosa, perché so che lei,
da brava Hippie, ama il love generale! xD - POV di Hanamichi. - In prima persona
perché la mia lovva ama la prima persona e ciò
che lei ama è legge. ù__ù - Si svolge verso la
fine del terzo anno di liceo di Hanamichi e Kaede. - Mi sa che i
personaggi sono un po’ OOC, ma a dirla tutta credo di
essermela cavata piuttosto bene, perché sia Kaede che
Hanamichi sono una bella rogna in quanto a caratterizzazione. Evviva la
modestia, ecco. ù_ù - Il titolo, come
sempre, fa schifo, ma giuro che non mi veniva nulla di caruccio .__.
One on One
Mi dirigo a passo
veloce verso la palestra. Forse sarebbe
più esatto dire che corro come un pazzo
verso la palestra, ma un eufemismo qua e là ci
può anche stare. Ho trovato un
biglietto di Rukawa – infilato nel libro di storia,
l’angolo del foglietto di carta rosa che spuntava dal bordo
del libro, un biglietto che doveva essere notato e anche un biglietto
riciclato da una delle sue tante fan(atiche): rosa shocking con sopra
cuoricini disegnati e la scritta “Rukawa ti amo”. Sul retro,
però, nella sua grafia sottile e chiara,
c’è scritto che mi vuole parlare e che mi aspetta
in palestra dalla fine delle lezioni fino alle sei di questa sera. Io, ovviamente, sono
già in ritardo, e solo per colpa di Yohei e gli altri. Beh,
più gli altri che di Yohei. Il fatto è
che Rukawa mi vuole parlare, e io non sto nella pelle. Non aspetto
altro da mesi, lo amo, e intendo dichiararmi oggi, anzi adesso, nel
preciso istante in cui varcherò la soglia della palestra.
Appena lo vedrò, gli griderò che lo amo e che di
Haruko non me ne frega niente, che non me ne importa nulla dalla fine
del primo anno, che esiste solo lui e il mio amore per lui e che una
qualsiasi ragazzina di questa scuola – città,
paese, terra, universo –, per quanto bella, non
riuscirà mai a farmi cambiare idea. Spererei in una
dichiarazione anche da parte sua, ma mi pare di vederla già
un po’ troppo rosa e fiori.
Finalmente sono
arrivato. Il tragitto non mi era mai sembrato tanto lungo. Fermo,
davanti alla porta della palestra, sento il rumore ritmico della palla
da basket colpire il pavimento, il suono tintinnante che fa quando
entra nel canestro e il violento colpo di quando ricade a terra. Apro la porta e lui
è lì, maglietta nera e shorts bianchi, chinato in
mezzo alla palestra per raccogliere la palla. Due palleggi, si mette
in posizione e tira, una traiettoria perfetta e la palla entra nel
cesto. Perché lui sembra non sbagliare mai. La palla rotola fino a
me, ancora in piedi sulla soglia; mi nota e il suo volto è
inespressivo come al solito. Le parole della mia
dichiarazione sono bloccate in gola, sapevo di averla vista troppo
rosa, quasi quanto quel bigliettino che sento come una presenza
ingombrante nella tasca dei pantaloni, un peso insopportabile. Lui recupera la palla
e ricomincia a tirare facendo sempre canestro. Non sembra intenzionato
ad aprire bocca e io inizio a spazientirmi. Che situazione schifosa. Mi muovo, deciso a
prendere la situazione in mano, ormai la tensione e l’ansia
hanno raggiunto livelli inauditi. Mi posiziono sotto il canestro e
raccolgo tutto il mio coraggio. C’è di buono che
l’anno scolastico finirà tra pochi giorni, quindi
una mia dichiarazione non rovinerà le sorti della squadra.
Al massimo si sentirà disgustato da me. Già, al massimo gli
farò solo schifo. Faccio per aprire
bocca ma lui mi precede.
“Ormai la
scuola sta finendo. Mancano pochi giorni” mi fa sapere con la
sua voce incolore, “quindi, prima di dirti addio per sempre,
vorrei farti una domanda e una proposta. Ti sta bene?” chiede
lui, continuando a tirare a canestro.
“Mi sta
bene.” Rispondo, perché non
c’è altro da fare, in fin dei conti.
“Perché
mi odi? E non tentare di rifilarmi la solita cazzata che, siccome tu
ami la Akagi e lei ama me, di conseguenza è naturale che tu
provi odio nei miei confronti, perché ormai non ci crede
più nessuno. La Akagi non te la fili più dalla
fine del primo anno. Se proprio devi odiarmi, almeno non farlo per la
ragione sbagliata.”
Le sue sono parole
dipinte nell’aria, sbuffi di fumo caldo
nell’inverno ghiacciato che c’è al di
fuori di questa palestra. Al di fuori di noi. E me lo dice mantenendo
il suo tono piatto, di finto disinteresse, ma tra le righe, nelle
sfumature invisibili delle parole, mi chiede cose che invece hanno
valore, per me, per lui.
“Ecco…”
inizio io, ma le parole non escono. Da una parte sento il bisogno di
inventare una bugia, ma mi sembra così disonesto e vigliacco
che quel pensiero viene subito cancellato. Lui continua a tirare.
Io continuo ad amarlo. Posizione. Tiro.
Canestro. Sta per tirare per
l’ennesima volta quando butto fuori un “Non ti
odio” che suona strano persino alle mie orecchie; la palla
compie un mezzo cerchio in aria, rimbalza sull’anello, ed
esce. Rotola fino ai miei piedi e io la raccolgo. Sorrido, un sorriso
vero, perché mi viene semplicemente naturale, adesso, in
questo istante in cui lui è sorpreso e io sono solo me
stesso. Quasi non ci credo che appena due anni fa avrei fatto carte
false per vedere una toppata così grossa in piena partita;
sembra quasi la vita, i ricordi di qualcun altro, qualcuno che non sono
io, perché adesso farei carte false per poterlo solo
sfiorare. Lui fissa la palla del
mancato canestro e mi viene il dubbio che sia sorpreso
perché ha sbagliato e non perché gli ho detto che
non lo odio, ma la palla è andata fuori, per cui va bene lo
stesso. E lo amo ancora, come un minuto fa, glielo vorrei dire, adesso.
“Non mi
odi?” “No.” “E tutte le
scenate, le risse, le urla?” “All’inizio
erano vere. Volevo superarti nel basket e rubarti il cuore di Haruko.
Dopo credo di aver solo cercato di evitare di farmi male.”
Glielo dico
perché ormai non c’è più
niente da perdere, è una confessione, questa. Una
confessione dove ammetto che le mie uscite, le mie spacconate, le mie
risate, tutto il mio essere di questi tre anni sono il completamento
perfetto di una maschera. Ma lui lo sapeva
già, perchè non ha mai avuto bisogno di parole.
“Hai
mentito. Sempre.” “Lo fai
anche tu. Non sei così fuori dal mondo come vuoi far
credere, Rukawa. Ti sei persino accorto che Haruko non mi piace
più.” “Io non
mento, fingo di ignorare il resto del mondo. E’
diverso.” “Sì,
può darsi. La domanda l’hai fatta, adesso dimmi
qual è la proposta.” “One on One.
Si arriva a venti.” Dice lui, un leggero sorriso e uno
sguardo di sfida negli occhi blu. Credo che dovrò rimandare
ulteriormente la mia dichiarazione, ma va bene così. “Ci
sto.”
C’è
solo il rumore di gomma sul parquet della palestra che riflette le
sagome dei nostri corpi che, per brevi istanti, esisteranno solo
l’uno per l’altro.